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sabato 21 maggio 2016

Milano, che mi fa bene e mi fa male


Milano mi piace: mi è piaciuta in estate, deserta e con un cielo da cartolina, mi è piaciuta in un freddo capodanno con un’aria noncurante e sospesa, mi è piaciuta in questo maggio che sembra marzo, in metropolitane affollate e strade piene di turisti e persone indaffarate nei loro perché.




Questa volta, Milano è stata il mio primo MammacheBlog: un evento cui volevo assolutamente partecipare, dopo anni in differita. Un evento che mi ha fatto fare il pieno di sorrisi, di abbracci, di stimoli, di amicizia, di tante persone finalmente conosciute al di là di quello schermo che un po’ ci unisce tutte. Un evento in cui finalmente puoi toccare con mano l’impatto di ciò che hai costruito, dell’amore e dell’impegno che ci hai messo. Pare poco.



Questa volta Milano è stata una chiacchierata ad un tavolino di un bar, importante e preziosa. È stata l’abbracciare finalmente una persona con cui dividi scazzi, gioie, preoccupazioni, qualunque cosa da quattro anni, senza averla mai vista dal vivo. È stata un gruppo che ha la sua forza nella stima, nel conoscere punti forti e deboli l’una dell’altra, nel concederseli, nel perdonarseli, nello stimolarsi a mettersi in gioco, giorno dopo giorno.


Questa volta, Milano, è stata una strana quotidianità condivisa con una persona cui voglio molto bene. Sono stati momenti rubati agli impegni di ognuna, bei momenti, parole, racconti, confronto. Quelle cose che seppur brevi hanno un peso specifico enorme, nell’economia dell’esistenza.

Questa volta Milano è stata una strana autonomia cui non ero abituata: 5 giorni per me, per il mio lavoro (che mi concedo di non mettere tra virgolette, perché alla fine tale è devo essere la prima a riconoscerlo, per dargli la dignità che merita), lontana dai tre uomini più importanti della mia vita. Era già capitato, ma solo per problemi di salute. È stata una solitudine pesante e strana, fatta di sigarette per riempire un vuoto, fatta di negozi da vedere con tranquillità, fatta di voglia di condividere e mani libere da manine piccole e sudate. Forse ci si può fare l’abitudine, ma è presto.


Questa volta, Milano, è stata un’assoluta e limpida nostalgia di qualcosa che vorrei e che non avrò mai, a meno di ribaltare di nuovo tutto quanto. È stata una Milano dove tocchi le occasioni, dove il tuo lavoro avrebbe un senso decisamente diverso, dove scopri che un posto può essere un concime per ciò che stai piantando, semplicemente. Ho amato ogni viaggio in metro che mi ha portato a svolgere un lavoro, in quei giorni piovosi e un po’ pigiati di mille cose. Ho rimpianto ogni viaggio che non farò. Una scrivania in un posto bellissimo per lavorare confrontandosi con realtà diverse dalla tua ma recettive, costruttive, abituate allo scambio.

Ecco, Milano è stato tutto questo, con un piatto della bilancia che si alzava e si abbassava a seconda del contesto, della compagnia o della solitudine, del reale o del virtuale.

Milano mi ha lasciato piena di sorrisi e concretezza, di puntini di sospensione e congiuntivi. E forse, anche, un po’ vuota perché essere soddisfatti e felici è ben poca cosa se non puoi esserlo guardando in faccia chi ami.

mercoledì 21 ottobre 2015

Compleanni di passaggio



Domenica ho festeggiato un compleanno in bilico, l’ultimo con il 3 davanti.

Un età che finalmente mi assomiglia, o finalmente sono io che assomiglio di più alla mia età.
Non più imprigionata in disagi troppo grossi per trovare interlocutori, più cosciente di me, ho fatto pace con i miei limiti.
Non più incastrata nei se e più viva e libera nei sei.

È un anno, quello che mi aspetta, pieno di un mondo da riscoprire e di decisioni da prendere.
Capire un po’ come incastrarmi in questa realtà che vedo con occhi parecchio diversi, vuoi per crescita e vuoi per storia, che poi sfumano l’una nell’altra.
Capire come indirizzare le energie.
Capire se tutti i desideri vadano realizzati per forza, o se alcuni vanno messi via senza rimpianti perché non è più il tempo.

Trovare un assetto stabile che dia serenità e permetta una quotidianità che realizzi tutti, con gli immancabili compromessi con cui ognuno di noi deve confrontarsi. Accettarli, viverli come conseguenze di scelte.
Capire se questa casa ospiterà ancora un lettino e scoprirà una nuova dinamicità familiare fatta di passi stabili e passetti incerti, oppure se ci si concentrerà solo sulle giovani piantine in pieno boccio che abbiamo seminato anni fa.

Un’età per stabilire come vivere la prossima parte della vita, per lanciare ami, per decidere di correre o camminare, imparando a non sentirsi in colpa per la scelta.
Un’età senza aspettative, né proprie né altrui. Un’età per far pace con quello che si è, senza pensare a ciò che si sarebbe potuto essere o a quello che gli altri avrebbero voluto fossi
.

Un’età di transito tra quella del costruire e quella del mantenere, o, perché no?, del costruire su basi diverse.
Un’età insieme dinamica e riflessiva, analitica e cazzona.
E davanti allo specchio vedere cosa sei, senza maschere tue o di altri.

Trentanove anni per arrivare a questa consapevolezza e a questa profonda serenità di sapere finalmente chi sei.
Trentanove anni per definire i margini di te stessa tra la tua volontà e le aspettative altrui
.

A metà della montagna, posso dire che amo nello stesso modo il panorama, il punto da cui lo guardo e il sentiero che mi porterà alla vetta.
Come diceva Edgar Lee Masters, in una delle epigrafi di Spoon River, il genio è saggezza e gioventù: la consapevolezza di sé e del mondo e la voglia di interrogarsi ancora e non fermarsi mai…


Questo post partecipa all'iniziativa "Instamamme vuole anche te", se volete saperne di più cliccate qui

giovedì 15 maggio 2014

Mercatini e panorami





Mettete che voi realizzate creazioni artigianali da più di dieci anni.
Mettete che, in mancanza di altre occasioni, sia stato e sia ancora l’unico modo per esprimere la vostra creatività.
Mettete che vi piaccia e vi faccia guadagnare qualche soldo, che voglio dire proprio schifo non fa.

Ora mettete che ci sia un mercatino ad Abidjan in occasione della festa della mamma (che qui è il 25 ma che è stato fatto secondo il calendario europeo, evidentemente).
Mettete che vi eravate informate, che una signora vi avesse detto “pas de problem (e già lì avreste dovuto iniziare a preoccuparvi), lo facciamo insieme”.

Mettete che vi ha tirato un bidone colossale e che abbiate scoperto, dopo aver realizzato un sacco di bigiotteria, che il posto per voi non c’era.
Mettete che ve la siete messa via, avete archiviato il tutto e avete detto, alla prochaine, serenamente.

Mettete che ricevete una chiamata alle 20 di venerdì sera che vi dice che sabato mattina alle 8, se volete, dovete essere lì a montare perché hanno trovato un posto per voi.
Mettete che ovviamente dite “mais oui, je serai là
Mettete che avete passato la seconda serata, la prima eravate fuori a cena: la chiamata è arrivata che stavate montando in macchina, a fare cartellini dei prezzi, etichette e biglietti da visita.

Ora mettete che avete avuto l’ansia da prestazione mercatara più grande della vostra vita.
Ché se già portare la propria creatività in piazza vi dà sempre quel senso di esame “positivo”, portarla in un posto che non è casa, dove non si parla la vostra lingua e dove i gusti e le abitudini sono diverse è l’equivalente della discussione della tesi (almeno qui non c’era il megaprofarchgrandearchitettodeimieicoglioni a giudicare in tre minuti netti un percorso di 5 anni di fatica, però).

Mettete che avete superato un altro gradino, che siete in più alto di venerdì scorso, che magari davanti c’è ancora una salita e potrebbe essere pure ripida, ma che qui, oggi, ora, c’è una piazzola di sosta da cui guardare da dove avete iniziato il cammino, due anni e mezzo fa.

Qui, oggi, ora, è un bellissimo panorama.

lunedì 21 aprile 2014

Compleaani e comunità



Festeggiare un compleanno patato in Africa è sempre una cosa particolare.

Da una parte c’è la nostalgia assoluta di tutto quello che è casa, di candeline spente con nonni e amici, di regali sicuramente graditi perché espressione di un gusto e non di quello che trovi, di atmosfere particolari e affetto.

Dall’altra hai vicino persone che sanno perfettamente cosa voglia dire stare lontani dal proprio luogo d’origine e che quindi ti avvolgono in un caldo abbraccio di affetto; persone che ridono, scherzano, giocano coi tuoi figli improvvisandosi un po’ nonni e un po’ amici, che cercano qualcosa di bello e adatto da regalare a tuo figlio, che conoscono sia te che i tuoi figli come fossimo stati vicini per anni.

È in occasioni come queste che ti accorgi di quanto sia vero che il tempo all’estero, nei rapporti, vale almeno doppio. C’è la fame di conoscersi per crearsi un nido, c’è il bisogno di avere dei punti fermi, c’è la comprensione dei momenti brutti, c’è la consapevolezza delle difficoltà.

C’è il capire cosa significhi per un bambino di sette anni il festeggiare senza i nonni, o gli amichetti storici. C’è il vivere gli eventi come un qualcosa che ci riguarda, come se fossimo una sorta di strana e stramba famiglia di gente che non si è scelta, che è capitata per caso, che vive o ha vissuto le stesse cose che vivi o hai vissuto tu, o che le vivrà.

E quella che ti sembrava un’occasione difficile da gestire diventa un bellissimo momento di condivisione.

lunedì 14 aprile 2014

Il club internazionale di cucina del lunedì. La cucina libanese.



Dopo la cassoulet, ero pronta a tutto. Scorta di alza-serzer, eventuale doppio turno in piscina e tisane depurative sulla mensola della cucina. Non sia mai a farsi sorprendere impreparate nella gestione di un ammutinamento epatico.

Dopo la cucina francese (anche se dalle calorie poteva essere anche svedese o quebequoise), è stata la volta della cucina libanese.

Dire che la fra adori la cucina libanese è riduttivo, credetemi sulla parola.
Il padre del Marito Paziente è nato a Beirut  e ci è vissuto fino ai 16 anni, quindi diciamo che questo tipo di cucina è piuttosto conosciuto dans la famille.
Mentre Marito Paziente ha un background culturale che include in qualche modo il medio oriente, la fra si è aperta a questi nuovi orizzonti piuttosto tardi, in un ristorante libanese a Bruxelles (in Italia ancora non ce n’erano, all’epoca), nel lontano 1998, ed è stato subito amore.

Quando alla fra è stato proposto di partecipare all’atelier di cucina libanese, quindi, non ci ha pensato neanche mezza volta. Ha preso il taxi (la macchina la aveva il Marito Paziente) ed è andata.

La padrona di casa era una ragazza giovane (secondo me non arriva ai 30), moderna nel vestire (probabilmente è cristiana, ma non ho approfondito) e con un sorriso incredibile. Ci ha accolte con calore e ci ha subito portate vicino ad una specie di altare, con un enorme specchio sagomato a forma di mano di fatima sopra, ovviamente bordato di blu.

Il gusto libanese, per chi non lo conoscesse, è, per i canoni occidentali, raccapricciante: eccessivo, kitsch, pieno di tessuto, tappeti, marmi. L’ostentazione, in Libano, è la regola, pare.
Però è il loro modo di vivere e di vedere gli spazi e soprattutto è coerente con quello che sono, con come vedono la vita e come la vivono. Nella loro casa, una cosa del genere non provoca orrore, in una delle nostre minimo minimo lo spirito di Le Corbusier viene a cazziarti la notte, armato di frusta e matita 6h da impuntarti nella schiena.

Quel baldacchino era pieno di roba, ma pieno eh.
Erano i regali che si usa fare ad amici e conoscenti in occasione della nascita di un figlio. Madame Sorriso aveva avuto il secondo figlio da 3 mesi e ci ha invitato a scegliere un regalo da portarci via. La fra ha scelto il modello base (una scatola di cioccolato al latte libanese da restarci secchi da quanto era buono con sopra una spilla con le perline), ma alcune amiche francesi si sono accaparrate (con una discreta faccia da culo, secondo me) peluche o candele. Mah.

A quel punto Madame Sorriso ha aperto le danze offrendoci una bibita fresca e dotandoci, errore, di frutta secca.
Una cosa che potevamo serenamente pranzare con quello. I libanesi mangiano tantissimi semi di zucca, noccioline, anacardi, pistacchi… potete immaginare la forza di volontà che ci è voluta alla fra per non sdraiarsi sul tavolo e dire “venitemi a riprendere dopo”. Ecco.

La padrona di casa aveva coinvolto nell’iniziativa anche una sua amica, che è arrivata con un trolley di roba dipinta su vetro e bigiotteria libanese (da lì la fra ha preso nota: prossima volta, pure io), quindi c’è stato il momento “mostro, spiego, vendo”. Una cosa molto carina che la fra ha successivamente riproposto in altre occasioni (eh eh eh).

A differenza dell’altra volta, non si sarebbe realizzato un solo piatto ma degli antipasti, dei secondi e un dolce.

L’avventura dolce è iniziata male: Madame Sorriso ha cannato completamente le proporzioni degli ingredienti fondamentali e l’impasto, che doveva essere morbido, è venuto bello denso (lo ha rifatto dopo, mortificatissima).

Una cosa che ha lasciato basita la fra, inizialmente, è stato l’uso del latte in polvere per bambini per fare il dolce. Ovviamente, vista la sua attitudine a fare figure di merda, si è tenuta la cosa per sé. Poi la fra ha un attimo riflettuto sulla non opportunità di usare latte fresco in posti con temperature imbarazzanti come il Libano (in estate) e la Costa d’Avorio (sempre). Le permane in dubbio sul latte UHT, ma visto che il dolce era buono, nel caso volesse rifarlo userà il latte in polvere e amen. O insciallah.

Quando ci ha fatto Il moutabbal la fra si è quasi commossa. Intanto ha appreso che  esiste una differenza tra il moutabbal aubergine e il babaganoush: nel primo, a quanto ha capito, non c’è lo yogurt, nel secondo sì. Poi ha potuto apprezzare la differenza del passare le melanzane al passaverdura piuttosto che nel mixer. Un abisso. Da oggi solo passaverdure, nella Tana, per questa preparazione. I ceci per l’hommos, invece, Madame Sorriso li ha ridotti in poltiglia con il minipimer, e anche lì la fra ha preso appunti ;-).

Uno dei piatti che ci ha proposto e insegnato a preparare, il frakeh, è a base di carne cruda.
Ora, Madame Sorriso, io lo so che voi la mangiate abitualmente, che vi servite da macellai di fiducia e blah blah blah… ma stai proponendo carne cruda a delle francesi, non puoi aspettarti che saltellino dalla gioia, no?

La fra dentro di sé aveva un piccolo Marito Paziente, un po’ come il topo Remì, che inorridiva e diceva “carne cruda?!? Qui?!? Non penserai di mangiarla, vero?!? Ma sei pazza?!?” con, diciamo, un lieve aumento di decibel ad ogni domanda.

Ora, la fra, è ben noto a chiunque la conosca, ama la carne cruda in maniera esagerata. Ma del tipo che è capace di mangiarsi il macinato crudo senza fare una piega; la sua carne deve essere scottata fuori e fredda dentro, per dire. Adora anche il petto di pollo, crudo. Qui, ovviamente, in genere la fra evita di mangiare carne e se la mangia deve piegarsi ad una cottura “rosata”, che per lei significa stracotta. Un incubo.

Sentirsi legittimati e in dovere di mangiare (o quantomeno assaggiare) della carne cruda (sai la padrona di casa ci sarebbe rimasta malissimo, ho dovuto farlo) è stato un momento grandioso, sappiatelo. Che poi la carne era speziatissima e veramente veramente deliziosa. L’abbiamo mangiata praticamente solo io e la quebequoise: credo che in quell’istante la padrona di casa si sia finalmente resa conto dell’epic fail guadagnato, per giunta in casa.

La cosa più carina di tutta la giornata è stato il momento espatriate anonime: intorno al tavolo ognuna di noi si è presentata alle altre, ha parlato un po’ di sé, del posto da cui viene, di cosa fa nella vita, del perché è qui, di quando è arrivata e quando ripartirà.

È così che la fra ha appreso che nel gruppo, oltre alle francesi, ci sono una libanese, una senegalese, una chilena, una quebequoise, una marocchina e ora, grazie alla fra, anche un’italiana.

Questo modo di conoscersi attraverso le tradizioni, la cucina, il modo di ospitare, la condivisione, è veramente bellissimo. Capire cosa c’è dietro ad un piatto in termini di scelte sulla preparazione, impostazioni familiari, consuetudini culturalmente radicate, dà a quel piatto un sapore diverso.

Modi diversi di fare gruppo, donne diverse, molto diverse, con la voglia di condividersi e lasciare qualcosa di sé e della propria cultura.

Modi diversi di crescere. Inaspettati. Non convenzionali.
Ultimamente qui mi sembra tutto un dono.
Lo scarto con timore e assoluta gratitudine.

Il prossimo appuntamento avrà come tema la cucina italiana, devo aggiungere altro?