venerdì 13 novembre 2015

Quando l'uno diventa due



Tra Patato grande e Patato piccolo ci sono 22 mesi di differenza. Con un Patato grande più timido e chiuso in sé stesso e un Patato piccolo intraprendente e curioso, questo ha significato una complicità e un legame incredibile.
Si sono sempre cercati, sono sempre stati l’uno il punto di riferimento dell’altro. Sono stati l’uno la forza dell’altro negli anni in cui hanno dovuto fare i conti con la loro diversità rispetto all’ambiente che li ospitava: gli unici (o quasi) bianchi, gli unici (assolutamente) italiani. Diversi per tradizioni, impostazioni familiari, cultura. Una diversità che seppur mitigata dall’assoluta mancanza di razzismo e dalla bellissima integrazione, è rimasta presente a livello obiettivo.

Poi siamo tornati in Italia, dove i due bimbi LaTana sono sì i due bimbi che sono stati in Africa per quattro anni, ma sono principalmente Patato grande e Patato piccolo: non sono più i diversi, non sono più considerati un duo indissolubile a causa della loro comune diversità. Hanno amici diversi, frequentano classi diverse e non è così immediato vederli come un’entità unica.

Iniziano i percorsi diversi, e fa male. A dispetto della sua enorme sensibilità, Patato grande è un bambino accomodante e razionale, e se ne fa una ragione. Patato piccolo invece è un bimbo dal carattere più forte e volitivo, ma è un bimbo “di pancia” e soffre l’esclusione come fosse un abbandono.

Iniziano le feste in cui magari è invitato solo uno, per disattenzione o per precisa volontà; iniziano i pomeriggi a fare i compiti insieme con l’amichetto e le chiacchiere da bimbi più grandi.
Inizia un percorso naturale di distacco che renda merito al loro essere due persone distinte, con amici, affinità, interessi diversi. Inizia la voglia del più grande di avere spazi personali e autonomi e inizia di conseguenza il taglio di un cordone ombelicale che li ha falsamente resi quasi gemelli, negli ultimi quattro anni.

Patato piccolo, abituato a confrontarsi più con gli amici del fratello che con i suoi coetanei, ora non capisce come posizionarsi in una nuova realtà che lo fa tornare (o forse sarebbe più corretto dire che lo fa iniziare) ad essere il più piccolo. A volte va bene, a volte meno.

Così ieri Patato grande ha avuto la sua prima festa da solo, la prima festa “da grande”, senza un fratello da dover coinvolgere e una mamma a guardarlo. Si è preparato con cura, messo i jeans e la camicia nuova, messo anche il profumo… tutto di lui gridava “guardami, sono grande”.
Così Patato piccolo ha avuto la sua prima serata da solo con la mamma, una serata di non comprensione, una serata di lacrime e senso di ingiustizia, di inadeguatezza. Un’improvvisa coscienza della sua diversità dal fratello, cui non era affatto pronto.

Così la loro mamma si è trovata divisa tra l’empatia per un figlio che prende consapevolezza, con felicità ed entusiasmo, della sua età e della sua individualità e l’empatia per un figlio che prende consapevolezza, con dolore e incredulità, del suo non essere più nel guscio protetto di una dualità indissolubile.
Una dicotomia dell’anima
.

Improvvisamente, quei 22 mesi, sono diventati un gradino alto due anni. Netto, preciso, tagliente.
E tra tutte le domande difficili che mi son sentita fare in questi anni sul concepimento, la religione, la guerra, la malattia, la morte, Patato piccolo ieri sera, dopo aver lasciato il fratello alla festa, ha posto quella che come una freccia ha colpito il nucleo della mia emotività genitoriale, dilaniandola: non staremo più sempre insieme, vero?

giovedì 5 novembre 2015

There's a feeling I get when I look to the West...



…And my spirit is crying for leaving.

A volte guardo il cielo e mi pervade una strana voglia di tornare al di là del Sahara, dove una parte concreta e una eterea del mio cuore sono rimaste a battere con un ritmo che non mi è più familiare, ma non mi sarà mai estraneo.

Una sottile nostalgia, un vago senso di rimpianto per tutte le occasioni perse o non pienamente sfruttate, una sorta di innamoramento per un amante lontano e idealizzato.
C’è qualcosa che mi porta su quelle spiagge come anche in quelle strade, c’è qualcosa che mi porta a cercare le palme e a rimanere perplessa rispetto alla pelle che percepisce una stagione che di fatto non vivo appieno e nella sua interezza da anni.

L’autunno mi risuona dentro, pervaso da quella malinconia e quel romanticismo che da sempre mi appartengono e mi determinano. Ma c’è un luogo segreto, che non so identificare, dove si colloca la nostalgia per quella indeterminata mancanza di stagioni e punti di riferimento, per quel sole enorme caldissimo, per quella vita con le scarpe piene di sabbia.

A volte mi prende una specie di irrequietezza, guardo le foglie portate dal vento e forse per la prima volta in vita mia vorrei farmi portare via anche io.

La mia vita è qui e ora, ne sono cosciente.
Ma poi  c’è quella parte che trova quasi conforto nel saluto di una ragazza nera per strada; una ragazza che saluta solo me, come se mi conoscesse. Il cuore batte più forte, il sorriso risponde al saluto, i passi proseguono il cammino, insieme più stanchi e più sereni. Certamente più incerti.

lunedì 2 novembre 2015

Equilibri, ritrovati




Caro Architettone
oggi sono finalmente riuscita a venirla a trovare. Mancavo da più di nove anni e mi sentivo quasi imbarazzata.
Nella sua casa attuale mancano le sedie, e mi è quasi scappato un sorriso a pensare che lei di sicuro ne avrebbe progettate di adatte, per riunirci tutti lì e magari fare anche due chiacchiere o cantare una canzone.

Mancavo da una mattina caldissima di inizio agosto, quando avevo dentro un dolce segreto che era tale forse solo per la parte razionale di me, quando forse quella più intima sapeva già. Durante il viaggio che mi aveva portato lì, avevo avuto quasi un lampo di consapevolezza, finito presto nella coscienza del reale, del saluto, del concreto. Era un segreto che avrei tanto voluto poter avere la possibilità di condividere con lei, che lo avrebbe accolto con un sorriso, ne sono certa.

Sono venuta a confessarle la mia vigliaccheria, sperando nella sua assoluzione. Vigliaccheria per non essere riuscita più a venire, vigliaccheria per tutte le volte che tornando da un mercatino a notte fonda alzavo gli occhi su una finestra illuminata e pensavo “domani vado” e poi la luce di giorno mi toglieva il coraggio.
Ci sono andata sa, una o due volte. Ho salito quelle scale, ho poggiato la mano sulla ringhiera di cui andava tanto fiero, ho parlato, forse anche riso, ma sono tornata a casa con una pesantezza densa ad inzupparmi il cuore.

La sua era l’ultima porta, avevo bussato a tutte e in tutte avevo provato la sensazione sgradevole di non essere una persona, di essere una provenienza, una diversità.
Ricordo ancora come mi sentissi demoralizzata da un posto che rimarcava costantemente il mio non appartenergli, in quel primo gennaio toscano. E per la prima volta trovai calore. Forse il primo pezzo del mio cuore lei lo ha conquistato lì, quella prima mattina. Io non so mentire, così misi le mie carte in tavola, e lei sorrise. Come sorride un padre, o un nonno.

Nel poco tempo che abbiamo lavorato insieme, lei mi ha insegnato la passione per il mestiere, la tenacia, e anche tante altre cose che ho capito dopo.
Ma soprattutto lei mi ha dato empatia.

Ognuno ha la sua cartina al tornasole per valutare chi ha di fronte, la mia è la diversità.
Un giorno le parlai di mia sorella, non so come venne fuori il discorso, e lei mi parlò di una ferita del passato. Era una ferita che grondava amore e ancora oggi sento dentro il grande privilegio insito nel permettermi di vederla.
Poi un giorno venne Ale a studio con me, era estate e lei aveva un gran cerotto sul petto, in alto. Prima ancora che potessi farlo io, lei la rassicurò con il tono e le parole giuste, senza paternalismo, senza difficoltà, senza pietà: è stata una delle pochissime persone capaci di fondere consapevolezza, rispetto e dolcezza, nell’approccio con lei. Ed è stato allora che lei mi è entrato nel cuore, e non se ne è più andato.

Tre giorni fa anche sua moglie è venuta ad abitare in quel posto per cui alcuni hanno una facile definizione ma che poi in finale è solo un oltre, ciò che è dopo ai passi fatti insieme. Un luogo silenzioso di passi dell’anima, il nulla e il tutto.
Forse è questo che mi ha dato il coraggio stamattina, il sapervi insieme.

Ogni coppia ha il suo punto di equilibrio e cade per ognuno in un posto diverso. Ogni coppia non è che la ricerca, la protezione e il mantenimento di quella posizione in cui tutti i tasselli combaciano e in cui si sta bene senza arrecare disturbo all’altro. Ci sono coppie che oscillano intorno a quel punto durante tutta la vita comune, senza mai trovare il punto esatto in cui l’io e te combaci perfettamente con il noi. Ed è un punto che rimane incomprensibile a chi osserva, è un punto che parla un linguaggio diverso, è un punto di cui è più facile avvertire l’assenza, più che l’essenza.

Quando salii quelle scale, questo mi colpì. L’assoluta percezione della mancanza di equilibrio, l’assoluta percezione dell’assenza.
Quando hai passato la vita accanto ad un uomo come lui, come puoi guardare il resto e trovarlo ancora bello? Questo disse lei, quel giorno, concretizzando la mia sensazione. E togliendomi ogni forza di tornare.

Ora c’è di nuovo equilibrio, il vostro.
Forse per questo sono uscita oggi dalla vostra nuova casa piangendo, ma inspiegabilmente serena.