venerdì 21 aprile 2017

Dieci anni





Dieci anni.
Due cifre.

Del giorno in cui ho compiuto dieci anni non ricordo nulla, ma ho ben presente mio padre che mi diceva, contento ed emozionato, “sei passata alle due cifre”.
Perché quello è, un passaggio.

In questi primi dieci anni anni di vita, in queste due cifre, c’è tutto quello che ti ha portato da un frugoletto minuscolo a un ragazzino indipendente: hai imparato ad esprimerti, a camminare, a ragionare e a collegare i pensieri, a convivere con le tue emozioni; hai scoperto la diversità e ne hai fatto tesoro, hai scoperto di avere un corpo e come funziona, ti sei confrontato con interessi, predisposizioni, difficoltà.
Hai visto nascere e hai visto morire. Ti sei innamorato per la prima volta. Hai capito la stima e il disprezzo.
Hai imparato a fare la spesa da solo, a calcolare il resto, ad attraversare la strada, a portare il cane a spasso, ad andare dal barbiere.
Hai accolto con gioia l’autonomia che ti viene concessa accettandone la responsabilità; hai rispettato regole che ti sembrano sensate e hai imparato a contestare ciò che non ti sembra giusto.
Hai imparato a chiedere scusa.
Hai imparato ad andare in bicicletta, testando il tuo equilibrio; a nuotare, riconoscendo un elemento che ti appartiene; ad usare strumenti elettronici, ragionando su ciò che comportano le tue azioni.
Hai imparato a leggere e scrivere, in quasi tre lingue diverse; a contare, a costruire cose che abbiano uno scopo.
Hai imparato a raccontare ciò che sai, a seguire le tue curiosità, a chiedere per avere risposte oneste e puntuali.
Hai imparato a vestirti scegliendo cosa indossare per le diverse occasioni, a farti la doccia ed asciugarti i capelli da solo. A sbucciarti la mela, a tagliare la carne, a prepararti il tè, a fare il caffè a chi te lo chiede. Ad accenderti la stufa se hai freddo e il condizionatore se hai caldo.

Ci hai regalato 10 anni di meraviglia, paure, consapevolezze, sorrisi e pochi pianti. Uno spettacolo unico che stupendamente varia e si modella ogni giorno. Ci hai insegnato la responsabilità, la conseguenza delle scelte, la paura di sbagliare non sulla propria pelle. Ci hai regalato un passaggio importante, uno senza cifre.

Tutto in queste meravigliose due cifre, Piergiorgio.
In questi primi dieci anni hai nutrito il tuo seme e permesso si nutrisse il terreno da cui diventerai un albero. Il tuo albero, non quello che gli altri si aspettano tu possa diventare.

Nessun altro periodo della tua vita ti vedrà sviluppare così tante capacità e scoprire nuove cose. Ti aspetta meno da imparare e più da esplorare, perfezionare, comprendere.
E noi saremo lì, a fare come sempre il tifo per te.

giovedì 20 aprile 2017

Ricomincia da qui...


Dai una spinta a te stessa e poi ondeggi fino a trovare un equilibrio.
Un po’ di qua, un po’ di là senza una destinazione stabile, in un moto alternato che non segue la tua volontà: una volta voli, una volta scendi.
Quello che lei voleva era la dinamica, quando aveva iniziato il percorso, quello che non aveva previsto era l’alternanza tra buio e luce e tra sorrisi e lacrime.
Si dice sempre che si va dove si vuole andare, ma ci vuole forza. Fisica e di volontà.
Per sapere dove si sta andando in fondo c’è bisogno di una destinazione, altrimenti è semplicemente destino e farsi trasportare tra giorni che diventano mesi, o anni.

Lei si guarda intorno e si chiede cosa ci faccia lì e chi è quella persona che la guarda dallo specchio.
Intorno uno sfondo di gente chiassosa e indaffarata, che sembra aver chiaro ciò che a lei è troppo che sfugge: uno scopo.

Un passo dopo l’altro, tra gradini affollati e parole che le sfuggono, esce dal metrò e cerca una strada qualsiasi in cui riversare i suoi pensieri in silenzio.
Pensa a Lui, perso ormai troppe stazioni fa. Pensa a Lei e ai loro sorrisi freschi e ancora acerbi. Le mancano, entrambi. Pensa a se stessa e un vuoto cupo le nasce dentro. Si manca anche lei.

Perché è andata via? La assale la paura, quella che ha provato quando ha visto una certezza nello sguardo di Lui; la assale l’angoscia di aver fatto una cazzata. Se potesse scegliere un regalo dall’universo, chiederebbe di uscire da questo tunnel di paura e rimpianti o quantomeno di trovare quello tra i due che le pesa di più nel cuore, e capire. Invece è avviluppata tra ciò che la spaventa e ciò che le manca.

Si è osservata, prima. Non lo fa mai, ma è stata colta a tradimento da uno specchio che non si aspettava… cosa ci fa uno specchio in una fermata della metro in periferia?
Oggettivamente è ancora bella, forse qualche etto in meno ma i vestiti le calano addosso ancora bene e senza ombre brutte. Lui glielo diceva sempre: il tuo corpo è un’alternanza perfetta di chiaroscuri, non permettere mai che arrivino le ombre.
Le scappa un sorriso, a ripensare a quando quel corpo era una mappa geografica di scoperte e si completava con un altro. E forse è quel sorriso, che colora improvvisamente la stradina deserta.
Esce ogni giorno, lavora, gestisce una quotidianità indaffarata, ma è troppo tempo che non si lascia inzuppare un po’ di colori e stagioni. Li vede, li avverte, ma non li vive da un po’.
Chi vuole punire? Lui per aver cercato di fermarla e poi averle permesso di andar via? Lei per averle promesso un tempo infinito e averle dato solo giorni? Se stessa?

Alla fine capirai che per quanto tu possa far pagare agli altri le tue insicurezze, la punizione peggiore la riserverai a te stessa.
Le parole di sua madre le rimbombano della mente e come in un flipper toccano posti che si illuminano di sentimenti, emozioni, paure, rimorsi e rimpianti. Le manca, ma non è capace di dirglielo. Le manca, ed è una mancanza che la attraversa tutta e la lascia vuota di assenza e piena d’amore.
È quella sensazione o il sole, a scaldarla? Sente la pelle come qualcosa di più vivo, pulsante, fremente.

Persa tra i pensieri, non ha la minima idea di dove sia, né di come ci sia arrivata. Ha seguito tanti percorsi nella sua mente da aver perso il senso di quelli dei piedi.
Si è presa un giorno di pausa, e come fa tutte le volte che non lavora, è venuta ad esplorare la periferia della città. Non le interessa il centro, fatto di scintillii e cose scontate, preferisce zone dove la vita è imperfetta, sudata, viva, vera. Come la sua, che però come un po’ in tutti gli aspetti, si colloca in limbo intermedio, quello di chi ha paura di prendere posizione e definirsi.

Scoprire dove si trova sarebbe un attimo, ma lei non vuole certezze. Prima o poi troverà un riferimento, ma adesso a cosa le serve sapere?
“Mi dai il tuo telefono un attimo?” è una voce che le pare di riconoscere, e si volta.
Ed è Lui, potrebbe essere Lui, le sembra dannatamente Lui.
La mente si affolla talmente tanto di parole di non riuscire a farne uscire neanche una ma allunga la mano, dà il telefono ad una mano sconosciuta eppure forse no.
“Mettiti lì, appoggiati al muro, lasciati andare, sorridi”
Non sa perché, ma lo fa. Non le viene da sorridere, poi ripensa a quanto surreale sembri tutto questo, a quanto si senta pazza, a quanto forse lo sia stata a dare il suo telefono a qualcuno che probabilmente tra due secondi scapperà via… e ride. Ride di cuore, di se stessa, della sua follia, dell’aver scambiato quello sconosciuto per Lui.

È un attimo, e il telefono è di nuovo nella sua mano.
Lo sconosciuto la guarda, sorride. “Quando vuoi ricominciare, ricomincia sempre da qui”.
Poi va via, lasciandola orfana di un’illusione a fissare il suo telefono come se scottasse, come se non fosse più solo il suo. Cosa ha fatto quel ragazzo col suo cellulare? Non lo sa, stava ridendo, pensando, sorridendo.

Si siede su una panchina lì davanti, guarda l’elenco delle telefonate, delle mail, i messaggi, le chat… Nulla che dica che qualcuno è stato lì. Poi apre le foto, per abitudine, distratta, indolente, annoiata.
Ed è lì che si vede con gli occhi di Lui, come nessun altro l’ha vista mai.
Si gira, vede il muro, ride.
Ricomincia sempre da qui”. Capisce, piange.

progetto fotografia e scrittura delle Instamamme (photo credit Francesca Guerrini)


Era davvero Lui? Era qualcuno le ha visto dentro come fosse trasparente.
Si stringe al dubbio come a qualcosa di prezioso e caldo e si incammina, su un cammino decisamente nuovo.



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martedì 11 aprile 2017

Di voci, confronti e crescita




È la voce, quella che prima sparisce.
Ricordi le parole, i gesti, le espressioni, il viso, il modo di camminare, i gusti, il carattere… ma la voce ti lascia sempre più orfano.

È una cosa che atterrisce, che ti svuota. È l’esatta misura di quanto si perda la persona e non ciò che ci ha lasciato; è la consapevolezza che sei pieno di quella persona ma che non potrai mai più avere uno scambio con lei, che la quota parte della tua crescita che devi a lei si è fermata.

È qualcosa che ti colpisce alle spalle, inaspettatamente, quando stai facendo cose banali e le tue sinapsi ti portano un ricordo qualunque, cretino, banale… e vorresti solo avere un giorno, un’ora, anche un solo minuto di quella voce, di quella possibilità.

Sei ciò che sei anche in virtù di ciò che ti hanno dato, delle persone che ti hanno formato, che hai incontrato, che hai lasciato entrare. Il regalo che la vita ci fa è di rendere tutto questo duraturo a prescindere da tutto: lontananza, scazzi, la stessa morte. La cosa più pesante della morte di una persona è che non sia più possibile l’evoluzione, il confronto diretto.

Mio padre mi manca come mi mancherebbe un organo interno non vitale: vivi lo stesso, ma non è la stessa cosa. Sono ancora nella fase in cui si cerca un nuovo equilibrio, mi sorprendo ancora a pensare di raccontargli ciò che mi accade per avere consigli e conforto e mi accorgo che le risposte devo cercarmele in ciò che di lui mi ha dato negli anni, ma mi manca la voce e piango come una bambina in momenti intempestivi e improvvisi.

Non ho pianto mio padre, non abbastanza. Troppo dolore, troppe incombenze, troppa la maledetta razionalità che mi ha insegnato, o che ho ereditato da lui.
Non posso permettermi di rischiare di schiantarmi in mille pezzi, perché c’è chi conta su di me e merita di avermi intera.
Se c’è una cosa che mio padre mi ha insegnato, con i consigli e soprattutto con l’esempio, è che la vita va avanti, non aspetta che tu ti riprenda, che devi mantenere lucidità e ritrovare in fretta un equilibrio anche se i piatti della tua bilancia sono stati scossi violentemente. Perché non si vive mai solo per se stessi e non si ha modo e agio di perdersi se si è importanti per qualcuno.

Ogni tanto trabocco, sono umana, certo. Non la prendo come una sconfitta ma piuttosto come un fatto naturale, e vado avanti. Ogni tanto riesco anche ad essere felice senza sensi di colpa.

Non ho avuto una vita facile, di ciò che sono non mi è stato regalato nulla e ne sono orgogliosa e forse è anche questo che mi aiuta: so che ho superato tante cose difficili, alcune molto brutte. So che se oggi sono qui è anche in virtù di quello che è stato, nel bene e anche nel male.

La vita in fondo non è che la continua evoluzione di se stessi rispetto a fatti contingenti, imprevisti, occasioni, scelte.
Una volta ero proiettata sul futuro, e perdevo di vista il presente.
Una volta ero cristallizzata nel passato, e non pensavo di meritarmi un presente.
Oggi so che la vita è oggi, adesso, questo istante. Posso programmare, ma c’è sempre il margine di ciò che accade intorno. Ho imparato ad accettarlo, forse è stato l’ultimo regalo di mio padre.
Ma la voce, dio, la voce è ancora una ferita aperta.