Dopo la
cassoulet, ero pronta a tutto. Scorta di
alza-serzer, eventuale doppio turno in piscina e tisane depurative sulla
mensola della cucina. Non sia mai a farsi sorprendere impreparate nella
gestione di un ammutinamento epatico.
Dopo la cucina francese (anche se dalle calorie poteva
essere anche svedese o quebequoise), è stata la volta della cucina libanese.
Dire che la fra adori la cucina libanese è riduttivo,
credetemi sulla parola.
Il padre del Marito Paziente è nato a Beirut e ci è vissuto fino ai 16 anni, quindi diciamo
che questo tipo di cucina è piuttosto conosciuto dans la famille.
Mentre Marito Paziente ha un background culturale che include in qualche modo
il medio oriente, la fra si è aperta a questi nuovi orizzonti piuttosto tardi,
in un ristorante libanese a Bruxelles (in Italia ancora non ce n’erano,
all’epoca), nel lontano 1998, ed è stato subito amore.
Quando alla fra è stato proposto di partecipare all’atelier
di cucina libanese, quindi, non ci ha pensato neanche mezza volta. Ha preso il
taxi (la macchina la aveva il Marito Paziente) ed è andata.
La padrona di casa era una ragazza giovane (secondo me non
arriva ai 30), moderna nel vestire (probabilmente è cristiana, ma non ho
approfondito) e con un sorriso incredibile. Ci ha accolte con calore e ci ha
subito portate vicino ad una specie di altare, con un enorme specchio sagomato
a forma di mano di fatima sopra,
ovviamente bordato di blu.
Il gusto libanese, per chi non lo conoscesse, è, per i
canoni occidentali, raccapricciante: eccessivo, kitsch, pieno di tessuto,
tappeti, marmi. L’ostentazione, in Libano, è la regola, pare.
Però è il loro modo di vivere e di vedere gli spazi e soprattutto è coerente
con quello che sono, con come vedono la vita e come la vivono. Nella loro casa,
una cosa del genere non provoca orrore, in una delle nostre minimo minimo lo
spirito di Le Corbusier viene a
cazziarti la notte, armato di frusta e matita 6h da impuntarti nella schiena.
Quel baldacchino era pieno di roba, ma pieno eh.
Erano i regali che si usa fare ad amici e conoscenti in occasione della nascita
di un figlio. Madame Sorriso aveva
avuto il secondo figlio da 3 mesi e ci ha invitato a scegliere un regalo da
portarci via. La fra ha scelto il modello base (una scatola di cioccolato al
latte libanese da restarci secchi da quanto era buono con sopra una spilla con
le perline), ma alcune amiche francesi si sono accaparrate (con una discreta
faccia da culo, secondo me) peluche o candele. Mah.
A quel punto Madame
Sorriso ha aperto le danze offrendoci una bibita fresca e dotandoci, errore, di frutta secca.
Una cosa che potevamo serenamente pranzare con quello. I libanesi mangiano
tantissimi semi di zucca, noccioline, anacardi, pistacchi… potete immaginare la
forza di volontà che ci è voluta alla fra per non sdraiarsi sul tavolo e dire
“venitemi a riprendere dopo”. Ecco.
La padrona di casa aveva coinvolto nell’iniziativa anche una
sua amica, che è arrivata con un trolley di roba dipinta su vetro e bigiotteria
libanese (da lì la fra ha preso nota: prossima
volta, pure io), quindi c’è stato il momento “mostro, spiego, vendo”. Una cosa molto carina che la fra ha
successivamente riproposto in altre occasioni (eh eh eh).
A differenza dell’altra volta, non si sarebbe realizzato un
solo piatto ma degli antipasti, dei secondi e un dolce.
L’avventura dolce
è iniziata male: Madame Sorriso ha
cannato completamente le proporzioni degli ingredienti fondamentali e
l’impasto, che doveva essere morbido, è venuto bello denso (lo ha rifatto dopo,
mortificatissima).
Una cosa che ha lasciato basita la fra, inizialmente, è stato l’uso del latte
in polvere per bambini per fare il dolce. Ovviamente, vista la sua attitudine a
fare figure di merda, si è tenuta la cosa per sé. Poi la fra ha un attimo
riflettuto sulla non opportunità di usare latte fresco in posti con temperature
imbarazzanti come il Libano (in estate) e la Costa d’Avorio (sempre). Le
permane in dubbio sul latte UHT, ma visto che il dolce era buono, nel caso
volesse rifarlo userà il latte in polvere e amen. O insciallah.
Quando ci ha fatto Il
moutabbal
la fra si è quasi commossa. Intanto ha appreso che
esiste una differenza tra il
moutabbal aubergine e il
babaganoush: nel primo, a quanto ha
capito, non c’è lo yogurt, nel secondo sì. Poi ha potuto apprezzare la
differenza del passare le melanzane al passaverdura piuttosto che nel mixer. Un
abisso. Da oggi solo passaverdure, nella Tana, per questa preparazione. I ceci
per l’
hommos, invece,
Madame Sorriso li ha ridotti in
poltiglia con il minipimer, e anche lì la fra ha preso appunti ;-).
Uno dei piatti che ci ha proposto e insegnato a preparare,
il
frakeh, è a base di carne cruda.
Ora,
Madame Sorriso, io lo so che voi
la mangiate abitualmente, che vi servite da macellai di fiducia e blah blah
blah… ma stai proponendo carne cruda a delle francesi, non puoi aspettarti che
saltellino dalla gioia, no?
La fra dentro di sé aveva un piccolo Marito Paziente, un po’
come il topo Remì, che inorridiva e diceva “carne
cruda?!? Qui?!? Non penserai di mangiarla, vero?!? Ma sei pazza?!?” con,
diciamo, un lieve aumento di decibel
ad ogni domanda.
Ora, la fra, è ben noto a chiunque la conosca, ama la carne cruda in maniera
esagerata. Ma del tipo che è capace di mangiarsi il macinato crudo senza fare
una piega; la sua carne deve essere scottata fuori e fredda dentro, per dire.
Adora anche il petto di pollo, crudo. Qui, ovviamente, in genere la fra evita
di mangiare carne e se la mangia deve piegarsi ad una cottura “rosata”, che per
lei significa stracotta. Un incubo.
Sentirsi legittimati e in dovere di mangiare (o quantomeno
assaggiare) della carne cruda (sai la padrona di casa ci sarebbe rimasta
malissimo, ho dovuto farlo) è stato
un momento grandioso, sappiatelo. Che poi la carne era speziatissima e
veramente veramente deliziosa. L’abbiamo mangiata praticamente solo io e la quebequoise: credo che in quell’istante
la padrona di casa si sia finalmente resa conto dell’epic fail guadagnato, per giunta in casa.
La cosa più carina di tutta la giornata è stato il momento
espatriate anonime: intorno al tavolo
ognuna di noi si è presentata alle altre, ha parlato un po’ di sé, del posto da
cui viene, di cosa fa nella vita, del perché è qui, di quando è arrivata e
quando ripartirà.
È così che la fra ha appreso che nel gruppo, oltre alle
francesi, ci sono una libanese, una senegalese, una chilena, una quebequoise,
una marocchina e ora, grazie alla fra, anche un’italiana.
Questo modo di conoscersi attraverso le tradizioni, la
cucina, il modo di ospitare, la condivisione, è veramente bellissimo. Capire
cosa c’è dietro ad un piatto in termini di scelte sulla preparazione, impostazioni
familiari, consuetudini culturalmente radicate, dà a quel piatto un sapore
diverso.
Modi diversi di fare gruppo, donne diverse, molto diverse,
con la voglia di condividersi e lasciare qualcosa di sé e della propria
cultura.
Modi diversi di crescere. Inaspettati. Non convenzionali.
Ultimamente qui mi sembra tutto un dono.
Lo scarto con timore e assoluta gratitudine.
Il prossimo appuntamento avrà come tema la cucina italiana,
devo aggiungere altro?