sabato 29 marzo 2014

Con parole altrui #11. Domenico Modugno



Ci sono canzoni che non fanno parte della mia età. Note, ritmi ed emozioni che mi sono state tramandate, che ho ascoltato da bambina, che hanno trovato voci comuni in pomeriggi in macchina con mia madre o in assolate mattine con mio nonno.

Questa canzone, ormai, la conoscono tutti. La conoscono tutti perché è stata “ripresa” da un gruppo moderno, i Negramaro, pochi anni fa.

Non me ne vogliano i Negramaro, ma la loro interpretazione non rende alcuna giustizia alla poesia del testo. “Meraviglioso” è un inno alla vita, al non prenderla per scontata, a non lasciarla andare, a guardare quanto intorno a noi ci sia e per cui vale la pena vivere e non un mero esercizio vocale.

Una canzone non sono solo note e testo, quello che fa di una canzone una Canzone, una cosa che rimane, è l’interpretazione.
Mentre ascolti Modugno cantarla, mentre ti dice “ma guarda intorno a te…” sembra che lo stia dicendo proprio a te, che ti stia parlando, che ti stia comunicando, che voglia entrarti dentro e lasciarti qualcosa. Sotto la pelle, la senti questa canzone. Sono brividi e commozione, è riflessione e crescita.

Per me questa canzone è un dono. Sono le parole di mia madre che me ne parla, che me la canta. È la sua voce con la mia quando mi sento sola, quando mi pare che tutto mi sovrasti, quando la quotidianità mi pare difficile e mi viene voglia di galleggiare sulla mia vita su correnti altrui invece di stancarmi braccia e gambe per portarla dove dico io.

Che si sia religiosi o no, che si creda che tutto ciò che ci circonda lo abbia creato un Dio o che sia frutto di alchimie ed evoluzione, in ogni modo ci sia arrivato, per noi è un dono. Un dono da preservare e da accettare come tale, con rispetto e con gioia.

Quel che ci è stato donato, in questo mondo, la natura, l’amore, l’infanzia, è qualcosa che si rinnova ogni giorno e va goduto ogni giorno, a prescindere da tutto il resto.

Il testo è bello di per sé, ma fatevi un dono: ascoltatela, nella sua versione originale, chiudete gli occhi e lasciatela entrare. Sono convinta che non se andrà più.

Meraviglioso – Domenico Modugno

E' vero
credetemi è accaduto
di notte su di un ponte
guardando l'acqua scura
con la dannata voglia
di fare un tuffo giù

D'un tratto
qualcuno alle mie spalle
forse un angelo
vestito da passante
mi portò via dicendomi
così:

Meraviglioso
ma come non ti accorgi
di quanto il mondo sia
meraviglioso
Meraviglioso
perfino il tuo dolore
potrà guarire poi
meraviglioso
Ma guarda intorno a te
che doni ti hanno fatto:
ti hanno inventato
il mare!
Tu dici non ho niente
Ti sembra niente il sole!
La vita
l'amore

Meraviglioso
il bene di una donna
che ama solo te
meraviglioso
La luce di un mattino
l'abbraccio di un amico
il viso di un bambino
meraviglioso
meraviglioso...

Ma guarda intorno a te
che doni ti hanno fatto:
ti hanno inventato
il mare!
Tu dici non ho niente
Ti sembra niente il sole!
La vita
l'amore
meraviglioso

La notte era finita
e ti sentivo ancora
Sapore della vita
Meraviglioso
Meraviglioso



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martedì 25 marzo 2014

Donne diverse. Madri uguali.

Ragazza libanese che ieri eri con noi e col cuore eri in un laboratorio di analisi, che aspettavi una conferma che non è arrivata, che hai cambiato volto in un istante, al telefono.

Ragazza libanese che forse alle prime due lineette ti eri emozionata, alle seconde avevi pianto, alle terze avevi osato immaginare una data e alle quarte avevi dato un nome.

Ragazza libanese che preghi un dio diverso dal mio, che copri i tuoi capelli e non stringi la mano di uomini estranei alla tua famiglia, che mangi cose diverse, parli una lingua diversa, hai gusti diversi e ti emozioni in modo diverso.

Ragazza libanese ieri quel tuo piccolo cuore ferito l'ho visto: ce lo hai donato con dignità e sincerità.

E io avrei voluto assicurarti che c'era un errore e il bambino che avevi già sognato era dentro di te, a dispetto di tutte le analisi negative del mondo.

Ragazza libanese avrei voluto avere un lessico che mi permettesse di dirti che quel bambino arriverà e sarà bellissimo, che è giusto stare male e piangere, che è normale sentirti come ti sentivi tu ieri, e invece sono riuscita solo a dirti "ca va aller" e abbracciarti.
Perché le braccia che volevi erano quelli di uomo ma quelle di cui avevi bisogno erano braccia di donna.

Ragazza libanese domani ti rialzerai, ieri è andata così.  Ira bien, tu sais.

Ragazza libanese, forse non ci vedremo più, ma a dispetto di tutte le diversità che ci separano, tu oggi sei stata una sorella in tutti i dolori, le speranze, le delusioni, le preoccupazioni e le gioie che accomunano chi sceglie di diventare madre.

Ragazza libanese preghiamo un dio diverso, con parole diverse, con tempi diversi, ma dalla prima volta che la seconda linea si è colorata, preghiamo, come tutte le madri del mondo, per la stessa cosa.

Ragazza libanese, io prego un dio diverso dal tuo, ma ieri sera l'ho pregato anche per te.

venerdì 21 marzo 2014

Con parole altrui #10. Marguerite Yourcenar



Anni fa, ma parecchi, regalarono un libro a mia madre.
Temo che lei non l’abbia mai letto, nel senso che temo, dopo averlo letto per prima e averlo trovato di una bellezza incredibile, di non averglielo mai ridato.

Il libro in questione, Memorie di Adriano, di Marguerite Yourcenar, è un libro che vale la pena di leggere e che sotto forma di una lunga epistola al giovane Marco Aurelio, narra le vicissitudini, le imprese e le riflessioni dell’imperatore Adriano, ormai vecchio e malato e coscientemente prossimo alla fine.

Una lunga scrittura tutta interamente in prima persona, in cui storia, amore e pensiero si fondono mirabilmente con una narrazione sempre delicata e “leggera” che fa di Adriano non lo scrittore di se stesso ma un semplice uomo, con le sue debolezze, i suoi interrogativi, i suoi pensieri.

È facilissimo innamorarsi della figura di Adriano che esce fuori da questo libro: umana, vicina, reale e delicata nel descrivere sia le sue gesta che il suo amore profondo per  il giovane Antinoo.

Tantissimi sono gli punti di riflessione che questo libro offre, tra le righe si trovano frasi destinate a rimanere, come questa che vi propongo.
Cosa è la felicità? Ci sarebbe da scrivere miliardi di parole, ci sarebbe da coinvolgere miliardi di emozioni e sensazioni e non ci saremmo neanche accostati ad una vaga descrizione.

La frase che vi cito non è una descrizione della felicità in sé ma piuttosto della preziosità che ne è carattere intrinseco, evidenziando gli atteggiamenti e le cose che la mettono in pericolo.

Non voglio commentarla, ve la offro come spunto di riflessione sulla perfezione che ci viene offerta ogni qual volta siamo felici.

Perdonate la mia scelta di mandare a capo ogni frase: nel libro non è, ovviamente, così. Ma estrapolata dal contesto aveva, secondo me, maggior bisogno di puntualizzazione ed enfasi. La Yourcenar, da lassù, mi perdonerà!


Cit. da Memorie di Adriano – Marguerite Yourcenar

Qualsiasi felicità è un capolavoro:
il minimo errore la falsa,
la minima esitazione la incrina,
la minima grossolanità la deturpa,
la minima insulsaggine la degrada.


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giovedì 20 marzo 2014

Lo sguardo degli altri



Domani, 21 marzo, è una giornata speciale.
È la Giornata Mondiale della Sindrome di Down.
Quattro meravigliose mamme, Barbara, Martina, Marina Viola e Valle ne hanno parlato nei loro blog, raccontando di sé con onestà e dolcezza e chiedendo a noi di partecipare, a noi dall’altra parte del muro o a noi che il muro lo viviamo ogni giorno.
Quel muro invisibile ma percepibile e pesante che si frappone tra chi vive l’esperienza della Sindrome di Down (ma anche tutte le altre disabilità psichiche non “identificate” e “riconosciute”) e chi invece la vede da fuori, da spettatore che finito lo spettacolo occasionale lascia il teatro e torna alla sua vita, in cui certi interrogativi non hanno il peso specifico del piombo.

Attraverso i tag #WDSD2014 #DearFutureMom e #losguardodeglialtri ci si incontrerà virtualmente per parlare di come si vive la Sindrome da fuori e di come si vive da dentro, un tentativo di abbattere quel muro brutto.

Di Alessandra, mia sorella, del nostro rapporto, avevo già parlato qui, veramente con il cuore in mano. Alessandra non ha la Sindrome di Down ma un’altra disabilità che comporta ritardo psicomotorio importante e possibili problemi metabolici sconosciuti (come lei ci sono pochissimi casi al mondo).
Questo scritto vuole essere il mio racconto del nostro spazio dietro il muro, sperando che piano piano questo muro diventi sempre più permeabile a chi è dall’altra parte.

Uno sguardo “pesante”, quello avverto quando sono insieme ad Alessandra.
Alessandra è mia sorella, non è down ma ha un deficit cognitivo importante ed è ovvio che si veda, visto che anagraficamente ha 33 anni suonati e per quanto non sembri una donna di 33 anni non sembra neanche più una ragazzina di 13.
Quello sguardo, in genere muto, che si sofferma per poi diventare indifferenza o imbarazzo o pietà, non smette mai di colpire e a volte di far male.
C’è chi vede il “diverso” come una sfida, un modo per dimostrare che si è una persona buona che prova pietà, ma si tradisce mettendo su il sorriso finto di chi fa di quel sorriso una bandiera e non qualcosa di naturale.
Mia sorella non è l’alibi né il mezzo per sentirsi nulla di diverso da ciò che si è.
Dame di carità fuori dal mio cancello, grazie.
C’è invece chi prova imbarazzo perché, semplicemente, non sa come relazionarsi e un po’ ha anche paura di sbagliare o di ferire. Un eccesso di tatto, spesso. Ma chi divide la propria quotidianità con un disabile psichico è pienamente cosciente della realtà che ha affianco, non si imbarazza se qualcuno non capisce le parole dette male o inventate. Alessandra ha un suo vocabolario, sarebbe profondamente sciocco pensare che chi non la conosce abbia gli strumenti per capirla. Alessandra va vissuta, per capirla. Io apprezzo chi mi chiede “scusa, cosa ha detto?”, vuol dire che gli importa di quello che Ale voleva esprimere e questo è già molto, credetemi.
C’è anche chi mostra indifferenza. Che non saprebbe, probabilmente, gestire un contatto con qualcosa di diverso che turba la sua armonia cosmica e quindi fa semplicemente finta che non esista. Però non è indifferenza vera: è l’indifferenza di chi sceglie di essere indifferente, ma ha già rivolto il famoso sguardo muto.
In questi casi, in genere, Ale si impone: non accetta facilmente di essere ignorata da qualcuno. Se nella sua testa quel qualcuno poteva essere un suo interlocutore, lei fa in modo che lo diventi, costringendo la persona che ha di fronte a prendere una posizione, che in genere a quel punto diventa quella del pietoso.
C’è anche lo sguardo morboso, di quelli che non riescono a staccare gli occhi. È lo sguardo che si trasforma più facilmente nel falso sorrisino di pietà. È lo sguardo morboso di chi ama i drammi, di chi si emoziona davanti a buste che si aprono in tv ed è sempre informatissimo su cosa accade a chi. È in genere uno sguardo che resta muto e trova parole, anche tante, al riparo nel proprio guscetto. È uno sguardo pieno di attenzione e vuoto di qualunque contenuto e fa di mia sorella e di tutti quelli come lei “un evento”. È lo sguardo che ti fa venir voglia di dire “se vuoi te la giro pure, così la guardi meglio”.
È lo sguardo che fa più male, perché fa di Alessandra un simbolo e non una persona.
Ci sono anche persone meravigliose, per fortuna.
Quelle persone che si relazionano ad Ale con assoluta naturalezza, che la prendono e la vivono per quello che è. Che le sorridono se lei dice loro “ciao” o anche a prescindere,  che le rispondono con dolcezza quando capiscono la domanda (in genere tradotta simultaneamente da uno di noi).
Sono persone rare e sono quelle che ti fanno sperare in un futuro migliore. È stata la maestra in grado di far gruppo intorno ad Alessandra, in modo che lei fosse il centro e non un satellite stortignaccolo e dimenticato. Sono stati i meravigliosi ragazzi che le facevano fare gli esercizi ogni giorno e che venivano a “giocare” con rispetto, amore e pazienza. Sono passati più di vent’anni e li ricordo tutti con immenso affetto.
Ci sono però anche persone pessime. C’è stata una signora che si pulì la pelliccia perché mia sorella l’aveva toccata. C’è stato chi, per chiudere la bocca alle mie parole, usò la disabilità di mia sorella come arma per ferirmi.
Il mondo è così.
Allora, quando successero, e successero eh, cose così, reagii con rabbia, volevo scalpi, volevo sangue. Oggi penso che a quelle persone la vita non avesse insegnato nulla e spero semplicemente, per loro, che lo abbia fatto nel frattempo.

Quando incontro ragazzi disabili, oggi, provo due sentimenti contrastanti. Da una parte l’affetto incondizionato per loro, dall’altro un affetto diverso, più complesso e ragionato, per le loro famiglie. L’affetto di chi sa, di chi le tappe le ha percorse, che si pone gli stessi interrogativi e ha paura delle risposte, a volte. Un sorta di muta fratellanza dei momenti belli e di quelli brutti.
Perché la vita non è sempre un sorriso. A volte quel sorriso è una conquista.

Io ho provato disagio, lo ammetto, nell’avere una sorella come Alessandra. Il mio disagio derivava, ovviamente, da una non accettazione, dalle aspettative tradite… avevo una sorella ma era come, all’atto pratico, non averla: nessuna confidenza, nessun litigio, nessuna complicità, nessun progetto comune.
La più grande lezione che Alessandra mi ha insegnato è l’amore. Alessandra va amata, così, per quella che è. Non ci sono altre possibili forme di relazione sana, con lei.
Solo l’amore.
In un mondo pieno di sovrastrutture, convenzioni, aspettative e valutazioni di opportunità, ritrovare dentro di sé un amore completamente disinteressato è già un percorso, e mediamente anche in salita.

Ma è quello che lei offre ed è quello che lei merita, sempre.


lunedì 17 marzo 2014

Difficoltà di crescita. Di madre.



Devo ammettere che pensavo che crescendo diventasse tutto più facile.
Che i primi, diciamo, 5 anni per il primo figlio e circa 3-4 per il secondo, fossero i più tosti, in termini di fatica genitoriale.
Avevo sempre pensato che la cosa più difficile fosse sopravvivere alle poppate notturne, alle loro prime cadute (in termini di infarto, ovvio), alle prime malattie, alla fase dei capricci, a quella dei “no”.
Pensavo, ingenuamente, che, passate quelle fasi, la questione educativa fosse oggettivamente in discesa, che, una volta instradati, i Patati sarebbero andati lungo la via segnata e stop.
Beata ingenuità di madre.

Alla fase dei perché, si è sovrapposta, senza soluzione di continuità, la fase delle domande importanti.
Giusto alcune:
cos’è la guerra?
chi è la madonna? (chiesto in una famiglia di non praticanti per scelta, è una domanda difficile)
come fanno i semini del papà a finire nella pancia della mamma?
come nascono, fisicamente, i bambini, ovvero: da dove escono?

Ecco, domandine così, buttate lì en passant in momenti assolutamente random della giornata, non quando sei pronta ad affrontare un argomento perché è, come dire, nell’aria.
Per i Patati sono io “l’esperto” e quindi è la mia risposta quella giusta. Il peso di una responsabilità del genere è enorme, non pensavo.
Sapere che quando spiego una cosa a mio figlio lui merita la mia onestà, una risposta vera ma adatta a quello che può capire, merita coerenza e attenzione.
Una risposta sbagliata o anche giusta ma data nel modo sbagliato o col tono sbagliato può far pensare al Patato che la domanda fosse inopportuna, che quello è un argomento tabù, che ha sbagliato a chiedere a me, che io non voglia rispondergli e le risposte inizierà a cercarle altrove oppure coverà le domande dentro di sé.
Dare risposte giuste, col tono giusto e al momento immediato non è stato, non è e non sarà facile.

Poi, ancora peggio, dopo la fase delle domande (che è destinata, temo, a non esaurirsi mai), ora stiamo sperimentando anche quella dei ragionamenti. Di quelle cose che ci fanno capire che il Patato Grande non è più il bimbetto che tenevamo per mano ma inizia a formulare pensieri compiuti e razionali sulle opportunità, sulle scelte, sul futuro. Ha delle sue consapevolezze.
faccio i compiti oggi, così domani sono libero di giocare”. E tu rimani lì a guardare i suoi sei anni e tre quarti e a chiederti questa gestione autonoma del suo tempo da dove l’abbia presa. La consapevolezza delle implicazioni di una scelta, il senso del dovere. Dov’è il mio bimbo piccino?

Ma il peggio doveva ancora arrivare.
L’altro giorno, quando sono andata a prenderlo, l’ho trovato alla lavagna che scriveva con la sua compagna di banco, Victoria.
Uscendo, gli ho chiesto se fosse la sua fiancée (fidanzata) e lui prima si è imbarazzato, poi mi ha detto, più serio: “la mia fidanzata è Beatrice” (la figlia della mia amica Instamamma Viv: si sono conosciuti l’anno scorso e per lui è stata stima e amore immediato) e io già mi son stupita di come mio figlio, a neanche sette anni, viva la fedeltà nei rapporti amorosi talmente tanto da non farsi la fidanzatina anche a 4500 km da una bimba che neanche sa di essere “la mia fidanzata”.
Allora gli ho detto, con tatto e buttandola sullo scherzoso (per rispettare questa sua idea di fedeltà ma per capirne anche i contorni) “ma Beatrice è in Italia, non vorresti una fidanzatina qui?”, giusto diciamo per sondare il terreno dell’amore in Patato’s Land. E lui mi ha risposto, serissimo: “mamma, non posso avere una fidanzata qui, tra un anno ce ne andiamo”.

E io mi sono pietrificata.
No, cioè, aspetta, quand’è che mi hanno sostituito il Patato pacioccone e piccoletto con questo ragazzino qui capace di farmi ragionamenti così adulti?
Cos’è che mi sono persa, perché non mi sento pronta ad affrontare discorsi in cui io e lui siamo sullo stesso livello?
Perché improvvisamente mio figlio fa discorsi da grande, perché ha queste consapevolezze così nette, spietate, adulte?
Come rielabora quella testolina bella gli input che riceve da noi, dalla scuola, dalla vita?

Ma soprattutto, in quale momento della mia vita ho perso quel dannatissimo manuale di istruzioni?

giovedì 13 marzo 2014

Con parole altrui #9. Giovanni Pascoli e Roberto Vecchioni



In noi esiste e sopravvive una lotta. È una lotta interna, è quella che ci spinge al di là dei nostri limiti, che ci porta a confrontarci con essi, a discutere ogni giorno dentro di noi se sia più opportuno volgere le spalle alla tranquillità e metterci in gioco oppure tornare al nido sereno di una quotidianità stabile.

Chi più, chi meno, cerchiamo tutti di migliorarci, di conquistare qualcosa, di dimostrare qualcosa sia agli altri che principalmente a noi stessi.

Con la stessa curiosità che spinse il dantesco Ulisse alla ricerca di posti inesplorati e della “canoscenza”, cerchiamo ogni giorno di espandere i nostri orizzonti, reali o virtuali che siano.

Cosa succede quando il viaggio è finito? Quali sentimenti scuotono l’animo quando davanti non c’è più nulla per cui combattere? Cosa succede quando davanti non hai terre da conquistare, nulla da scoprire, quando improvvisamente ti rendi conto che il cammino è finito? Quando senti ancora dentro la brama di proseguire ma non c’è più un sentiero per farlo?

Un poeta, Pascoli, e un cantautore, Vecchioni, hanno affrontato questo tipo di sconcerto e disillusione, entrambi attraverso la figura di Alessandro Magno che, arrivato alla fine delle terre conosciute, si trova davanti l’immensità dell’oceano e capisce che non può andare oltre, che il viaggio, la conquista sono finiti e che la sua brama rimarrà insoddisfatta.

Il linguaggio classico di Pascoli e quello decisamente moderno di Vecchioni restituiscono, seppure con modalità e parole notevolmente diverse, la stessa figura di eroe arrivato di fronte ad un limite non proprio, sgomento e perso.

Ed è tutta lì la lotta tra le aspettative che improvvisamente hanno trovato tutte le realizzazioni possibili e la spinta ad andare oltre che invece continua a nascere da dentro. Pascoli attribuisce addirittura ai due occhi di colore diverso i due aspetti: l’occhio nero sente morire la speranza, l’occhio azzurro invece sente rinascere il desiderio e Alessandro è intrappolato tra queste due emozioni, di fronte a quel mare al di là del quale immagina cose ancora da scoprire attraverso viaggi e conquiste che è cosciente di non poter fare.

Vecchioni lo descrive come un eroe più moderno, più vicino di quello che il linguaggio aulico di Pascoli ci presenta, che di fronte al mare si sente un coglione perché le sue conquiste, i suoi viaggi, lo hanno portato a vedere, alla fine, alla resa dei conti, un sole uguale a quello che aveva lasciato.

Entrambi questi testi mi emozionano sempre tantissimo: c’è dentro una sorta di eroe romantico di fronte alla decadenza della propria lotta interiore, del proprio desiderio. Un desiderio che, per la prima volta, si ferma perché è fermato da qualcosa che non può essere cambiato da nessuno. La lotta improvvisamente è finita e questa figura “svuotata” rimane a contemplare il proprio limite ultimo, con la consapevolezza del cammino compiuto e anche con la tacita domanda di chi ottiene tutto ciò che poteva avere e si chiede “e ora?”

Di entrambi i testi vi propongo solo degli estratti: nel caso di Pascoli quello che secondo me è emblematico del conflitto interno di Alessandro e nel caso della canzone di Vecchioni, che affronta diversi temi, solo la parte che riguarda questo tema.
Buona lettura e buon ascolto!

Aléxandros – Giovanni Pascoli

E così, piange, poi che giunse anelo:
piange dall'occhio nero come morte;
piange dall'occhio azzurro come cielo.

Ché si fa sempre (tale è la sua sorte)
nell'occhio nero lo sperar, più vano;
nell'occhio azzurro il desiar, più forte.

Egli ode belve fremere lontano,
egli ode forze incognite, incessanti,
passargli a fronte nell'immenso piano,

come trotto di mandre d'elefanti.


Stranamore (pure questo è amore) – Roberto Vecchioni

Ed il più grande conquistò nazione dopo nazione,
e quando fu di fronte al mare si sentì un coglione
perché più in là non si poteva conquistare niente;
e tanta strada per vedere un sole disperato
e sempre uguale e sempre come quando era partito.



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