venerdì 30 maggio 2014

Il club di cucina del lunedì. La cucina Italiana.



E così una settimana e mezza fa è toccata alla fra, di organizzare chez elle un atelier di cucina internazionale.

C’era la lista d’attesa, non so se mi spiego. No, non sto scherzando, potevo ospitare un massimo di 10 persone sedute e alcune sono rimaste “fuori”, ci si è basati sull’ordine di prenotazione. Il ché mi ha consentito anche di tirarmela un filo eh.
Voglio dire: una lista di attesa per assistere ad una mia lezione di cucina… e quando mi ricapita?!

Ovviamente per essere sicura di fare non dico una bella figura ma quantomeno una accettabile, la Fra e il Marito Paziente avevano passato il giorno prima a spignattare come non ci fosse un domani e si erano avvantaggiati una parte delle preparazioni.

Il menù era decisamente semplice, lasagna e tiramisù, ma piuttosto lungo da preparare visto che ovviamente per la lasagna si era deciso di partire dalla sfoglia e il tiramisù aveva bisogno di qualche ora di frigo per essere gustato al meglio.

Pertanto la domenica era passata tra uova farina e mascarpone, tra sfoglie da bollire e besciamella e soprattutto tra esperimenti.
Ché la fra è una poco tradizionale pertanto aveva in mente di insegnare le versioni classiche dei due piatti e di proporre delle varianti.

Insomma il lunedì mattina la fra si era già avvantaggiata una teglia grande di lasagne classiche e una di lasagne al pesto pronte da cuocere e i tiramisù nelle versioni alle fragole ed esotico.
Il resto, si sarebbe cucinato tutte insieme.

Dire che la fra avesse ansia da prestazione è oltremodo riduttivo. Già dover insegnare qualcosa a qualcuno è una delle cose che mi mettono ansia, se poi devo farlo in una lingua che non è neanche la mia…
E poi, diciamocelo, la fra non ha mai insegnato a nessuno a cucinare qualcosa. In cucina se la cava anche bene, quando vuole, ma non è di certo una chef (del resto se questo blog si chiama “la tana africana” e non “la cucina della fra”, ci sarà un motivo).

All’ora prevista per l’arrivo delle sue ospiti la fra aveva pulito tutta la casa, impiattato qualcosa di sfizioso per le sue ospiti, preparato tutti gli ingredienti e le apparecchiature atte alle preparazioni e stava già cuocendo la prima teglia di lasagne.

Sono arrivate alla spicciolata e tutte, con enorme gentilezza, hanno parlato un francese non troppo complicato e alla portata della fra, fin da subito.



La prima cosa che la fra ha preparato è stato il ragù. Ora, orrore, lo so, la fra ha fatto il ragù non col battuto di cipolla e carota ma con il dado vegetale bimby, che poi è fatto solo con verdure fresche e sale, quindi concettualmente poco differente (però immagino che Cracco abbia avuto una colica epatica, da qualche parte nel mondo) (è colpa mia, sappiatelo). Ho evitato di sfumare la carne col vino, del resto avevo delle musulmane a tavola e non volevo mettere in imbarazzo nessuno.

Ovviamente non è mancato il momento esilarante, con la fra che a posto di dado (da brodo) (cube de bouillon o giù di lì) ha detto tappo (bouchon) e le francesi che han chiesto come mai dovessero metterci dei tappi (e di cosa) nel sugo. Bene. Come perdere la propria credibilità in meno di mezzora.

Dopo aver lasciato il sugo a sobbollire è toccato alla sfoglia.
Ora, fare la sfoglia, con l’attrezzo adatto, è un processo semplice ma mooooooolto lungo e dopo aver capito il meccanismo ovviamente le mie ospiti si sono un po’ annoiate ma vabbeh. Del resto se vuoi fare la vera lasagna quel tempo ci vuole, signora mia.

Lasciata a seccare la sfoglia ci siamo dedicate al tiramisù: inutile dire che lì l’attenzione si è ridestata in un attimo e chi prendeva appunti, chi fotografava, chi aiutava concretamente. Con loro ho preparato la versione classica in teglia e quella al cioccolato nei bicchierini (quelli che fanno taaaaaanto catering, per capirci).



Dopodiché il nostro tetris temporale prevedeva la messa a bollire delle sfoglie e la composizione della lasagna.

Infine, finalmente, ci siamo messe a tavola.
Tra chiacchiere e buon cibo (anche il bis han fatto eh) il tempo è passato velocissimo e poco dopo aver finito di pranzare se ne sono andate tutte.

Le considerazioni a contorno di questa esperienza sono diverse:

1. Conoscere e farsi conoscere attraverso la cucina è una bellissima esperienza. Come ti muovi tra pentole e fornelli la dice lunga su come vivi la tua casa, la tua famiglia e le tue tradizioni.

2. Dover spiegare a qualcuno qualcosa in una lingua che conosci poco è un’ottima palestra linguistica. Non facevo una cosa del genere da quando ho deciso che se ero in grado di ripetere e spiegare la lezione di fisica (che proprio ero de coccio) in inglese allora voleva dire che avevo capito bene il concetto. Più che un’interrogazione è stato un esame. E l’ho superato.

3. La cucina italiana è semplice, ma ha dei must. La ragazza libanese mi ha confessato di fare il tiramisù senza uova, io le ho detto chiamalo come vuoi ma non tiramisù, ti prego e la quebecoise mi ha suggerito, orroreeraccapriccio, di mettere una cipolla infilzata di chiodi di garofano nel latte della besciamella. Ecco signore, no. NO.

4. Delle due l’una: o le signore mentono bene (ma bene assai) o non me la sono cavata poi tanto male. Durante la settimana ho incontrato o sentito per telefono alcune di loro e tutte mi hanno ringraziato della bella giornata e dei piatti buonissimi. Commozione e gratitudine assoluta!

5. La prossima corcavolo che faccio la faiga splendida splendente: piatti di carta. Se ne sono andate alle due, alle tre e mezza ho finito di lavare piatti e riordinare. Forse non c’ho più l’età!

mercoledì 28 maggio 2014

Pensieri e parole



Mi stavo rendendo conto, ieri, del fatto che ho saltato la barricata.

No no, sono sempre etero, sempre mamma, sempre innamorata, sempre quella che sono. Solo, con qualcosa in più.

Quel qualcosa in più è una seconda lingua. Che sembra banale a dirsi, ma non lo è.

Le mie difficoltà linguistiche, appena arrivata qui, erano allucinanti. Da una parte non ero in grado di esprimere me stessa, dall’altra, fondamentalmente, non capivo loro.
Il che mi poneva in una sensazione di disagio perenne, avevo sempre bisogno di un interprete.

Ovvio che, in due anni e quasi mezzo, le cose si siano evolute. Ora sono in grado di fare delle conversazioni, di seguire lezioni di cucina in francese, di leggere un testo e capirlo (magari non proprio tutte le parole, ma lo capisco), di spiegare qualcosa a qualcuno.

Quello che però mi ha stupito non è che parlo, in francese. Io, oggi come oggi, penso, in francese.
Quando rielaboro qualcosa nel mio cervello capita sempre più frequentemente che lo faccia in francese. In questo momento, per dire, mi è più facile capire le istruzioni di qualcosa (dal medicinale al detersivo) in francese piuttosto che in italiano. Se ci sono entrambe le lingue, lo leggo in francese, mi viene (ed è allucinante, a rifletterci) più facile.

L’altro giorno, ad un atelier di cucina, tenuto ovviamente in francese, ho preso degli appunti strani e sbilenchi.
Il mio cervello dava l’input di scrivere in francese e io non so scrivere in francese. Ma quando mi viene detto “crème fraîche” io ormai penso crème fraîche, non più panna. Quando sento quatre-vingt-dix-neuf il cervello non deve più fare l’operazione, registra 99 e va avanti.

Quando scrivo, la mia mente deve, paradossalmente, fare lo sforzo di tradurre nella mia lingua un concetto che gli è perfettamente chiaro anche nell’altra, ma che non so appuntarmi se non in italiano.

Questo significa ovviamente che è giunta l’ora di affrontare il francese scritto, dopo il parlato e la lettura.
Ma significa pure che mi sono arricchita di qualcosa senza accorgermene, senza svolte epocali, senza drammi o riflettori. Improvvisamente, certe cose nella mia testa hanno nomi che due anni fa non conoscevo.

Se mi ci fermo a riflettere la cosa mi lascia quasi spaesata, poi torno a pensare a quanti bouchon di adoucissante devo mettere nella lavatrice, e la vita va avanti serenamente.

lunedì 26 maggio 2014

Conversazioni con Madame Dissout la Graisse. La guerra.



Lo sai, che qui c’è stata la guerra.
Ma la guerra, per te, sono racconti sfocati di chi è rimasto chiuso in casa per mesi o di chi a ricordare gli leggi ancora negli occhi l’orrore e ti racconta quel poco che ha visto e che si sente di raccontarti.

Poi un giorno nella tua strada incontri una persona, una persona che invece c’era e l’ha vista e l’ha vissuta e l’ha subita.
Te ne parla mentre ti massaggia e gli occhi tradiscono ancora la ferita e lo sdegno.

Ti parla di strade con rivoli di sangue, rosso, scuro, secco, portato via dalla pioggia e indelebile nella memoria.

Ti parla di bambini uccisi davanti alle madri solo per esprimere un potere e una supremazia. Uccisi per gioco, per rabbia, per vigliaccheria. Davanti alle madri.

Davanti alle madri.

Il cervello si ferma e l’immagine ti si focalizza sulla retina. Prima di venire qui, e la guerra era da poco finita, hai sognato per mesi bambini uccisi. Dopo il cervello, tocca al cuore fermarsi.

Gli occhi di chi ti racconta questa cosa sono lo specchio del tuo rifiuto, del tuo dolore e della tua rabbia. La sola idea che occhi di madre possano vedere una cosa del genere è in grado di fermarti e farti urlare dentro. Ed è solo l’idea.

Buttavano i bambini dai palazzi, uccidevano le donne.
Basta, ti prego basta. Non vuoi sapere, ma c’è una parte di te che deve sapere. Quei morti meritano di essere conosciuti, da me, da chiunque.

Il terrore di tornare a casa e non sapere cosa ci avresti trovato, chi, se ci avresti trovato ancora la casa. Se avresti trovato i tuoi figli.

Dover passare in strade seminate di morti. E no, mica strade desolate in mezzo alla campagna. Nel mio quartiere, che pure è una zona “benestante e tranquilla”, ammazzavano e bruciavano viva la gente in strada. Lungo la strada che porta in Ambasciata, mi avevano raccontato, c’erano morti e sangue, a terra.

Le chiedi, perché tutto questo?
Non lo sa, e come lei, dice, moltissima gente. Un giorno prima avevamo la pace, il giorno dopo la guerra. Molti di loro non hanno mai saputo veramente perché, c’era stato un problema alle elezioni ma cosa, da un giorno all’altro, abbia spinto gli amici uno contro l’altro rimane qualcosa che sfugge a qualsiasi setaccio razionale.

Negli occhi le vedi ancora un impasto di ferita, paura e incredulità. Ti dice che chiunque, di qualunque credo, colore e idea politica sia, si sporca le mani in questo modo è una bestia, che non c’è comprensione, che non ci può essere perdono.

Le leggi addosso la necessità di imparare a fidarsi solo di se stessa e a contare solo sulle sue capacità e possibilità. Le leggi il disincanto, la delusione, l’orgoglio dello sdegno.

Le leggi la fierezza del rifiuto.

Ed in mezzo a tutto l’orrore che ti ha raccontato, è una cosa bellissima da preservare.

mercoledì 21 maggio 2014

Patati e scoperte

MammeAcrobate, in collaborazione con Imaginarium, ha organizzato una bella iniziativa, l’Happy Monday! Un modo carino per alleggerire l’inizio settimana ;-)
Andate qui a leggere di cosa si tratta e come partecipare! Se sarete selezionati potrete ricevere da testare uno dei giochi i-wow di Imaginarium!
Ci si ritroverà nei blog, su Fb o twitter attraverso l’hashtag  #giocaconImaginarium

Il tema di questa settimana sono le scoperte divertenti dei bambini.

In termini di scoperte i Patati hanno avuto parecchie occasioni, negli ultimi due anni e mezzo.
Ma molte sono state scoperte pesanti e adulte
Hanno scoperto le conseguenze della guerra, hanno scoperto la povertà, hanno scoperto le differenze, hanno scoperto, sulla loro pelle, il razzismo.
Hanno scoperto che non tutte le maestre sono buone e che non sempre una scuola è un luogo sereno.

Hanno però anche scoperto la frutta tropicale, le palme, il vero sapore dell’ananas e delle banane.
Hanno scoperto che la sabbia non c’è solo al mare.
Hanno scoperto che in alcuni posti del mondo l’inverno semplicemente non c’è.
Hanno scoperto che si può parlare e pensare in un’altra lingua.

Patato grande ha scoperto che può leggere tutto ciò che trova scritto in francese o in italiano, e la sua meraviglia di fronte a questa possibilità è stata uno spettacolo unico.

Patato Piccolo ha scoperto di avere una spiccata predisposizione per i giochi elettronici.

Entrambi i Patati hanno scoperto che si può vivere due mesi senza mamma, ma che con mamma è tutto più bello.

Ovviamente le loro prime scoperte non appartengono a questo periodo africano: la prima volta che han giocato con la farina, che hanno aiutato mamma a cucinare, che hanno disegnato, che hanno giocato col cane di nonni.
La prima volta che il grande, due anni e mezzo, si è preso cura del piccolo, sei mesi, portandogli un biberon d’acqua e scoprendosi amico, complice e fratello maggiore (cosa che ancora è).

Le scoperte di oggi, che hanno 5 e 7 anni, sono più complesse e in genere si accompagnano a logiche stringenti o ai primi contatti con l’universo femminile.

Abbiamo quindi da una parte la scoperta del magnetismo (che ormai sfruttiamo in ogni dove: dal gioco con le barrette magnetiche, alle calamite, alla porta-lavagna magnetica che abbiamo realizzato per loro) e dall’altra la scoperta dei sentimenti (ho scritto una lettera a Beatrice, mamma, la mia fidanzata. Ah, magari dovremmo dirglielo a Beatrice, che è la tua fidanzata. Mamma, questi sono dettagli).

Ci sono poi scoperte in cui osservazione e curiosità si mischiano, con deduzioni esilaranti.

Mamma guarda io sono uguale a te: ho le lentiggini, la pelle chiara e ti assomiglio tantissimo!
Si amore
Perché?
Perché quando ti sei formato nella pancia di mamma ti sono arrivate più cose dall’uovo di mamma che dal semino di papà…
Mamma quindi non è che da grande mi verranno le tette?

Adoro la logica aristotelica dei bambini!!!

Consapevolezze, paure e persone lasciate indietro



Ci sono tante persone che non ho portato con me in questa avventura.

C’è la zia che non mi ha visto partire, perché è partita prima di me, per il luogo da cui non si torna.
Il suo “hai fatto proprio bene”, che sono certa, o che mi piace esserlo, mi avrebbe detto, mi risuona nelle orecchie.

C’è l’amico che non vedo da anni.
Quello che per non essere di più è diventato molto meno. Quello che a volte ci penso e penso che le cose si potevano gestire meglio, se avessimo avuto entrambi più maturità.

C’è tanta gente che ho perduto, negli anni. Per pigrizia, per paura, per mancanza di parole, per troppe parole, per infiniti motivi.

C’è invece chi mi segue a distanza. Ma segue la mia vita, cosa mi accade, i fatti… non me.
Non che manchi la disponibilità a capire o ascoltare.
Il vivere qui ha tante e tali sfumature che non riuscirai mai a renderle, tu per prima.

Cosa significhino per te tre posti di blocco in meno di un’ora, l’empatia che provi per chi è qui come te, cosa significhi avere amici che non si sono scelti, cosa significhi qui gestire il tradimento di un amico, quanto sia facile isolarsi, quanto una ferita bruci di più, quanto la solitudine abbia infiniti echi dentro.

Che valore dai qui ad una cena, all’uscire insieme, ad una rete di conoscenze, a dieci parole in più che hai imparato in una settimana, al cielo azzurro, ad uno sparo, alla scuola, al colore della pelle, alla scelta delle parole.

Sono cose che potrei tentare di descrivere per ore e che capirebbe solo chi ha fatto un’esperienza simile, chi come me ha preso quel treno al volo ed è andato a seguire un’opportunità, chi come me ci ha portato i figli vivendo di gioie e sensi di colpa, chi come me ha paura di tornare in un mondo che nel frattempo è andato avanti.

Chi come me teme di non trovare più argomenti, di non essere più in grado di comprendere né di essere compreso. Chi come me tra un anno, tre o cinque, sa che dovrà confrontarsi con un posto che è stato casa sua e che dovrà tornare ad esserlo, ma con una parentesi densa e pesante nel mezzo.

Ecco, ci sono giorni in cui vorrei essere capace di sentirmi dentro la certezza che tornare non sarà più pesante di essere partita. E che, qualora lo fosse, i miei amici fossero capaci di comprendere tutto quello che io non so spiegare loro oggi, e forse neanche domani e forse neanche mai.

domenica 18 maggio 2014

Con parole altrui #17. Marguerite Yourcenar


Dopo aver parlato delle parole, di come mi riempiono la vita e la portano là dove voglio che arrivi o là dove non pensavo potesse arrivare, parliamo del silenzio.

Avevo in mente un’altra citazione da proporvi, ma poi il commento di mamma in oriente  mi ha offerto un nuovo spunto e vorrei condividere con voi una frase che ho sempre amato, presa da un libro scritto in punta di piedi, intingendo la punta del pennino direttamente nell’anima, secondo me.

Il libro, della Yourcenar, che in questa rubrica avevamo già incontrato qui, è Alexis o il trattato della lotta vana. Libro che, come Memorie di Adriano, vi consiglio vivamente di leggere. Per la delicatezza del tema affrontato, sempre accennato e sospeso, sempre trattato con sentimento e un’autocoscienza lucida e allo stesso tempo poetica.

Il libro è una lunga lettera che il protagonista scrive alla moglie all’atto di lasciarla, parlandole della sua omosessualità.
Trattare un tema come questo con delicatezza, senza essere espliciti, parlando di sentimenti, facendo fare al protagonista un’analisi del proprio vissuto in prima persona, non è una cosa facile e credo che questo libro sia un piccolo capolavoro, pieno di grandi spunti di riflessione anche per chi quella lotta vana non la compie ogni giorno.

Il silenzio, dicevamo.

Il silenzio è un momento ambivalente, nella vita.
È trattenersi dal dire, è mancanza di parole, è vuoto e pieno.
È una scelta o una scelta altrui, a volte.

È un modo per non dire o al contrario per dire tantissimo.
È ignorare, è restare ammirati, è amore o dolore.

Io i silenzi non li so gestire, mi impauriscono. Li immagino pieni di cose nascoste, di possibili equivoci, di cose non chiarite, non approfondite.
Forse per questo amo follemente questa frase che vi cito. Esistono vari tipi di silenzi, ma i silenzi pieni non sono mai qualcosa di fertile.

Cit. da Alexis o il trattato della lotta vana – Marguerite Yourcenar
Ogni silenzio non è fatto che di parole che si sono taciute.



Vi piacerebbe partecipare a questa iniziativa? ogni venerdì, se si vuole mantenere un appuntamento settimanale ma non è obbligatorio, sul proprio blog ognuno può parlare di uno scritto, prosa o poesia, un testo, una canzone che lo fa riflettere ed emozionare, linkando questo post e mettendo poi il link nei commenti, così che chiunque passi di qui possa venirvi a leggere. Gli hashtag per ritrovarci, anche su Instagram e Facebook, sono #LTAconparolealtrui e #latanaafricana. Buon divertimento!