mercoledì 30 marzo 2016

Amicizie e generazioni


Se vent’anni fa mi avessero chiesto di parlare di noi tre, avrei descritto qualcosa di simile a questo video.



La vita non ci ha mai messo in quella condizione, ma nutrivo la certezza che in caso sarebbe andata così. Che saremmo stati noi tre, che ci saremmo stati sempre, che avremmo sempre saputo come far star bene l’altro, che avremmo trovato sempre il modo, il tempo.

Noi che eravamo confidenze, sorrisi, lacrime, appunti prestati, scherzi, cose più serie.
Noi che eravamo telefonate per sfogarci, perché cercavamo aiuto, perché pensavamo che l’altro potesse averne bisogno, o solo per dirci che eravamo felici.
Non c’era niente, niente, della nostra vita che non passasse attraverso noi tre.

Abbiamo ascoltato e ci siamo fatti ascoltare. Abbiamo fatto cazzate e ne abbiamo riso. Abbiamo fatto cazzate più grandi e ne abbiamo pianto.
Abbiamo conosciuto amici, amanti, fidanzati, genitori. Ma non i figli.

Ed è stata una mancanza fatale, quella che ci ha lasciato in piedi sulla soglia e non ci ha fatto salire il gradino.

Forse siamo rimasti cristallizzati a quei tre seduti sui muretti, in fondo. Legati a quell’aspetto e a quel periodo della vita, forse abbiamo avuto paura di ammettere un cambiamento, di viverlo.
Non che non si faccia più parte della vita degli altri due. È bello sentirsi e raccontarsi, meraviglioso vedersi.
Lui è ancora quella sorta di fratello che non ho mai avuto, lei è ancora quella che apre i miei cassetti della mente, tocca e mette a posto, l’unica a cui concedo di farlo.
Ma ci manca un pezzo, un pezzo fondamentale.

Anni fa i miei figli segnarono uno spartiacque pesante e profondo: cambiarono me senza cambiare loro. Ero la prima a diventare genitore, e alla lontananza fisica si aggiunse anche quella mentale.
Avevo sempre immaginato uno scenario diverso, per noi tre. Avevo immaginato che sarebbero stati gli zii dei miei figli, una presenza “reale” e importante come lo erano stati nella mia vita… e non fu così. Per tanti motivi, senza dolo ma senza dubbio dolorosamente.

Sono ancora gli zii per i miei bimbi, perché sono io a farglieli vivere come tali, a parlargli di loro in quei termini. Spero sempre che si arrivi a ricomporre il virtuale col reale, perché alla fin fine non è colpa di nessuno, semplicemente accade che la vita ti separi un po’.

La separazione non comporta nulla in un rapporto che ha una storia: per me loro sono loro, il loro posto non è vacante né in discussione… nonostante i momenti pesanti, le recriminazioni, le delusioni che ognuno di noi potrebbe serenamente fare all’altro. Una volta avevano importanza; cresci e capisci che quello che conta, se ami qualcuno, è ciò che ti lega, non ciò che ti separa.
Per la seconda generazione del nostro rapporto la storia non è un vissuto ma un narrato, e mi assale sempre un po’ di rimpianto per qualcosa che avremmo tutti, io per prima, potuto gestire meglio.

Ci sarà tempo, ci sarà modo, lo troveremo.
Questo pensavo guardando questo video: forse quei tre ragazzi legati da un rapporto così speciale potrebbero un domani essere i nostri figli… forse no, ma è bello pensare che possa essere così.
O forse è solo il giro di boa dei quaranta che si avvicina e mi prende così. Chi lo sa.

martedì 15 marzo 2016

Grand Bassam, 13 marzo 2016.


Alcune cose che accadono ci sconvolgono più di altre, non tanto perché siamo noncuranti rispetto ad alcune, quanto piuttosto perché siamo più empatici nei confronti delle altre.
Empatia vuol dire capacità di immedesimazione, tra le altre cose.
È ovvio che più i gradi di separazione tra te e un evento, in termini di cultura, geografia, società, religione, sono alti in numero e meno sarai portato all’empatia. Potrai provare pietà, gioia o orrore, ma difficilmente potrai immedesimarti ed entrare nel cuore pulsante di una notizia, che sia bella o sia brutta.

Su quella spiaggia di Grand Bassam, fino a meno di 9 mesi fa, ci camminavo anche io. Ci passeggiavo, mi bagnavo i piedi nell’Oceano lottando con la corrente, sorridevo alle persone, compravo semi per le mie collane o parei da indossare sul costume.
In quell’Oceano mio marito faceva il bagno.
Su quelle spiagge, in quegli stessi stabilimenti, ci ho portato i miei figli quasi ogni weekend di sole.
Ce li ho portati con fiducia e con gioia, per cancellare il grigiore di una città in cui lo smog ti fa dimenticare che il cielo sa e può essere azzurro.

Se fossimo stati ancora in Costa d’Avorio, ieri saremmo stati quasi sicuramente a Grand Bassam, probabilmente proprio all’Etoile du Sud, come tante altre volte prima. Avremmo salutato il venditore di artigianato maliano, come sempre avrei finito per comprare perle e semi che già avevo ad un prezzo più alto del loro valore, fingendo di non saperlo. Saremmo stati seduti al tavolo che guarda verso l’Oceano, o forse saremmo stati in piedi a servirci per il pranzo a buffet della domenica.
E da lì avremmo visto arrivare la barca.

Quei corpi neri sulla spiaggia, fotografati nella loro disarmante crudezza, sono i corpi di persone che in qualche modo ho conosciuto, salutato, cui magari ho perfino sorriso, con cui ho fatto la fila per il pranzo o per il bagno, con cui i miei figli hanno nuotato in piscina.
Quei corpi bianchi potevano essere quelli di miei amici o di persone che hanno fatto le mie stesse identiche scelte finendo in quel luogo magari per caso, come me.
Quei corpi, tutti, indifferentemente, sono una ferita per un posto del mondo che cerca il suo riscatto e guarda ad un futuro, che sia il migliore possibile oppure no, e lo fa con fiducia.
Quei corpi, tutti, neri e bianchi, indifferentemente, sono una ferita per me, che ho amato e amo ancora di un amore contrastato e complesso un Paese che tanto mi ha dato e tanto ha voluto in cambio.

Ieri sera volevo scappare dai miei figli, per rassicurarmi di saperli al sicuro. Per rassicurami di essere al sicuro. Per cancellarmi di dosso un permeante senso di colpa per qualcosa che sarebbe potuto accadere. Per giurar loro che mai avrei pensato ci potesse essere qualcosa di così orrendo da cui doverli difendere, in quelle giornate di sole. Per farmi assolvere per qualcosa di indefinito e potenziale ma talmente enorme in peso da tenerti gli occhi aperti a tarda notte.
Non l’ho fatto, avevo paura che arrivasse loro il mio turbamento: l’empatia è una cosa importantissima, ma forse dovremmo preservarne i bambini, lasciare loro ancora la fiducia che basti la mano di mamma e papà, per essere al sicuro.

E mi fa rabbia e vergogna l’umanissimo pensiero che mi colloca felicemente lontana, e mi fa piangere e restare senza fiato quel pezzo di cuore che ho lasciato lì. Da ieri sono dolorosamente divisa tra un’assurda sensazione di fiducia tradita e un’acutissima nostalgia che mi colloca ancora su quelle strade.
Nonostante tutto, nonostante ieri, la Costa d’Avorio ci manca ancora, e credo non smetterà mai di mancarci. Ed è lì che capisci che l’unica cosa che ti salva da orrore e paura è l’amore, in tutte le sue forme.

martedì 8 marzo 2016

Lui e lei, noi...


C’erano una volta due ragazzini.
Il ragazzino aveva i capelli che crescevano dritti e un’aria pulita che sapeva di rispetto.
La ragazzina aveva qualche chilo in più e una pelle spruzzata di sole.
Passavano le mattine ad un’aula di distanza, nello stesso corridoio. Incrociandosi, sfiorando tra loro quelle loro vite acerbe e caleidoscopiche di possibilità, perdendosi nelle migliaia di occhi e sguardi che attraversavano quei corridoi.
Un giorno il ragazzino e la ragazzina si conobbero, e si piacquero. Lui si innamorò delle sue lentiggini e della sua intraprendenza, lei di quell’aria pulita e dell’odore della curva del suo collo.
Lui aspettava fuori, vicino al muretto, che uscisse anche la sua classe. Lei lo ricompensava di sorrisi.
Lui rubava, per lei, rami di mimosa dal cortile del giardino vicino, lei si riempiva occhi e naso di colori e odori, col cuore che prendeva un ritmo sconosciuto e diverso.
Negli anni quei ragazzini si sono visti attraversare mari in tempesta, perdendosi e ritrovandosi nelle mani intrecciate e negli abbracci silenziosi.
Sono diventati meno piccoli, meno sicuri, hanno piegato i loro futuri in condizionali, accettando la grande sfida del crescere.
Lui ha smesso di scavalcare muri per rubare fiori, lei ha smesso di permettersi l’intraprendenza.
Lui non ha mai smesso di amare le sue lentiggini e i suoi chili di troppo, lei non ha mai smesso di sentirsi al sicuro appoggiata nella curva perfetta tra il suo collo e la sua spalla.
Oggi quel ragazzino e quella ragazzina non ci sono più. Sono adulti, ormai. Sono un uomo e una donna.  Alle loro mani intrecciate se ne sono aggiunte di più piccole, il loro percorso oggi scorre in ritmi dettati da musiche che non osavano neanche immaginare, su quei muretti pieni di sole.
Ma quando le mimose sono in fiore, il cuore di lei batte ancora a quel ritmo oggi meno sconosciuto ma ancora diverso.
Forse questo li ha salvati: sono ancora due ragazzini, in vestiti troppo grandi per loro.

mercoledì 2 marzo 2016

Voti, impegno ed etichette


Poco tempo fa abbiamo avuto le nostre prime pagelle italiane. Le prime con dei voti a quantificare, invece che a esprimere un livello di apprendimento. Quantificare invece che qualificare, forse questo è il più grande limite delle aspirazioni della scuola italiana. Che sì, ok, ci sono i giudizi ma come è difficile non guardare il voto.

Voti secchi, senza sfumature che rendano merito a impegno e difficoltà. Lapidi sulle mille possibilità di un bambino, come di un ragazzo o di un uomo.
Verifiche oggettive e, quando saranno più grandi (per ora no: graziemaestregrazie) medie da calcolare, una freddezza disarmante a combattere con il calore dell’entusiasmo della conoscenza.

Perché il voto che negli anni ti verrà assegnato dipenderà magari dalla partita del giorno prima come anche da una scopata mancata: dietro a quel banco o davanti a quella cattedra non ci sarai solo tu ma anche quella palla entrata o meno, metaforicamente o realmente, in rete. E non potrai farci nulla.
E quel voto ti si stampiglierà addosso, volente o nolente.

Ci vuole tanta maturità nel non lasciarsi determinare da un voto, che è sempre una cosa relativa, data con un criterio assolutamente personale e legato al momento. Ci vuole di sapere chi si è, per non farti dire chi sei.

Per ora i miei figli non si curano dei voti se non nella misura in cui noi adulti ce ne mostriamo contenti o meno. Per loro la scuola è divertimento e scoperta e tale vorrei che rimanesse il più a lungo possibile.
Non nutriamo, nella Tana, nessuna aspirazione ad avere figli migliori degli altri. Preferiamo che non pensino di doverci dimostrare nulla, preferiamo che si impegnino senza che lo studio diventi un fine quanto piuttosto un mezzo attraverso cui vedere la vita con occhi diversi. Non vogliamo figli perfetti con voti perfetti in tutte le materie, ci godiamo i nostri figli imperfetti con interessi e predisposizioni assolutamente definiti ed identificabili.

Da ex bambina iper-performante, diventata poi donna stakanovista e perfezionista, l’unica cosa che mi sento di volere per i Patati è che la scuola non diventi mai un “devo” o un “lavoro” e rimanga il più a lungo possibile un “voglio” e un “gioco” da trattare con rispetto e impegno… speriamo che la scuola italiana non ci deluda, noi ce la metteremo tutta!