sabato 24 dicembre 2016

Ciao papà...


Ci siamo sempre assomigliati tanto, io e te.
Stessa corporatura, stesse mani, stesse unghie, stesso carattere un po’ di merda.
Ugualmente fumini, ugualmente presuntuosi. Stesso modo di prendere fuoco se arrabbiati e di farsela passare in fretta.
Ci siamo sempre capiti al volo, alzandoci la palla per battute ironiche al limite del caustico.
Stessa abitudine di pretendere tanto dagli altri ma in prima battuta da noi stessi. Stessa incapacità di dire “non ce la faccio, arrangiatevi”.
Stessa passione nel lavoro, stessa razionalità.
Ho passato trent’anni a percularti per l’uso di excel pure per fare il caffè e oggi faccio lo stesso anche io.
Stesso bisogno di programmare e avere tutto sotto controllo.

Sai papà avevo sempre creduto che si diventasse grandi sposandosi, trovando un lavoro, comprando una casa, mettendo al mondo dei figli. In questa settimana ho capito che si diventa grandi quando ti muore un genitore, perché in prima linea ci sei improvvisamente tu, e non sei mai pronto per affrontare questo passaggio, nonostante figli, lavoro, famiglia, casa.
Perché non potrò più dire “papà ho un problema” e ascoltare consigli o spiegazioni, ma sarò io la persona cui verrà richiesto di risolvere problemi, trovare soluzioni, segnare la strada.
E a questo passaggio di consegne non si arriva mai pronti o quantomeno mai pronti del tutto.

Avrei voluto avere più tempo, vederti invecchiare; avrei voluto che vedessi crescere i Patati e diventare gli uomini che adesso sono in boccio. Invece tu resterai sempre cristallizzato in quell’età e io continuerò ad andare avanti, un po’ zoppa e un po’ più sola.

Mi hai lasciato quella che sono, con quei pregi e quei difetti che erano anche i tuoi. Mi hai dato la capacità di non perdere mai la ragione, di non arrendermi mai. Mi hai sempre detto, di fronte alle mie mille paure e insicurezze, di buttarmi: “Cosa può succedere se non va bene? Ti possono ammazzare? Ecco, no, allora vai avanti”.
E io sto andando avanti, lo farò un po’ anche per te.
Manchi immensamente, soprattutto oggi, soprattutto ora.

venerdì 2 dicembre 2016

Blog amarcord




Ricordo con una certa nostalgia quando i blog erano ancora solo un diario e il mantenimento dell’anonimato era per tutti noi pionieri del blogging quasi una priorità. Erano gli anni di Splinder e ci si presentava e conosceva attraverso un nickname, ci si sentiva più liberi di raccontarsi in maniera spontanea, di tirar fuori emozioni, dubbi, scazzi senza tante remore perché avevamo questa corazza che sembrava renderci virtualmente invisibili. Ci si conosceva attraverso le affinità e le curiosità e alcune delle persone conosciute all’epoca sono state e sono ancora molto importanti per me.

Oggi i blog sono qualcosa di profondamente diverso: nascono e sono strettamente collegati a profili social assolutamente riconoscibili, in cui spesso tutto sembra essere strumentale al raggiungimento di uno scopo (visibilità, fama, compenso).
Fare rete in maniera sana è sempre più difficile, a ben guardare.

Perché fare blogging, scrivere di se stessi in rete, è diventata una professione con incarichi, compensi, marchette. Il che va anche bene, visto che permette a chi scrive di potersi dedicare a farlo coprendo almeno i costi della gestione del blog stesso. Il rovescio della medaglia è invece che di contenuti di qualità, in questi blog, ce ne sono sempre meno perché tutto diventa appunto strumentale sia al guadagno che, ancora di più, alla costruzione e definizione di un’immagine di sé allettante e figa che piaccia a chi legge.

Perché se piaci fai seguito, numeri, vali e prima o poi collabori con qualcuno. Ma nel costruire questa immagine… quanto perdi di te?
Vedo bloggerine dell’ultimo minuto inventare panzane grandi come una casa, arrampicarsi sugli specchi, uccidere quotidianamente l’italiano, nuotare nell’incoerenza di ciò che affermano e vomitare malcontento ovunque sia data loro occasione di farlo e… mi prende male.

Mi prende male perché quando offri te stessa agli altri, puoi lavorare forse sulla forma, ma mai sulla sostanza… altrimenti è un inganno.
Mi prende male perché tutte quelle dispensatrici di sorrisi e cuoricini spesso poi in privato si parlano dietro con invidia e livore e cospirano le une contro le altre. E li vedi quei sorrisi finti che fanno tanto “mi stai tremendamente sul cazzo ma mi servi a far pensare di essere social quindi ti metto il cuoricino e via”.

Eh, ma come, hai un blog anche tu e gestisci un sito… che fai: sputi nel piatto in cui mangi?
Il mio lavoro non è, e presumo mai lo sarà, fare la blogger. Non mi interessa, non sarei mai capace di modificare quello che scrivo in base alle chiavi SEO, per dire… al massimo posso metterci una pezza dopo. Sono forse troppo egoista o troppo presuntuosa o troppo vecchia per mettermi a cercare di diventare, attraverso parole non mia, ciò che non sono.

Il mio lavoro è (tra le tante cose) osservare la rete, in un certo senso. E forse mi piace proprio perché mi permette di mantenere il distacco necessario per vedere le cose con obiettività.
So cosa tira, osservo ciò che accade, noto ipocrisie, mi annoto scorrettezze per eliminare quelle persone da una mia lista personale di persone interessanti con cui lavorare a qualcosa. Cerco in questo di mantenere una coerenza per rispetto verso gli altri certo, ma in primis verso me stessa. Mi piace potermi guardare allo specchio in ogni istante e vederci sempre me.

Il fatto che a me non interessi minimamente diventare personaggio è lampante nella gestione che ho di questo blog: condivido pochissimo i contenuti nei social e solo se ne ho tempo e voglia, non scrivo per gli altri ma scrivo per fissare ciò che mi accade, ciò che mi colpisce… se poi colpisce anche altri e ne nasce qualcosa è fantastico ma, davvero, non è quello lo scopo.

Ed è per questo che seleziono, che cesello, che scelgo di cosa parlare qui (ma anche in instamamme in fondo) senza spammare la mia vita in rete credendola più interessante di quella degli altri o cercando di venderla per tale.
È la mia vita: se tra ciò che mi accade o mi accade intorno c’è qualcosa su cui abbia senso riflettere, lo faccio e lo faccio qui. Se voglio condividere momenti belli o brutti lo faccio, se voglio raccontarvi una ricetta e la sua storia, lo faccio. Perché questo blog parla di me e del mondo attraverso la mia lente e non di quello che penso agli altri piacerebbe leggere.

In fondo sono rimasta una figlia di Splinder, probabilmente, ancora romanticamente legata a quell’idea che per scrivere si deve aver qualcosa da dire e da dirsi, di qualunque tipo, a prescindere da quanti leggeranno.

Invece oggi i blog non nascono più per essere scritti: si sono evoluti in qualcosa che nasce già con lo scopo di essere letto, ed è un cambiamento non da poco… scrivere per l’amore di farlo è oggi una banale utopia: se non ti leggono, o non ti condividono, non sei nessuno.
Il problema è: davvero devo farmi dire dalla rete se sono qualcuno o chi sono?

lunedì 21 novembre 2016

La pancia della mamma scricchiola...




… così direbbe Patato Piccolo, e avrebbe ragione.
La pancia di mamma scricchiola perché c’è ancora (per poco) un drenaggio attaccato e perché la mamma ha una piccola carta geografica di cerotti come recente memoria di una scelta precisa e decisa: quella di mettere uno stop al suo mangiare male e al suo rapporto malato con il cibo.

Quando il cibo non è più (ma lo è mai stato?) solo sostentamento ma diventa amico, consolatore, fonte di gratificazione, alibi, schermo verso il mondo… allora si ha un problema.
Io il problema ce l’ho da 26 anni e ho sempre pensato a risolverlo con “pezze” fatte di diete, consulti e varie… poi un giorno ti accorgi che non devi mettere una pezza su una cosa vecchia, quanto invece trovare la stoffa e il modello che faccia per te, per la tua storia.
E allora capisci che non devi cambiare solo ciò che mangi, ma piuttosto il perché e il come mangi.
Ed inizi un percorso, che di sicuro è in salita (ed è giusto che lo sia: non puoi pensare che la tua vita cambi drasticamente senza impegno o fatica: tutte le cose belle vanno conquistate) ma che in realtà funzionerà solo se avrai coraggio e pazienza di scavare, rimuovere, mettere in discussione tante cose.

Ecco, sono all’inizio di questo percorso. L’inizio pratico, perché quello di consapevolezza è iniziato qualche mese fa.
Sono stati mesi un po’ complicati nella Tana, gli ultimi: la prima visita, il lavoro con instamamme che non si ferma mai, un’estate fatta di mercatini, vacanze bellissime in famiglia e con amiche importanti, un settembre di ripresa, le visite ad ottobre, l’intervento martedì.

Non è un caso che io torni qui proprio adesso che finalmente ho messo un punto importante e che sia pronta a condividerlo: gli ultimi periodi sono stati pieni di dubbi e paure, inutile negarselo e credo che chiunque abbia dei figli possa capirlo benissimo.
Scegliere consapevolmente di accettare il rischio intrinseco di un intervento chirurgico è ben diverso da affrontarne uno perché costretti: hai una scelta, e stai scegliendo. Con tutto il carico di responsabilità che questo comporta verso di te, il tuo compagno, i tuoi figli, i tuoi genitori.
Poi capisci che anche loro, oltre te, meritano di avere a fianco la vera te e non il bozzolo che la imprigiona da troppo tempo. Poi li vedi sereni accettare che tu provi a migliorare la tua vita, perché semplicemente ti amano e vogliono che tu sia felice.

È questa la consapevolezza che mi ha accompagnato nel breve tratto tra la camera e la sala operatoria, martedì. Ed è stata fondamentale, senza non ce l’avrei mai fatta. Mi sono detta che se loro erano pronti a rischiare di perdermi per permettermi di essere felice, dovevo anche io amarmi allo stesso modo e concedermi la stessa possibilità.

Per cui oggi sono qui, tornata a casa e pronta ad iniziare i piccoli passi di questo grande percorso che non so ancora dove mi porterà ma che so di percorrere con chi amo e mi ama.
E no, non è affatto scontato.

lunedì 20 giugno 2016

Quando l'Italia ha ricominciato ad essere casa mia



Poco meno di un anno fa prendevo un aereo per tornare in Italia, nel mio Paese.
Per capire che questo sarebbe stato di nuovo il mio Paese ci ho messo un po', in effetti. O forse più per accettarlo che per capirlo, onestamente.
La Costa d’Avorio è stata un’occasione così importante sotto così tanti punti di vista che c’è voluto di lasciarla per riconoscere con umiltà di amarla tanto ma di non appartenerle.

Forse la consapevolezza è arrivata in una calda, si fa per dire, giornata di agosto, quando finalmente mi riavvicinavo alla Terra di Mezzo con l’occhio della memoria, dei passi fatti, dei semi lasciati cadere e ormai diventati pianticelle.
Forse la consapevolezza già nasceva nell’immaginare come quella casa avrebbe parlato di altri, o cosa di quella vita ci avrebbe seguito in questa nuova avventura.

Perché, ora posso dirlo con onestà e consapevolezza, tornare è stata l’avventura al contrario del partire, con la sostanziale differenza che partire era stato un arrivederci e tornare implicava un addio.
C’è stato da ricomporsi e ritrovare equilibri. C’è stato da riprendere una quotidianità in cui la spesa si faceva in una lingua diversa e le parole non ti venivano mai. C’è stato da inserirsi in una scuola completamente diversa per metodo e organizzazione.
C’è stata la difficilissima accettazione del vedere i nostri figli fiorire e capire che in Costa d’Avorio forse non sarebbero fioriti mai. C’è stato un Patato Piccolo che sorrideva, per la prima volta in quattro anni, nell’andare a scuola e ci sono stati immensi sensi di colpa con cui fare i conti.

Insomma c’è stato da riprendere dei fili e lasciarne indietro altri, come per ogni cambiamento. C’è stato un periodo di assestamento e uno di spaesamento, nel delirio immenso delle migliaia di cose da fare.

E poi c’è stato il momento, in qualche posto indefinito tra il sorriso di tuo figlio e la prima spesa fatta senza tradurre, in cui non solo hai capito che questa era casa tua ma l’hai vissuta come tale nella sua interezza. Che ti sei sentita a casa.
Per quel sorriso, per la spesa, per l’aria che respiri, per le strade che percorri, per tutte le emozioni che hai ritrovato senza mai aver capito di averle lasciate indietro.

C’è stato da riconoscere che questo posto del mondo, questo Paese che amo e ho sempre amato, in qualche modo aspettava il mio ritorno e io il suo abbraccio.
Perché vivere all’estero ti presenta il conto di quanto il tuo Paese non ti piaccia, per prima cosa. Poi ti insegna ad apprezzarlo. Ma te lo fa vivere sempre in differita, sempre come fosse la vita degli altri e non la tua.

L’Italia è qualcosa cui senti di far parte ma è sempre più indefinito e lontano, sfumato. La vivi per l’assenza più che per la presenza, quando vivi all’estero. Per quello che non ha saputo trattenerti.
Poi arriva il giorno in cui dentro ti nasce la tua storia con tutte le sue consapevolezze e per quanto tu la possa relegare in un angolino piccolo e nascosto, per quanto tu non sappia dargli un ambito concreto e definito, è quella storia a dirti chi sei, ovunque tu sia.

Con questo post partecipo all'iniziativa "Instamamme vuole anche te"... scopri come farlo anche tu! 

venerdì 17 giugno 2016

Tempi diversi


Una delle cose che mi ha insegnato l’Africa è stato il valore del tempo.
Del tempo che concedi alla scoperta, di te stessa come di ciò che ti circonda, o ai tuoi interessi.

In Africa avevo un tempo molto più rarefatto e mio.
Sarà perché i bambini erano a scuola quasi tutto il giorno, sarà che il Marito Paziente aveva dei turni che contemplavano o solo la mattina o solo il pomeriggio e mai il fine settimana, sarà quel che sarà ma il tempo non mi mancava mai.

Riuscivo a lavorare, tanto, su Instamamme, a creare bigiotteria e oggetti artigianali, ad andare in piscina due volte alla settimana, anche a leggere. E tenevo perfino abbastanza aggiornato questo blog.

Da quando sono in Italia lavoro meno su Instamamme, non ho ancora creato nulla (e l’estate si avvicina!), la piscina l’ho vista solo quando portavo i bambini a nuoto, leggere è quasi un’utopia. Per non parlare del blog, la cui frequenza di aggiornamento è quantomeno imbarazzante.

Sicuramente ha influito anche il lavoro di Marito Paziente, tornato a turnazioni che coinvolgono anche notti e fine settimana, e di certo devo ancora trovare un equilibrio anche io.
Ma la cosa più dirompente riguardo all’organizzazione familiare è stata quella attinente alla sfera Patata: scuola, compiti, attività, socialità.

Abbiamo scelto per loro i “moduli”, quel sistema scolastico che prevede 5 giorni di frequenza fino alle 13 con un rientro solo a settimana.
Questo ci ha consentito di potergli far svolgere attività pomeridiane, tra compiti, sport e amici. Ma per noi genitori è stato un delirio di cose da far combaciare, soprattutto quando nello stesso giorno c’erano magari molti compiti e la piscina, o la lezione di inglese.

Alla fine di questo anno scolastico tirando le somme, nonostante queste difficoltà, penso che abbiamo fatto la scelta migliore per loro, che venivano da quattro anni di scuola fino alle 16:30, che non avevano mai avuto la possibilità di attività pomeridiane, che vivevano la socialità solo durante le ore scolastiche.
Vederli giocare con i loro amici, ospitare noi loro o portare i Patati da loro, è stata una cosa bellissima.

E il tempo? Il tempo è una coperta corta che implica scelte e rinunce, e tanto vale accettarlo e mettersela via. Il tempo è qualcosa a volte da domare e a volte da assecondare, a volte da rubare a volte semplicemente da organizzare.
Ma in questo tempo che viviamo ogni giorno ci sono bambini più felici, e se questo implica il dormire di meno per fare ciò che di giorno non si riesce a fare… pace.
C’è sempre l’opzione del fare meno, la più dura da accettare… ma ci sto lavorando su.

martedì 14 giugno 2016

Dietro le ciglia


Ogni sera vi guardo dormire, sereni.
Mi chiedo sempre cosa si annidi dietro le vostre ciglia, se c’è un nodo non ho saputo sciogliere, se ho dato troppo, se ho dato troppo poco, durante la giornata appena finita.
Ho capito tempo fa che non sarei stata la mamma che pensavo sarei stata.
Del resto non c’è un corso in “mammologia”, qualcosa e qualcuno che ti dica se stai sbagliando o se stai facendo bene.
E così abbiamo sempre navigato a vista, noi tre. Annusandoci ogni giorno, adattandoci ogni giorno l’uno alle debolezze degli altri. Perché chiunque dica che una mamma non debba avere debolezze è uno sciocco: una mamma debolezze le ha, e alcune deve addirittura condividerle coi figli.
Vi guardo ogni giorno  e ogni giorno mi stupisco di come, nonostante gli enormi cambiamenti ci siano stati in questi anni nelle vostre vite, voi abbiate fatto vostro ciò che vi abbiamo proposto, o imposto, senza drammi. E mi domando come mi sono potuta meritare due figli così meravigliosamente recettivi, aperti, capaci di giocare la vita con lingue e in luoghi differenti.
Vi guardo dormire tranquilli e vorrei essere capace di avere la vostra serenità e la vostra certezza nel futuro.
Vorrei che mi insegnaste la semplicità, la bellezza delle emozioni elementari. La bellezza dello scoprire le cose poco a poco, piuttosto che di conoscerle già.
Ci sarà un giorno in cui sarete voi a spiegare il mondo a me, inevitabilmente. Spero di riuscire ad essere una buona alunna, di avere la stessa voglia di imparare che voi avete oggi.
Arriverà anche il giorno in cui non sgattaiolerò più nella vostra camera per spiare il vostro respiro calmo, arriverà il giorno in cui a chiedersi cosa si celi dietro le vostre ciglia sarà un’altra donna. Spero di riuscire a non avercela troppo con lei, per questo. Ve lo prometto, mi impegnerò.
Per ora mi godo questo momenti inconsapevolmente solo nostri e meravigliosamente ancora solo miei. <3

venerdì 3 giugno 2016

Standard e aspettative


Una delle lezioni più importanti dell’esistenza, quella subito dopo quella su come funziona il cervello di un uomo credo, deve essere stata quella sull’evitare di fissare degli standard, nell’offerta che si fa di sé e del proprio tempo e impegno. Ovviamente me la sono persa.

Ci pensavo mentre, dopo aver passato mezza mattinata, rimandando anche delle cose di lavoro un po’ urgenti, a spignattare per portare in tavola qualcosa di buono, sano e gustoso per i miei figli, ottenevo l’equivalente facciale di “che palle” allo scodellamento delle lasagne nel desco familiare.


Tralasciando per un attimo la voglia che avessi di mettergliele per cappello, a quei piccoli ingrati, riflettevo che se la reazione dei miei figli a un cibo che io vedevo solo nei giorni di festa fosse quella, forse avevo sbagliato qualcosa io. Forse li sto viziando, forse semplicemente sto alzando troppo il livello delle loro aspettative, forse non è un bene.

Non è un bene per loro, che forse non sapranno più apprezzare un momento “speciale”, il pranzo della domenica, il piatto preferito la sera del compleanno. Non è un bene per me, che finirò per non riuscire più a mantenere lo standard cui oggi, seppur con sacrifici e scelte (non lavoro la mattina? Lavorerò di notte, è semplice), li sto abituando.


C’è qualcosa di me che lotta profondamente contro questo concetto: sapere di fare qualcosa di speciale (ok, che io, con la mia storia, reputo speciale) per loro mi rende felice, non mi fa sentire stanchezza, rimpianto, mi aiuta a non sentirmi in colpa quando devo finire un lavoro e non posso dedicarmi a loro come vorrei e vorrebbero.

È ovvio infatti che ciò che do ai miei figli è la mediazione tra ciò che posso dare e ciò che loro desidererebbero, una coperta corta tra diversi bisogni e desideri che una volta copre di qua e una volta di là.


Cerco di non vivere la cosa con troppi sensi di colpa: hanno la fortuna di avere una mamma magari impegnata ma in casa, una mamma che puoi interrompere se hai un dubbio o un’esigenza; una mamma che può invitare a cena il tuo amico del cuore senza drammi, perché non ha cartellini da timbrare e può fare scelte.
D’altra parte, però, è anche vero che questa condizione porta comunque ad uno standard alto di offerta: solo per rimanere nell’ambito culinario, è abbastanza raro che i miei figli mangino qualcosa di rimediato e il “pronto da cuocere” non sanno neanche cosa sia. A mantenere uno standard alto, si rischia che tutto sia dato per scontato. E non è un bene per nessuno.

La verità, nuda, cruda e onesta, è che sono io che non sono capace di darmi un punto. Che ho sempre paura che ciò che do non sia abbastanza, in famiglia come negli affetti e non parliamo proprio del lavoro. Che a parte la stanchezza o la prostrazione mentale, non ho un limite superiore e ho un senso del dovere inox. Dovere autoimposto, ovviamente: so essere più esigente e severa con me stessa di chiunque altro.

Su questo riflettevo, l’altro giorno: offrire così tanto, in termini di precisione, disponibilità, attenzione, impegno, è per chi ne beneficia più un regalo immediato o una possibile condanna nel futuro?

venerdì 27 maggio 2016

Maternità e lavoro


C’era una volta una bambina che sognava di fare la mamma, un po’ come tutte le bambine col vestitino a balze e i codini.
Poi c’è stata una ragazzina che voleva fare l’architetto, modificare lo spazio, controllare l’indefinito.
Poi è arrivata una ragazza che voleva essere entrambe le cose, con la stessa urgenza e la stessa passione.
Infine, ecco una giovane donna che voleva essere madre, e il resto che si arrangi.

La donna adulta che oggi è dietro a questa tastiera, le guarda e le contiene tutte e quattro e sorride. Un sorriso un po’ amaro, perché la vita non è mai quell’equazione certa che credi possa essere fino a che non ti ci lasci inzuppare un po’.
Un sorriso aperto e onesto, perché nonostante tutto, ha trovato un equilibrio.

Ha scoperto che fare solo la mamma non le sarebbe bastato mai.
Ha scoperto che non seguire i suoi figli non fa per lei, non delegherebbe mai a nessuno il suo ruolo di educatrice, consolatrice, confidente. Ed è stata una scoperta sorprendentemente recente.



Ogni cosa arriva quando sei pronto a riconoscerla, e accettarla. Per me ci sono voluti anni di mutilazioni dell’ego e della stima di sé stessi per accettare che la prospettiva di essere “solo” la madre dei miei figli mi facesse venir voglia di fuggire lontano. E no, non sto scherzando.

Ho vissuto la maternità come una bellissima prigione dorata, pur avendo voluto e cercato entrambi i miei figli, forse a causa del presupposto sbagliato: pensavo che la maternità sarebbe stata la mia realizzazione… Ma la maternità non è qualcosa che ci appartiene, è il creare qualcosa che appartiene al mondo, che non controlli, che non deve realizzare te quanto sé stessa, grazie anche a te.


Un figlio non può essere una realizzazione, è e deve rimanere troppo sé stesso per realizzare te.
Anni di disagio per capirlo, o meglio per accettarlo. Anni in cui ti senti la peggiore delle madri perché hai concettualmente bisogno di tempo da adulti e invece passi le giornate col cubotto parlotto. E non sei felice.
Certo, la scolarizzazione dei miei figli, iniziata al nido, ha contribuito alla mia sanità mentale, ma mancava la difficilissima fase di accettazione della differenza tra come ti immaginavi e come invece hai scoperto di essere. Per cui ok, senza bimbi perché a scuola, ma anche senza scopi.

Il mondo del lavoro non ama le madri, scioccamente e banalmente, figuriamoci quanto possa amarne una che deve ricominciare da zero dopo due maternità e in un periodo di crisi del suo settore. Così ero a casa, a sentirmi la peggiore delle madri, again, perché nonostante i miei figli fossero a scuola e avessi tempo, non riuscivo a trovare il mio spazio, l’oasi felice della mia realizzazione.

Cosa sai fare? Mah, scrivere, dicono. Ok. Te la senti? No.
Altre cose? Ho fantasia. Imparo in fretta.
Ed è così che ho ripreso in mano la mia passione per l’artigianato, scoprendo nuovi materiali, perfezionando tecniche, inventandomi qualcosa di nuovo e proponendolo nei mercatini. Amo la gente, amo lo scambio, amo mettere la faccia in ciò che faccio.

Quando la cosa stava iniziando a diventare più seria, avevo gettato delle basi, iniziavo a essere conosciuta almeno in ambito locale… siamo partiti.
Dire che l’abbia presa male, sotto questo aspetto, è un blando eufemismo: ero arrabbiata, delusa, scazzata… santo subito il lavoro di mio marito, ancora più santo perché era grazie a quello che stavamo vivendo quella realtà che poi ci avrebbe cambiato la vita, ma perché dovevo essere sempre io a rinunciare, a ricominciare, a ricostruire?
Siamo arrivati ad un passo dal divorzio, in quel periodo. E anche su questo, non sto scherzando.



Poi è arrivato Instamamme. Il mio lavoro.
È arrivato come un gioco, qualcosa in cui buttarsi perché tanto di tempo ne avevo, cosa potevo perderci?
È arrivato senza crederci troppo… ma dai, io che lavoro in gruppo? Con altre donne, poi. Non ho la costanza, non l’avrò mai. Non ho la pazienza, la conciliazione.
Però non avevo nulla da perdere, e mi sono detta “proviamo”.

E siamo ancora qui.
Oggi instamamme non mi fa pagare le bollette, ma mi rende contenta del tempo che gli dedico e del tempo che dedico ai miei figli, in uno strano equilibrio in cui mamma c’è ma sta lavorando oppure mamma c’è perché c’è bisogno che ci sia e pace; in cui se non posso lavorare oggi, lo farò stanotte. In cui il nostro datore di lavoro siamo noi stesse, ognuna con sé stessa e con le altre.

Oggi i miei figli considerano Instamamme un lavoro, e non solo perché mi occupa parte delle giornate o mi distoglie da loro. Ne fanno parte anche loro, si sentono coinvolti, vengono coinvolti, capiscono e apprezzano l’impegno che mi vedono mettere in quello che faccio, capiscono la stanchezza, apprezzano il risultato quando viene loro presentato.
È questo che rende instamamme il mio lavoro ed è curioso e bellissimo notare che non solo ha in qualche modo avuto origine dall’essere madre, ma ci si confronta ogni giorno.

Ognuno di questi due ambiti, la maternità e il lavoro, mi permette di migliorare me stessa nell’altro: sono una mamma migliore perché sono felice, sono una lavoratrice migliore perché l’essere madre mi fornisce stimoli e fa trovare soluzioni e conciliazioni che prima non avrei neanche mai preso in considerazione.


Diciamo che ho trovato un equilibrio, qualcosa che mi permetta di scegliere, di non delegare, che non mi faccia sentire prigioniera di un ruolo o di un lavoro in cui a dettare condizioni e tempi non sia io. Non è poco, davvero.
È fortuna, impegno e forse un pizzico di follia. Ma questo solo la donna matura poteva saperlo.



Con questo post partecipo all'iniziativa "Instamamme vuole anche te"... scopri come farlo anche tu! 

sabato 21 maggio 2016

Milano, che mi fa bene e mi fa male


Milano mi piace: mi è piaciuta in estate, deserta e con un cielo da cartolina, mi è piaciuta in un freddo capodanno con un’aria noncurante e sospesa, mi è piaciuta in questo maggio che sembra marzo, in metropolitane affollate e strade piene di turisti e persone indaffarate nei loro perché.




Questa volta, Milano è stata il mio primo MammacheBlog: un evento cui volevo assolutamente partecipare, dopo anni in differita. Un evento che mi ha fatto fare il pieno di sorrisi, di abbracci, di stimoli, di amicizia, di tante persone finalmente conosciute al di là di quello schermo che un po’ ci unisce tutte. Un evento in cui finalmente puoi toccare con mano l’impatto di ciò che hai costruito, dell’amore e dell’impegno che ci hai messo. Pare poco.



Questa volta Milano è stata una chiacchierata ad un tavolino di un bar, importante e preziosa. È stata l’abbracciare finalmente una persona con cui dividi scazzi, gioie, preoccupazioni, qualunque cosa da quattro anni, senza averla mai vista dal vivo. È stata un gruppo che ha la sua forza nella stima, nel conoscere punti forti e deboli l’una dell’altra, nel concederseli, nel perdonarseli, nello stimolarsi a mettersi in gioco, giorno dopo giorno.


Questa volta, Milano, è stata una strana quotidianità condivisa con una persona cui voglio molto bene. Sono stati momenti rubati agli impegni di ognuna, bei momenti, parole, racconti, confronto. Quelle cose che seppur brevi hanno un peso specifico enorme, nell’economia dell’esistenza.

Questa volta Milano è stata una strana autonomia cui non ero abituata: 5 giorni per me, per il mio lavoro (che mi concedo di non mettere tra virgolette, perché alla fine tale è devo essere la prima a riconoscerlo, per dargli la dignità che merita), lontana dai tre uomini più importanti della mia vita. Era già capitato, ma solo per problemi di salute. È stata una solitudine pesante e strana, fatta di sigarette per riempire un vuoto, fatta di negozi da vedere con tranquillità, fatta di voglia di condividere e mani libere da manine piccole e sudate. Forse ci si può fare l’abitudine, ma è presto.


Questa volta, Milano, è stata un’assoluta e limpida nostalgia di qualcosa che vorrei e che non avrò mai, a meno di ribaltare di nuovo tutto quanto. È stata una Milano dove tocchi le occasioni, dove il tuo lavoro avrebbe un senso decisamente diverso, dove scopri che un posto può essere un concime per ciò che stai piantando, semplicemente. Ho amato ogni viaggio in metro che mi ha portato a svolgere un lavoro, in quei giorni piovosi e un po’ pigiati di mille cose. Ho rimpianto ogni viaggio che non farò. Una scrivania in un posto bellissimo per lavorare confrontandosi con realtà diverse dalla tua ma recettive, costruttive, abituate allo scambio.

Ecco, Milano è stato tutto questo, con un piatto della bilancia che si alzava e si abbassava a seconda del contesto, della compagnia o della solitudine, del reale o del virtuale.

Milano mi ha lasciato piena di sorrisi e concretezza, di puntini di sospensione e congiuntivi. E forse, anche, un po’ vuota perché essere soddisfatti e felici è ben poca cosa se non puoi esserlo guardando in faccia chi ami.

venerdì 29 aprile 2016

Passioni e definizioni


Con il ritorno in Italia sono ovviamente arrivate nuove amicizie e conoscenze.

Che lavoro fai?
Domanda classica che mi lascia sempre un minimo in crisi.
Spiegare cosa faccio nella vita è complicato a volte anche a me stessa.
Perché io sono tante cose, tutte insieme, e le definizioni mi fanno paura… più che cosa sono, preferisco dire come le passioni hanno determinato e determinano la mia vita.

Sono un architetto. Non faccio l’architetto. Per i casi della vita, per scelta un po’ mia e un po’ degli altri.
Non c’è spazio che non veda come possibilità: questo fa di me un architetto ancora prima dei 40 esami che hanno fissato su carta che io lo sia davvero.
Sono un architetto, ma non è il mio lavoro. È più il mio modo di essere, in maniera complicata: vedo cose dove gli altri vedono spazi vuoti, oggetti, colori.

Sono una blogger?
Ecco, no, ho un blog in cui scrivo qualcosa e che qualcuno legge, non sono una blogger. Perché il blog lo scrivo per me, per fermare riflessioni, per scrivere, per raccontarmi e raccontare, per rileggermi e capirmi, anche a distanza di tempo. Mi emoziono sempre tanto se qualcuno mi legge o mi commenta, ma il fatto che qualcuno sia d’accordo con me o si emozioni a sua volta leggendomi non mi rende “qualcuno”, non mi fa guadagnare nessuno status particolare.

Mi fa paura chi si definisce “blogger”: si sta già dando un’etichetta che in realtà non lo qualifica, il più delle volte.
Un blogger fa pianificazioni temporali, si dà scadenze, fa calcoli di statistiche e opportunità sui giorni in cui pubblicare. Il più delle volte ha abdicato allo scrivere di sé a favore di scrivere di un personaggio che ha le sue stesse sembianze.
I blog nascevano anni fa come diari online, e sono oggi strumenti commerciali. Non posso farcela, sono ancora troppo romanticamente legata a quell’idea di raccontarsi per confrontarsi, in maniera gratuita, spontanea. Poi lo faccio eh, pianifico etc, ma in un progetto più grande e non solo mio.

Scrivo
un po’ ovunque e con facilità, parlando di qualsiasi cosa.
Ma non puoi definirti “scrittrice” solo perché tutto sommato sai scrivere e qualcuno legge quello che scrivi e gli piace pure. Sei una scrittrice se hai qualcosa di serio e intelligente da scrivere e se sai renderlo attraverso parole che sappiano trasmetterlo agli altri. Se scrivi per comunicare qualcosa e non quello che altri vogliono leggere. Se sai mettere in parole i personaggi che hai dentro, se riesci a concederti di farlo.
Scrivere è una passione, secondo me. Quando lo vedi come un lavoro, scrivi per gli altri.

Quando devo parlare di cosa faccio nella vita, oltre alla mamma ovviamente, parlo sempre di un gruppo di donne che un giorno si sono incontrate virtualmente e, nell’infinita vastità del mondo virtuale, hanno visto la possibilità di condivisione delle proprie storie e esperienze. Senza definirsi, senza credersi qualcosa. Senza avere la pretesa di avere cose più belle, più sensate, migliori, più intelligenti da dire rispetto ad altri.
Insieme ad altre splendide donne gestisco quella che nel tempo è diventata una community, senza che ci fosse la volontà o il calcolo di diventarlo. Mi condivido, faccio in modo che altri possano farlo. Organizzo tempo e contenuti per offrire spazi di confronto e riflessione.
Anche in questo caso definirsi è difficile, forse perché alla fine non mi interessa farlo.

All’atto pratico la cosa che mi è più facile far arrivare di me è l’aspetto creativo: creo e faccio mercatini. Trasformo le cose in altro, interpreto materiali e colori.
Nel passato ho fatto biedermeier, pittura su vetro, decoupage, mille altre cose. Creo bamboline e bigiotteria, adesso.
La domanda seguente è sempre: che tipo di bigiotteria fai? Quella che mi viene di fare, e solo rigorosamente pezzi unici.
Ma come pezzi unici? Ma non sarebbe più vantaggioso riprodurre cose che sai già che piacciono?
Sì, lo sarebbe. Ma se io stessa sono un continuo mutamento, che senso ha fermarmi immobile in una singola cosa in cui ieri vedevo qualcosa che oggi già non vedo più?
So vendere ciò che faccio proprio perché è parte di me, perché l’ho pensato, smontato, rifatto finché non fosse esattamente un qualcosa in grado di parlare un linguaggio che saprei rileggere. Ma non sono una commerciante, perché non saprei mai vendere una cosa a chi non sa apprezzarla. Non so mentire, mai stata capace.

Quindi sono un architetto, ma non lavoro da architetto.
Ho un blog, ma non sono una blogger.
Scrivo, ma non sono una scrittrice.
Gestisco, insieme ad altri, una community in cui, nello specifico, creo spazi e tempi in cui alcune persone parlano di sé, aiutandole a fa uscire da loro ciò che rappresenta loro e non me.
Realizzo cose artigianali, ma non sono un’artigiana. Le vendo, ma non sono una commerciante.

Sono tante cose ma alla fine forse sono solo Francesca, una persona comunissima con tante passioni… e forse mi basta anche così.

Con questo post partecipo all’iniziativa Instamamme vuoleanche te, se vuoi unisciti a noi!

mercoledì 27 aprile 2016

...ma non dovevamo vederci più?


Giovedì scorso abbiamo festeggiato il nono compleanno di Patato Grande, in un locale. La sua prima festa da grande, con i suoi compagni e qualche amichetto e come adulti solo quattro tra genitori e amici, ad un tavolo defilato.
Le chiacchiere, le risate, quel camminare in equilibrio tra l’infanzia e la voglia di essere (ed essere considerati) più grandi, i gruppetti di confidenze e complicità.
Due bimbe mi chiedono timide “Possiamo andare in bagno?”. Insieme.
E allora ti ricordi di quando una delle due bimbe eri tu e quel bagno era il posto in cui trovavi il coraggio di parlare di qualcosa che iniziava a farti battere il cuore, che non sapevi spiegare ma si era tutte una risatina sciocca e complice.

Ci ripensavo, il giorno dopo, mentre guidavo dalla Terra di Mezzo a Peppaland e ripensavo a quanto è bello quel periodo in cui pensi ancora di aver davanti un foglio bianco di destino e di avere tu il nero per i contorni e tutti i colori per renderlo come vuoi tu.
Quel periodo in cui pensi ancora che la persona di cui ti sei innamorata sarà LA persona, che cambierà per te, che ti salverà da te stessa, che la salverai tu da se stessa. Che arriverà ad amarti, che la porterai ad amarti, che tutto quel sentimento che provi non possa non sublimarsi in un qualcosa di comune.
Poi cresci e scopri che l’amore non è una lotta per cambiarsi a vicenda, ma una lotta con te stesso per accettare che l’altro non cambi per te. Che non ha senso rincorrere chi alla fine semplicemente non ti vuole, che devi lasciare all’altro la libertà di non volere te perché ama un’altra persona dello stesso amore che tu provi per lui. E non puoi farci nulla.
E non è questione di “meritarsi di meglio”: tutti meritiamo qualcuno che ci ami per quello che siamo, che ci scelga… è quello il meglio, e chi non sa offrircelo non ne ha colpa, non si può forzare qualcuno a darti ciò che non ha. Può darti se stesso, non quello che tu vuoi sia.

E ripensavo a quello che è stato il mio grande amore di quell’adolescenza che non sapevo gestire e che ho imparato a gestire troppo presto. Quello che ha innescato un meccanismo che, a prescindere da me, da lui o da quello che ci aveva unito, ha cambiato la mia vita, trasformando il punto esclamativo che vedevo nel mio futuro in mille interrogativi, mille paure, mille passi incerti.
Quello che per primo mi spinse oltre i confini del pudore di condividersi, quello che per primo mi fece sentire un dono, una cosa bella e preziosa nel mio essere donna.
Ci pensavo ricordando l’idea immatura che avessi dell’amore all’epoca: il suo amore mi avrebbe salvato, avrebbe dato un senso al buio che mi aveva terrorizzato e ancora mi terrorizzava. Sapere di amarlo mi dava uno scopo che non riuscivo a trovare solo in compagnia di me stessa.
Se dai a un altro questo genere di compito è ovvio che sarà un fallimento. Ma è ovvio solo troppo tardi, quando ormai ti sei compromessa talmente tanto che una strada comune è quantomeno difficile. E così finì, finì quando mi accorsi che potevo solo dare, che non avrei avuto mai.

“Scusa, sei Francesca?”
Alzi gli occhi e sì, sei Francesca.
La prima cosa che in qualche modo riconosci è la voce, così particolare, leggermente strascicata. Non la senti da 21 anni, ma potrebbe essere la sua.
E allora dici “no, dai, non è possibile” e uno sguardo ti dice che no, invece è proprio possibile.
Perché c’è stato un periodo in cui per uno sguardo da quegli occhi avresti, e hai, fatto qualunque cosa, senza domande, senza filtri. Nello sguardo che ci scambiamo c’è un film muto che ci ha visti protagonisti e che oggi guardiamo da sereni spettatori.
E improvvisamente quella storia comune subisce un upgrade e davanti a te non hai il ventenne che hai lasciato indietro, ma il quarantaduenne che è diventato nel frattempo. E anche tu hai il tuo carico di anni, di segni, di figli, di pesi portati e messi tra te e il mondo. Improvvisamente siete solo due quarantenni con una piccola, forse importante per il momento in cui è stata divisa, intimità in comune.
Due quarantenni consapevoli, forse, dell’importanza relativa reciproca avuta nella vita dell’altro ma assolutamente consci e contenti delle scelte che ne sono seguite su percorsi diversi.
Emozione e forse un po’ di imbarazzo, ma nessun battito strano del cuore, nessun rimpianto, nessun sospiro.
Un altro pezzo che si incastra, un pezzo che aspettava da tanto di trovare la giusta collocazione.

Strano come la vita ti sorprenda, come ti ponga risposte esattamente quando con serenità ti poni delle domande e sai guardarti dentro con consapevolezza e onestà, quando forse sei pronta a vederle per quelle che sono e non per quelle che avrebbero potuto essere.
Venerdì pomeriggio ho raddrizzato un punto interrogativo e me ne sono andata, stupita ma serena, con un esclamativo in più addosso. Che aspettava da vent’anni.

mercoledì 30 marzo 2016

Amicizie e generazioni


Se vent’anni fa mi avessero chiesto di parlare di noi tre, avrei descritto qualcosa di simile a questo video.



La vita non ci ha mai messo in quella condizione, ma nutrivo la certezza che in caso sarebbe andata così. Che saremmo stati noi tre, che ci saremmo stati sempre, che avremmo sempre saputo come far star bene l’altro, che avremmo trovato sempre il modo, il tempo.

Noi che eravamo confidenze, sorrisi, lacrime, appunti prestati, scherzi, cose più serie.
Noi che eravamo telefonate per sfogarci, perché cercavamo aiuto, perché pensavamo che l’altro potesse averne bisogno, o solo per dirci che eravamo felici.
Non c’era niente, niente, della nostra vita che non passasse attraverso noi tre.

Abbiamo ascoltato e ci siamo fatti ascoltare. Abbiamo fatto cazzate e ne abbiamo riso. Abbiamo fatto cazzate più grandi e ne abbiamo pianto.
Abbiamo conosciuto amici, amanti, fidanzati, genitori. Ma non i figli.

Ed è stata una mancanza fatale, quella che ci ha lasciato in piedi sulla soglia e non ci ha fatto salire il gradino.

Forse siamo rimasti cristallizzati a quei tre seduti sui muretti, in fondo. Legati a quell’aspetto e a quel periodo della vita, forse abbiamo avuto paura di ammettere un cambiamento, di viverlo.
Non che non si faccia più parte della vita degli altri due. È bello sentirsi e raccontarsi, meraviglioso vedersi.
Lui è ancora quella sorta di fratello che non ho mai avuto, lei è ancora quella che apre i miei cassetti della mente, tocca e mette a posto, l’unica a cui concedo di farlo.
Ma ci manca un pezzo, un pezzo fondamentale.

Anni fa i miei figli segnarono uno spartiacque pesante e profondo: cambiarono me senza cambiare loro. Ero la prima a diventare genitore, e alla lontananza fisica si aggiunse anche quella mentale.
Avevo sempre immaginato uno scenario diverso, per noi tre. Avevo immaginato che sarebbero stati gli zii dei miei figli, una presenza “reale” e importante come lo erano stati nella mia vita… e non fu così. Per tanti motivi, senza dolo ma senza dubbio dolorosamente.

Sono ancora gli zii per i miei bimbi, perché sono io a farglieli vivere come tali, a parlargli di loro in quei termini. Spero sempre che si arrivi a ricomporre il virtuale col reale, perché alla fin fine non è colpa di nessuno, semplicemente accade che la vita ti separi un po’.

La separazione non comporta nulla in un rapporto che ha una storia: per me loro sono loro, il loro posto non è vacante né in discussione… nonostante i momenti pesanti, le recriminazioni, le delusioni che ognuno di noi potrebbe serenamente fare all’altro. Una volta avevano importanza; cresci e capisci che quello che conta, se ami qualcuno, è ciò che ti lega, non ciò che ti separa.
Per la seconda generazione del nostro rapporto la storia non è un vissuto ma un narrato, e mi assale sempre un po’ di rimpianto per qualcosa che avremmo tutti, io per prima, potuto gestire meglio.

Ci sarà tempo, ci sarà modo, lo troveremo.
Questo pensavo guardando questo video: forse quei tre ragazzi legati da un rapporto così speciale potrebbero un domani essere i nostri figli… forse no, ma è bello pensare che possa essere così.
O forse è solo il giro di boa dei quaranta che si avvicina e mi prende così. Chi lo sa.

martedì 15 marzo 2016

Grand Bassam, 13 marzo 2016.


Alcune cose che accadono ci sconvolgono più di altre, non tanto perché siamo noncuranti rispetto ad alcune, quanto piuttosto perché siamo più empatici nei confronti delle altre.
Empatia vuol dire capacità di immedesimazione, tra le altre cose.
È ovvio che più i gradi di separazione tra te e un evento, in termini di cultura, geografia, società, religione, sono alti in numero e meno sarai portato all’empatia. Potrai provare pietà, gioia o orrore, ma difficilmente potrai immedesimarti ed entrare nel cuore pulsante di una notizia, che sia bella o sia brutta.

Su quella spiaggia di Grand Bassam, fino a meno di 9 mesi fa, ci camminavo anche io. Ci passeggiavo, mi bagnavo i piedi nell’Oceano lottando con la corrente, sorridevo alle persone, compravo semi per le mie collane o parei da indossare sul costume.
In quell’Oceano mio marito faceva il bagno.
Su quelle spiagge, in quegli stessi stabilimenti, ci ho portato i miei figli quasi ogni weekend di sole.
Ce li ho portati con fiducia e con gioia, per cancellare il grigiore di una città in cui lo smog ti fa dimenticare che il cielo sa e può essere azzurro.

Se fossimo stati ancora in Costa d’Avorio, ieri saremmo stati quasi sicuramente a Grand Bassam, probabilmente proprio all’Etoile du Sud, come tante altre volte prima. Avremmo salutato il venditore di artigianato maliano, come sempre avrei finito per comprare perle e semi che già avevo ad un prezzo più alto del loro valore, fingendo di non saperlo. Saremmo stati seduti al tavolo che guarda verso l’Oceano, o forse saremmo stati in piedi a servirci per il pranzo a buffet della domenica.
E da lì avremmo visto arrivare la barca.

Quei corpi neri sulla spiaggia, fotografati nella loro disarmante crudezza, sono i corpi di persone che in qualche modo ho conosciuto, salutato, cui magari ho perfino sorriso, con cui ho fatto la fila per il pranzo o per il bagno, con cui i miei figli hanno nuotato in piscina.
Quei corpi bianchi potevano essere quelli di miei amici o di persone che hanno fatto le mie stesse identiche scelte finendo in quel luogo magari per caso, come me.
Quei corpi, tutti, indifferentemente, sono una ferita per un posto del mondo che cerca il suo riscatto e guarda ad un futuro, che sia il migliore possibile oppure no, e lo fa con fiducia.
Quei corpi, tutti, neri e bianchi, indifferentemente, sono una ferita per me, che ho amato e amo ancora di un amore contrastato e complesso un Paese che tanto mi ha dato e tanto ha voluto in cambio.

Ieri sera volevo scappare dai miei figli, per rassicurarmi di saperli al sicuro. Per rassicurami di essere al sicuro. Per cancellarmi di dosso un permeante senso di colpa per qualcosa che sarebbe potuto accadere. Per giurar loro che mai avrei pensato ci potesse essere qualcosa di così orrendo da cui doverli difendere, in quelle giornate di sole. Per farmi assolvere per qualcosa di indefinito e potenziale ma talmente enorme in peso da tenerti gli occhi aperti a tarda notte.
Non l’ho fatto, avevo paura che arrivasse loro il mio turbamento: l’empatia è una cosa importantissima, ma forse dovremmo preservarne i bambini, lasciare loro ancora la fiducia che basti la mano di mamma e papà, per essere al sicuro.

E mi fa rabbia e vergogna l’umanissimo pensiero che mi colloca felicemente lontana, e mi fa piangere e restare senza fiato quel pezzo di cuore che ho lasciato lì. Da ieri sono dolorosamente divisa tra un’assurda sensazione di fiducia tradita e un’acutissima nostalgia che mi colloca ancora su quelle strade.
Nonostante tutto, nonostante ieri, la Costa d’Avorio ci manca ancora, e credo non smetterà mai di mancarci. Ed è lì che capisci che l’unica cosa che ti salva da orrore e paura è l’amore, in tutte le sue forme.

martedì 8 marzo 2016

Lui e lei, noi...


C’erano una volta due ragazzini.
Il ragazzino aveva i capelli che crescevano dritti e un’aria pulita che sapeva di rispetto.
La ragazzina aveva qualche chilo in più e una pelle spruzzata di sole.
Passavano le mattine ad un’aula di distanza, nello stesso corridoio. Incrociandosi, sfiorando tra loro quelle loro vite acerbe e caleidoscopiche di possibilità, perdendosi nelle migliaia di occhi e sguardi che attraversavano quei corridoi.
Un giorno il ragazzino e la ragazzina si conobbero, e si piacquero. Lui si innamorò delle sue lentiggini e della sua intraprendenza, lei di quell’aria pulita e dell’odore della curva del suo collo.
Lui aspettava fuori, vicino al muretto, che uscisse anche la sua classe. Lei lo ricompensava di sorrisi.
Lui rubava, per lei, rami di mimosa dal cortile del giardino vicino, lei si riempiva occhi e naso di colori e odori, col cuore che prendeva un ritmo sconosciuto e diverso.
Negli anni quei ragazzini si sono visti attraversare mari in tempesta, perdendosi e ritrovandosi nelle mani intrecciate e negli abbracci silenziosi.
Sono diventati meno piccoli, meno sicuri, hanno piegato i loro futuri in condizionali, accettando la grande sfida del crescere.
Lui ha smesso di scavalcare muri per rubare fiori, lei ha smesso di permettersi l’intraprendenza.
Lui non ha mai smesso di amare le sue lentiggini e i suoi chili di troppo, lei non ha mai smesso di sentirsi al sicuro appoggiata nella curva perfetta tra il suo collo e la sua spalla.
Oggi quel ragazzino e quella ragazzina non ci sono più. Sono adulti, ormai. Sono un uomo e una donna.  Alle loro mani intrecciate se ne sono aggiunte di più piccole, il loro percorso oggi scorre in ritmi dettati da musiche che non osavano neanche immaginare, su quei muretti pieni di sole.
Ma quando le mimose sono in fiore, il cuore di lei batte ancora a quel ritmo oggi meno sconosciuto ma ancora diverso.
Forse questo li ha salvati: sono ancora due ragazzini, in vestiti troppo grandi per loro.

mercoledì 2 marzo 2016

Voti, impegno ed etichette


Poco tempo fa abbiamo avuto le nostre prime pagelle italiane. Le prime con dei voti a quantificare, invece che a esprimere un livello di apprendimento. Quantificare invece che qualificare, forse questo è il più grande limite delle aspirazioni della scuola italiana. Che sì, ok, ci sono i giudizi ma come è difficile non guardare il voto.

Voti secchi, senza sfumature che rendano merito a impegno e difficoltà. Lapidi sulle mille possibilità di un bambino, come di un ragazzo o di un uomo.
Verifiche oggettive e, quando saranno più grandi (per ora no: graziemaestregrazie) medie da calcolare, una freddezza disarmante a combattere con il calore dell’entusiasmo della conoscenza.

Perché il voto che negli anni ti verrà assegnato dipenderà magari dalla partita del giorno prima come anche da una scopata mancata: dietro a quel banco o davanti a quella cattedra non ci sarai solo tu ma anche quella palla entrata o meno, metaforicamente o realmente, in rete. E non potrai farci nulla.
E quel voto ti si stampiglierà addosso, volente o nolente.

Ci vuole tanta maturità nel non lasciarsi determinare da un voto, che è sempre una cosa relativa, data con un criterio assolutamente personale e legato al momento. Ci vuole di sapere chi si è, per non farti dire chi sei.

Per ora i miei figli non si curano dei voti se non nella misura in cui noi adulti ce ne mostriamo contenti o meno. Per loro la scuola è divertimento e scoperta e tale vorrei che rimanesse il più a lungo possibile.
Non nutriamo, nella Tana, nessuna aspirazione ad avere figli migliori degli altri. Preferiamo che non pensino di doverci dimostrare nulla, preferiamo che si impegnino senza che lo studio diventi un fine quanto piuttosto un mezzo attraverso cui vedere la vita con occhi diversi. Non vogliamo figli perfetti con voti perfetti in tutte le materie, ci godiamo i nostri figli imperfetti con interessi e predisposizioni assolutamente definiti ed identificabili.

Da ex bambina iper-performante, diventata poi donna stakanovista e perfezionista, l’unica cosa che mi sento di volere per i Patati è che la scuola non diventi mai un “devo” o un “lavoro” e rimanga il più a lungo possibile un “voglio” e un “gioco” da trattare con rispetto e impegno… speriamo che la scuola italiana non ci deluda, noi ce la metteremo tutta!

mercoledì 3 febbraio 2016

Famiglia, limiti e libertà


Il ritorno del Marito Paziente ha portato a tanti interrogativi e tanti confronti.
Per una coppia abituata a vivere tutti gli aspetti della vita, siano quelli pratici o quelli emotivi, insieme, la lontananza è sempre destabilizzante.
Vivere due realtà diverse, in modo così diverso, ha posto interrogativi con i quali forse non ci si era mai confrontati, forse per mancanza di opportunità, forse per mancanza di coraggio.

Vivere da soli, specie se con figli “a carico”, è senz’altro impegnativo: sai che tutto ciò che c’è da fare sarà inevitabilmente sulle tue spalle. Decisioni, azioni, risposte… tutto nasce e muore con te.
Giornate piene di cose da fare o organizzare, pezzi da far combaciare, pezzi da trovare, pezzi da inventare, perfino, a volte.

Ma è più facile.

Nessun compromesso, nessun’altra esigenza da contemplare e tutelare, nessun’altra volontà da conciliare con la propria.
Una voce narrante unica, senza contraddittorio. Una sola calligrafia da rileggere, senza interpretazioni.

Ricostruire una quotidianità unica dalle due che l’hanno preceduta non è facile, soprattutto se questo consegue ad una separazione tra chi è rimasto in un posto e chi è partito, tra chi si sta dando la possibilità di vivere appieno quel posto e chi invece deve ricostruirsi altrove gettando delle basi da solo sperando che vadano bene anche all’altro.

Il ricongiungimento è compromesso, senza alternative. Lo è sempre, in realtà. Ma il permettersi di vivere, anche se solo per poco, una vita senza confronto o scontro di volontà, fa sì che quando da due si torna un’entità tutto possa diventare difficile.

Perché in quell’entità è fondamentale che ci siano, riconoscibili, tutte le parti che la compongono, con le loro caratteristiche, i loro desideri, le loro idiosincrasie, i loro gusti, i loro confini e anche i loro mutamenti.
In generale è ben più facile cedere del tutto che lottare e affermarsi, o al contrario affermarsi e lottare piuttosto che cedere del tutto. È ben più facile cambiare se stessi o chiedere all’altro di cambiare per noi, tout cour.

Ma cedere insieme, affermarsi insieme… è il nucleo di ogni rapporto sociale sano, microscopico o macroscopico che sia. Significa crescere, banalmente, ma quanto è difficile quando si cambia in modo diverso e con tempi diversi?

Cambiare l’altro è rispettarlo?
Cambiare noi stessi è rispettare l’altro?
C’è un limite superato il quale il compromesso diventa violenza? Un voler adattare la materia dell’altro alla nostra forma?
C’è un limite entro il quale è giusto adattare la propria materia alla forma dell’altro?


E allora, ragionandoci e sbattendoci il muso, scopri che la cosa peggiore che puoi chiedere all’altro è di perdersi per te, di mettersi una maschera e crearsi un personaggio che sappia recitare nel tuo teatro. Di diventare, per assecondarti, la persona che tu vuoi che lui sia e non la persona che è e in cui hai visto quel qualcosa che ti ha fatto venire in mente mondi da costruire ed esplorare insieme.

E quale che sia lo spazio compreso tra il perdere se stessi o perdere l’altro, è bene rimanere nelle acque agitate dell’umano tira-e-molla di volontà e desideri. Perché al di fuori, c’è vento di tempesta… e lo si affronta da soli.