mercoledì 30 ottobre 2013

Le "ricette che fanno casa": la Pasta alla Luxor



Dopo aver parlato di ricette di nonne e di mamme, mi piace concludere questa avventura culinaria con un piatto che “fa casa” per la fra e il Marito Paziente: la pasta alla Luxor.
Come tutte le ricette che l’hanno preceduta, anche questa è una di quelle ricette che alla fine ti dici “beh, ma tutto qui?”. Ebbene sì: tutto qui.
La ricetta come ve la propongo è una mia interpretazione di un piatto mangiato in un ristorante. Il ristorante del nostro primo anniversario. La fra e il Marito Paziente erano due sedicenni e quella prima uscita serale insieme ebbe un sapore indescrivibile: crescita, importanza, riconoscimento di un evento anche da parte degli altri. Insomma la fra e il Marito Paziente erano due ragazzini che vivevano ancora a casa da mammà ma che vivevano la loro storia d’amore con tutte le emozioni amplificate tipiche di quell’età. Erano un po’ imbarazzati e impacciati quella sera, li potevi fiutare a distanza. Così quando arrivò la cameriera si fecero consigliare e lei consigliò le farfalle alla Luxor. Alla domanda su come fossero fatte, ci venne detto che c’erano dentro spinaci e un po’ di pomodoro. La fra fece una faccia inequivocabile che indusse la ragazza a dire subito “ma pochi eh”. Insomma la fra si convinse a provarli.
Fu amore assoluto, un gusto che alla fra piacque tantissimo e che negli anni ha riprodotto e perfezionato. L’ha fatta in padella, nel bimby, l’ha fatta provare ai patati, l’ha proposta agli amici, insomma è un sapore ormai tipico chez la maison latana.
Per chiunque io la prepari, io la preparo ancora anche per quei due ragazzini. Mi sembra sempre un po’ che mi guardino con stupore: ma veramente siamo ancora noi? Ma veramente ci teniamo ancora per mano?
passiamo alla ricetta, ché ho il Marito Paziente lontano e finisce che mi piglia assai male, stasera.
Per fare una pasta alla Luxor per 4 persone occorreranno:





- un po’ di spinaci. Lo so che do sempre le unità di misura alla cacchio ma dipende effettivamente da quanto vi piacciono gli spinaci. Io ne metto (non ne ho di freschi) 2 cubetti di quelli surgelati un po’ grandini. Se li trovate freschi e avete la voglia e il tempo di pulirli ovvio che viene meglio, ma con quelli surgelati il risultato è comunque ottimo
- un bel pezzetto di burro. Dipende da quanti spinaci si usano, per le mie quantità io ne metto circa 20g (sì lo so che per qualunque cuoco 20g sono pochissimi, ma io son la fra non Cracco)
- un po’ di pomodoro. Anche quello va a gusto, in genere io vado a occhio, sul colore che voglio ottenere, comunque due o tre cucchiai dovrebbero essere una dose giusta
- 1 confezione di panna da cucina (occhio: se usate la UHT va bene, se invece preferite quella fresca ce ne va meno perché è più liquida, io in questo caso preferisco una via di mezzo, una UHT liquidina)
- una generosa pizzicata di sale (stiamo usando tutti ingredienti tendenzialmente dolci o comunque non salati!)
- 300g di pasta corta (le farfalle sono la morte sua ma se non le avete viene benissimo anche con penne, maccheroni etc)

Il procedimento potrebbe essere benissimo inserito alla voce “for dummies” di un qualsiasi libro di cucina.
Prendete gli spinaci, li mondate oppure li fate scongelate. Li passate nel mixer (a noi piacciono ben tritati e nella ricetta originale erano così, ma magari a voi piacciono anche più grandi).
In una bella padella li mettete con il burro e fate rosolare e poi cuocere un po’ (non devono spapparsi eh!); aggiungete il pomodoro, girate due o tre volte e poi mettete la panna e fate addensare, salando.
Fate cuocere la pasta e conditela con il sugo, saltandola in padella per far legare bene la pasta con il sugo.
Portate in tavola e servite! È una ricetta che in genere permette di far mangiare un po’ di spinaci ai miei figli, spero accada anche ai vostri!

(per) fortuna



Potrebbe sembrare una storia da categoria “sfighe varie”, invece io stavolta non l’ho percepita così. Dietro a tutta questa orrenda avventura c’è stata sì una componente di sfiga, ma sicuramente una responsabilità personale piuttosto elevata.
La fra soffre di calcoli, e conseguentemente coliche, renali. Quello, fino a che non scopriremo cosa li causa, possiamo ascriverlo alla colonna sfiga della vita della fra; diversamente questo avrebbe dovuto portare la fra a essere più attenta a dei segnali che a riguardarli poi erano anche abbastanza netti.
Tutta presa da un sacco di casini medici tra metà giugno e luglio (prima una cista ovarica che sembrava dovesse essere tolta con urgenza, poi la ciste non c’era più, poi s’è scoperto che era funzionale, poi le è venuta una gastroenterite che si è ripresa in dieci giorni, insomma cose così) e da altre cose per lei assolutamente fondamentali ad agosto (il mercatino, cui la fra non avrebbe rinunciato per NULLA al mondo, visto che, oltre a Instamamme, è l’unico lavoro che la fra fa e che aveva dedicato i 10 mesi precedenti a produrre oggetti nuovi), rassicurata sulla staticità del calcolo grosso e sulla piccolezza dell’altro, si era detta “ci si pensa a febbraio e stop”. Del resto, dolori, in Italia non ne aveva avuti.
Arrivati in Costa d’Avorio siamo stati tutti molto presi da la rentrée e la fra e il Marito Paziente sono stati portati a viva forza nel vortice della scuola, tra tragitti in macchina, ritorni stancanti, docce, cene e l’Italia non era stata proprio rilassante alla fine (la fra mercatineggiava, che sì è bellissimo e tutto quello che vuoi ma è stancante da morire, e il Marito Paziente stava coi patati), quindi stavamo picchiando sull’acceleratore per inerzia in attesa che le cose prendessero una routine più umana.
Finché una sera la fra sente un dolore forte, che le pare simile alla colica renale ma con ripercussioni puntuali anche pelviche, che la fa star piegata sul divano e soprattutto che si accompagna ad una febbre a 38,5° salita nel giro di 5 minuti. I coniugi latana pensano che sia strano, aspettino che passi con un antispastico e pace. Il giorno dopo febbre senza dolore, poi più nulla. Beh ok, forse il calcolo faceva le bizze e si sta organizzando per uscire. “Vuoi tornare in Italia?” fa il Marito Paziente alla fra, che rifiuta categoricamente: a brevissimo ci sarà l’avvicendamento tra vecchio e nuovo collega e Marito Paziente dovrà lavorare a tempo doppio e poi francamente se è proprio necessario ok, altrimenti sono un sacco sacco di soldi.
Insomma si va avanti con una fra che però inizia a sentire pesantezza a livello dei reni e occasionalmente doloretti: in quei casi si mette tipo sacra sindone sul letto e in genere passano. Però, ancora, la fra si ostina a non voler tornare in Italia.
Poi, la notte dopo il suo compleanno, proprio all’inizio di questo 38° anno d’età nuovo di pacca, la fra ha una colica renale. Prende l’antispastico e non le fa nulla, poi sveglia il marito paziente, poi aspettano che sia un’ora decente per chiamare il nuovo collega Maurizio Diolobenedica a babysitterare i patati. Sono passate 4 ore dall’inizio della colica e la fra va in ospedale piegata come una sedia a sdraio dal dolore. Flebo di antidolorifico, ecografia, tac con contrasto (sta diventando un’abitudine), analisi del sangue. La tac evidenzia 4 calcoli, di cui uno grande ostruttivo nell’uretere (che è il tubicino che unisce reni e vescica), le analisi del sangue danno un quadro di infezione, ma nessuno dà alla fra un antibiotico e i coniugi latana ignorano il campanello dall’allarme che in diretta dall’Italia dal nostro amico Fugraziealuichetuttoincominciò, biologo, dice “occhio, c’è un’infezione”. Beata fiducia nei medici ivoriani.
Ovviamente si decide per un ritorno in patria e si fissa la data per il sabato successivo alle due del mattino (una cosa comoda comoda).
La notte tra il martedì e il mercoledì successivo, però, la fra si sveglia con la febbre alta, si paracetamolizza, sfebbra e rimane a dormire. La mattina ha febbre che sale in verticale, si decide di riandare in ospedale. Rifanno le analisi, non le fanno l’emocromo perché ma no abbiamo quello di sabato, non serve (‘cci loro), in compenso fanno un’analisi che valuta il livello infettivo: la proteina c reattiva, una sorta di VES (che la fra conosce perché la fecero ai patati appena nati), che risulta essere a 25 su un massimo di 5. Incredibilmente continuano a non dare antibiotico. Tornati a casa dopo flebo di paracetamolo, dopo circa 45 minuti la fra ha 40,5 di febbre. Chiamiamo in Italia il Dottor Aldo De Paperis, il riferimento in casa Latanasenior per ogni evenienza medica (e ci sarà pure un perché), al quale mandiamo tutta la documentazione medica e il quale ci consiglia antibiotico che prontamente la fra inizia a prendere. Il paracetamolo abbassa la febbre solo per un’ora e può prenderlo per 3 volte al giorno, quindi fino a giovedì mattina la fra passa 21 ore con la febbre che oscilla tra i 39,5 e i 40,5, no ma bei momenti, credeteci sulla parola.
La mattina dopo Marito Paziente pensa di chiamare un altro medico: quello viene e preleva il sangue alla fra, poi nel pomeriggio torna e mette la fra sotto flebo di doppio antibiotico a dose pesante e paracetamolo, dicendo che con quella cura la cosa guarirà e che, soprattutto, la fra non avrà più febbre. La fra ci crede, vuole crederci, deve crederci: l’indicatore di infezione di cui sopra ora è 221 che significa praticamente setticemia.
Quando, all’una del mattino, la fra ha di nuovo 40,5° ai coniugi Latana prende male, ma male male. Iniziano a vedere tutte le cazzate fatte negli ultimi giorni: essersi fidati di medici ivoriani, non aver prestato troppo ascolto a Fugraziealuichetuttoincominciò, non aver anticipato il viaggio, non aver programmato prima un viaggio, non aver visto un medico al primo dolore con febbre, non aver considerato i reni una priorità. Tutte ce le siamo attribuite, atterriti, senza neanche il coraggio di guardarci in faccia. Una setticemia che non guarisce e non reagisce agli antibiotici si sa dove porta, è inutile nasconderselo: ci si muore, di setticemia.
Diventa importantissimo che la fra sia in grado di tornare in Italia, la notte dopo; diventa importante che un medico viaggi con lei e ci si organizza in tal senso. La giornata di venerdì vede finalmente la svolta: l’antibiotico inizia a fare effetto, invertendo il verso dell’indicatore infettivo e la febbre non viene più. Ovvio, la fra non si regge in piedi, e non è un modo di dire.
Durante la giornata acquista le forze necessarie almeno al trasporto di se stessa fino all’aereo. Il viaggio fino a Parigi va bene, a Parigi tutta la debolezza del mondo le cade addosso, fa l’ultima flebo, saluta il dottore e piano piano trascina se stessa e il suo bagaglio a mano fino al nuovo aereo. Due ore dopo è a Roma, dall’aeroporto va direttamente in ospedale, dove la ricoverano.
E arriviamo a oggi, scrivo dall’ospedale: sono ancora sotto antibiotico, i valori stanno tornando normali e ho perfino ripreso a mangiare (dopo quasi 5 giorni). Stanno cercando di capire cosa possa aver causato l’infezione e domani mi faranno la prima operazione in anestesia generale per togliere i calcoli dagli ureteri, per quelli renali la procedura pare sarà un’altra.
Però, nonostante tutto, nonostante la paura dell’intervento, nonostante la lontananza da Marito Paziente e i patati (atroce), nonostante la solitudine ospedaliera… sono felice. Grata. Ho il cuore gonfio, sorrido a tutti. Guardo fuori dalla finestra questa città che in quella notte orrenda ho temuto non vedere più, vedo i tetti, la luce, le strade e ogni cosa mi pare meravigliosa; perfino il cibo dell’ospedale ha un sapore meraviglioso. Mi sembra di aver ricevuto un dono, così lo percepisco, lo apprezzo e lo vivo.
Mi sto godendo ogni respiro, ogni dito che batte sulla tastiera, ogni sapore, ogni lettura, ogni momento in cui posso pensare. Mi sto godendo la possibilità di farlo ancora. Forse questo 38° anno non è iniziato bene, ma in questo momento è assolutamente bellissimo e l’unica parola che mi viene in mente quando penso a tutto questo è grazie.

giovedì 24 ottobre 2013

Le "ricette che fanno casa": il Risotto giallo di nonna Latana



In genere arrivava una telefonata: “sabato stiamo a cena da voi, prepara il risotto”, a volte la telefonata arrivava direttamente il sabato pomeriggio in questione. Una volta fu una cartolina con scritto solo “stiamo tornando, prepara un kg di risotto”.
Erano due amici dei miei che, un giorno, chissà poi perché, abbiamo un po’ perso. Sono stati la cornice dei miei sabati, delle feste, della vacanze. E in tutte quelle istantanee c’era sempre lui: il risotto giallo. Mica un piatto ultraraffinato: un piatto normalissimo, ma che per quelle due coppie di amici evidentemente aveva un sapore particolare se mangiato insieme.
Ai tempi credo che mia madre fosse la principale responsabile del consumo casalingo su base nazionale di zafferano. Non esisteva stare senza, mai successo.
Mia mamma, nonna Latana, non ha ricevuto una grandissima educazione culinaria da sua mamma, come già detto mia nonna non amava cucinare, perciò trucchetti e ricette immagino le siano stati tramandati dalla suocera. A casa dei miei nonni paterni, sei figli all’attivo in 17 anni, con l’attitudine meridionale ad ospitare amici, parenti e chiunque avesse bisogno di un punto di appoggio, tra figli, nipoti, generi, nuore, varie ed eventuali, c’era la necessità di fare cose semplici che portassero via poco tempo e di abbattere tempi e fatica inutili. Suppongo sia da lì che mia madre abbia preso l’abitudine di usare la pentola a pressione, soprattutto per fare il risotto.
Non che a me non piaccia il suo risotto, lo adoro, ma lo adoro più che altro per tutte le immagini che la memoria mi proietta sulla retina ad ogni forchettata.
Non ho seguito le orme materne sulla preparazione del risotto, con immagino sommo scorno di mia madre.
Amo troppo sentire la pesantezza sul polso mentre mescolo il riso col cucchiaio di legno, amo l’odore del riso cotto col brodo. Amo scegliere la consistenza del riso in base all’umore del giorno.
Ed è anche per questo che il risotto, a casa Latana non si fa neanche col Bimby: solo nel wok, senza deroghe. Se non si ha abbastanza tempo o voglia, non si fa e basta.
Così, mentre la ricetta di mia madre prevede tempi certi e quantità tabellate di brodo, riso, etc, il mio è molto più “a sentimento”. Ovviamente questo lo rende abbastanza diverso per consistenza, ma il sapore rimane quello e per me, nonostante tutto, è una delle ricette “che fa casa” per antonomasia (il che mi porta a comprare e portarmi lo zafferano dall’Italia) (il migliore, sperimentato in anni e anni, tra quelli “commerciali” è il “3 cuochi”, sappiatelo) (purtroppo l’ho finito e vi assicuro che fa la differenza L )
Le varianti che sono state negli anni sperimentate in casa Latanasenior hanno previsto l’introduzione di funghi secchi, funghi freschi (rarissimamente), fegatini di pollo. L’unica variante tollerata in casa Latana è quella con i funghi porcini secchi (che poi tra le varie cose, è l‘unica con ingrediente facilmente conservabile anche qui), che, manco a dirlo, ci portiamo dall’Italia.
Per fare un buon risotto giallo ai funghi per 4 persone occorrono:

- 1 cipolla bionda
- un po’ di burro (non chiedetemi quanto: va a gusto e a dieta. Io ne uso solo tipo 10g, Cracco mi perdonerà)
- circa 320g di riso (mia mamma in pentola a pressione usava il parboiled, l’ideale sarebbe il Carnaroli; io devo prenderlo sottovuoto in Italia e quindi ho dovuto ripiegare sull’Arborio: il risultato non è male)
- brodo. E qui nasce il problema: quanto? Quale? Mia mamma usava il dado (argh) ai funghi o di carne e mi pare che per 4 persone usasse 1 litro d’acqua e due dadi. Io il dado l’ho abolito dal vocabolario da quando ho il Bimby e me lo faccio da sola, quindi vado serenamente a occhio. Metto un pentolino di acqua con un po’ di dado vegetale Bimby e poi assaggio: se troppo forte aggiungo acqua, altrimenti metto altro dado. La quantità la valuto strada facendo, se ne serve ancora, rimetto il pentolino sul fuoco.
- una manciata di funghi porcini secchi (anche qui, non c’è una quantità precisa e definita, va a gusto)
- 2 bustine di zafferano (del “3 cuochi”; avendolo finito mi sono resa conto che di altri ce ne vogliono anche 3 se non 4)
- un po’ di burro, se volete mantecare, ma è assolutamente facoltativo.

Il procedimento è semplicissimo:
Mettete i porcini secchi a bagno in acqua tiepida.
Prendete la cipolla e grattatela (ho sempre assolutamente odiato la cipolla cotta sotto i denti nei sughi e nei primi, quindi chez latana si fa così) oppure fatela a fettine sottili. Fatela imbiondire nel wok antiaderente (secondo me la pentola migliore per fare il risotto).
Nel frattempo mettete il pentolino col dado (Bimby o industriale che sia) sul fuoco e portate a bollore (il brodo deve sempre essere caldo alla stessa temperatura del riso, altrimenti ne ferma o rallenta la cottura).
Aggiungete il riso alla cipolla nel wok e fate “tostare” (sostanzialmente il riso cambia un po’ colore, ma non deve assolutamente scurire) mescolando.
Aggiungete un primo mestolo di brodo.
Scolate i funghi e strizzateli, quindi aggiungeteli nel wok.
Aggiungete altro brodo e poi lo zafferano (aprite le bustine non sulla pentola, altrimenti il vapore fa rimanere attaccata la polvere alla carta!)
A questo punto potete continuare ad aggiungere un mestolino di brodo per volta; se invece avete una vita oltre al risotto, che contempla due bipedi sotto il metro e trenta e necessità fisiologiche sparse, Cracco perdonerà anche voi se, come la fra, metterete una maggiore quantità di brodo tutta insieme. Ovviamente non lo fate la prima volta, ma solo dopo aver capito quanto brodo serve in tutto, altrimenti rischiate di mangiare colla di riso in brodo di funghi, che non è esattamente lo scopo del piatto.
Ogni qual volta il brodo sarà assorbito, assaggiate per valutare se c’è ancora bisogno di aggiungerne o no. Ne caso ne serva ancora ma il riso sia già “saporito”, aggiungete serenamente solo acqua calda.
A cottura ultimata, lasciate riposare qualche minuto, poi (se volete) aggiungete una noce di burro per mantecare e dargli quella consistenza più “rotonda” e scivolosa. Se invece siete a dieta non lo mettete ma tenete presente che senza il burro il riso tenderà a fare “gnocco”, quindi andate a tavola in fretta.
Et voilà!


lunedì 21 ottobre 2013

Cambio della guardia



Domenica è andato via il collega di Marito Paziente, con la moglie, Marianna Santasubito, e la bimba.
E io sono stata proprio brava eh. Ho augurato loro buona vita, li ho abbracciati, ho detto “non sparite", ho chiuso la porta.
E poi ho pianto.
Ho pianto per loro che andavano via, ho pianto per me che restavo.
Stare qui, l’ho già detto, non è facile. Certi periodi va bene, altri meno, altri ancora sono pessimi. In Italia li affronteresti con telefonate chilometriche, andando a farti una passeggiata, uscendo a prendere un caffè con un’amica. Tutte cose che qui ti son negate, per un motivo o per l’altro. E allora apprezzi anche cose che in Italia daresti per scontate, fai di persone che conosci da poco un tuo punto di riferimento, deleghi loro dei ruoli che in Italia hai concesso a persone selezionate e coltivate.
Per le amicizie qui, ogni anno vale almeno doppio.
Quando sono arrivata qui, quasi due anni fa, ormai, le prime, primissime persone con cui mi sono relazionata sono state loro. Che ci hanno aperto casa loro, preparato la cena, aiutato in ogni cosa.
Essere dall’altra parte del mondo e avere qualcuno con cui poter dividere la vita a distanza misurabile in passi, ha un valore incredibile. Poter attraversare un pianerottolo e trovare una voce conosciuta e amica, quando intorno a te tutti parlano una lingua che capisci appena, è una cosa meravigliosa, “calda”, importante.
Perché questi due anni sono stati pieni di confidenze, di momenti belli e di momenti bruttissimi. Sono stati pesanti, ma senza loro lo sarebbero stati di più. Sono stati belli, con loro anche di più.
Sono stati fine settimana passati insieme al mare, sono stati serate a cena fuori, sono stati dopocena a giocare a burraco, sono stati pomeriggi con bambini che giocavano e crescevano insieme.
Sono stati risate di cuore e abbracci e lacrime su muretti di ospedale. Sono stati confronti e consigli.
E ora siamo al giro di boa.
Ora chi accoglie siamo noi. Con l’enorme responsabilità emotiva di far vivere bene a chi è arrivato e a chi arriverà questo momento particolare, questo posto particolare. Ora siamo noi quelli che indirizzano, consigliano, mettono in guardia, preparano.
Il mondo delle ambasciate è fatto di gente che fa carriera diplomatica, la quasi totalità delle persone che lavorano in Ambasciata non sono alla loro prima esperienza e sono abituate a girare il mondo e confrontarsi con posti e culture diverse. Per i militari il discorso è diverso: questa è un’esperienza, nella stragrande maggioranza dei casi, semel in vita. Questi 4 anni sono un’esperienza fondamentale, sia a livello economico che di crescita personale. Sono 4 anni che cambiano le cose e le persone. Sono uno spartiacque, anche per le famiglie. Quattro anni sono tanti e la scelta di viverli o meno insieme segna, e quanto!
Andati via da qui, la nostra vita ricomincerà in Italia esattamente com’era prima, organizzativamente e logisticamente parlando. Il personale civile dell’Ambasciata invece ogni tot deve organizzarsi in posti diversi del mondo e non capisce l’unicità della nostra esperienza e il valore che gli diamo. Quanto sia dirompente, nella nostra vita.
Sono 4 anni che possono rimanerti dentro o che puoi farti scivolare addosso, che puoi assaporare a fondo o  guardare come fosse la vita d’altri, in cui puoi tuffarti e bagnarti gli alveoli dell’anima o respirare a pelo d’acqua con una cannuccia.
Qualunque sia il modo che i nostri nuovi amici sceglieranno per vivere questa esperienza, io vorrei che fossero consapevoli che in questa tana c’è un posto nel cuore anche per loro, per le loro storie, per le loro felicità, per le loro difficoltà, per le loro confidenze e per le loro cose non dette.
Fa una certa impressione la consapevolezza di essere diventati un punto di riferimento, ci dà la misura di quanto è passato, di quanto rimane.
Sono sensazioni strane, che devo ancora decifrare per bene.
Ora come ora mi fanno sentire “pesante”, in senso positivo e costruttivo. Mi pare un buon inizio.