lunedì 20 giugno 2016

Quando l'Italia ha ricominciato ad essere casa mia



Poco meno di un anno fa prendevo un aereo per tornare in Italia, nel mio Paese.
Per capire che questo sarebbe stato di nuovo il mio Paese ci ho messo un po', in effetti. O forse più per accettarlo che per capirlo, onestamente.
La Costa d’Avorio è stata un’occasione così importante sotto così tanti punti di vista che c’è voluto di lasciarla per riconoscere con umiltà di amarla tanto ma di non appartenerle.

Forse la consapevolezza è arrivata in una calda, si fa per dire, giornata di agosto, quando finalmente mi riavvicinavo alla Terra di Mezzo con l’occhio della memoria, dei passi fatti, dei semi lasciati cadere e ormai diventati pianticelle.
Forse la consapevolezza già nasceva nell’immaginare come quella casa avrebbe parlato di altri, o cosa di quella vita ci avrebbe seguito in questa nuova avventura.

Perché, ora posso dirlo con onestà e consapevolezza, tornare è stata l’avventura al contrario del partire, con la sostanziale differenza che partire era stato un arrivederci e tornare implicava un addio.
C’è stato da ricomporsi e ritrovare equilibri. C’è stato da riprendere una quotidianità in cui la spesa si faceva in una lingua diversa e le parole non ti venivano mai. C’è stato da inserirsi in una scuola completamente diversa per metodo e organizzazione.
C’è stata la difficilissima accettazione del vedere i nostri figli fiorire e capire che in Costa d’Avorio forse non sarebbero fioriti mai. C’è stato un Patato Piccolo che sorrideva, per la prima volta in quattro anni, nell’andare a scuola e ci sono stati immensi sensi di colpa con cui fare i conti.

Insomma c’è stato da riprendere dei fili e lasciarne indietro altri, come per ogni cambiamento. C’è stato un periodo di assestamento e uno di spaesamento, nel delirio immenso delle migliaia di cose da fare.

E poi c’è stato il momento, in qualche posto indefinito tra il sorriso di tuo figlio e la prima spesa fatta senza tradurre, in cui non solo hai capito che questa era casa tua ma l’hai vissuta come tale nella sua interezza. Che ti sei sentita a casa.
Per quel sorriso, per la spesa, per l’aria che respiri, per le strade che percorri, per tutte le emozioni che hai ritrovato senza mai aver capito di averle lasciate indietro.

C’è stato da riconoscere che questo posto del mondo, questo Paese che amo e ho sempre amato, in qualche modo aspettava il mio ritorno e io il suo abbraccio.
Perché vivere all’estero ti presenta il conto di quanto il tuo Paese non ti piaccia, per prima cosa. Poi ti insegna ad apprezzarlo. Ma te lo fa vivere sempre in differita, sempre come fosse la vita degli altri e non la tua.

L’Italia è qualcosa cui senti di far parte ma è sempre più indefinito e lontano, sfumato. La vivi per l’assenza più che per la presenza, quando vivi all’estero. Per quello che non ha saputo trattenerti.
Poi arriva il giorno in cui dentro ti nasce la tua storia con tutte le sue consapevolezze e per quanto tu la possa relegare in un angolino piccolo e nascosto, per quanto tu non sappia dargli un ambito concreto e definito, è quella storia a dirti chi sei, ovunque tu sia.

Con questo post partecipo all'iniziativa "Instamamme vuole anche te"... scopri come farlo anche tu! 

venerdì 17 giugno 2016

Tempi diversi


Una delle cose che mi ha insegnato l’Africa è stato il valore del tempo.
Del tempo che concedi alla scoperta, di te stessa come di ciò che ti circonda, o ai tuoi interessi.

In Africa avevo un tempo molto più rarefatto e mio.
Sarà perché i bambini erano a scuola quasi tutto il giorno, sarà che il Marito Paziente aveva dei turni che contemplavano o solo la mattina o solo il pomeriggio e mai il fine settimana, sarà quel che sarà ma il tempo non mi mancava mai.

Riuscivo a lavorare, tanto, su Instamamme, a creare bigiotteria e oggetti artigianali, ad andare in piscina due volte alla settimana, anche a leggere. E tenevo perfino abbastanza aggiornato questo blog.

Da quando sono in Italia lavoro meno su Instamamme, non ho ancora creato nulla (e l’estate si avvicina!), la piscina l’ho vista solo quando portavo i bambini a nuoto, leggere è quasi un’utopia. Per non parlare del blog, la cui frequenza di aggiornamento è quantomeno imbarazzante.

Sicuramente ha influito anche il lavoro di Marito Paziente, tornato a turnazioni che coinvolgono anche notti e fine settimana, e di certo devo ancora trovare un equilibrio anche io.
Ma la cosa più dirompente riguardo all’organizzazione familiare è stata quella attinente alla sfera Patata: scuola, compiti, attività, socialità.

Abbiamo scelto per loro i “moduli”, quel sistema scolastico che prevede 5 giorni di frequenza fino alle 13 con un rientro solo a settimana.
Questo ci ha consentito di potergli far svolgere attività pomeridiane, tra compiti, sport e amici. Ma per noi genitori è stato un delirio di cose da far combaciare, soprattutto quando nello stesso giorno c’erano magari molti compiti e la piscina, o la lezione di inglese.

Alla fine di questo anno scolastico tirando le somme, nonostante queste difficoltà, penso che abbiamo fatto la scelta migliore per loro, che venivano da quattro anni di scuola fino alle 16:30, che non avevano mai avuto la possibilità di attività pomeridiane, che vivevano la socialità solo durante le ore scolastiche.
Vederli giocare con i loro amici, ospitare noi loro o portare i Patati da loro, è stata una cosa bellissima.

E il tempo? Il tempo è una coperta corta che implica scelte e rinunce, e tanto vale accettarlo e mettersela via. Il tempo è qualcosa a volte da domare e a volte da assecondare, a volte da rubare a volte semplicemente da organizzare.
Ma in questo tempo che viviamo ogni giorno ci sono bambini più felici, e se questo implica il dormire di meno per fare ciò che di giorno non si riesce a fare… pace.
C’è sempre l’opzione del fare meno, la più dura da accettare… ma ci sto lavorando su.

martedì 14 giugno 2016

Dietro le ciglia


Ogni sera vi guardo dormire, sereni.
Mi chiedo sempre cosa si annidi dietro le vostre ciglia, se c’è un nodo non ho saputo sciogliere, se ho dato troppo, se ho dato troppo poco, durante la giornata appena finita.
Ho capito tempo fa che non sarei stata la mamma che pensavo sarei stata.
Del resto non c’è un corso in “mammologia”, qualcosa e qualcuno che ti dica se stai sbagliando o se stai facendo bene.
E così abbiamo sempre navigato a vista, noi tre. Annusandoci ogni giorno, adattandoci ogni giorno l’uno alle debolezze degli altri. Perché chiunque dica che una mamma non debba avere debolezze è uno sciocco: una mamma debolezze le ha, e alcune deve addirittura condividerle coi figli.
Vi guardo ogni giorno  e ogni giorno mi stupisco di come, nonostante gli enormi cambiamenti ci siano stati in questi anni nelle vostre vite, voi abbiate fatto vostro ciò che vi abbiamo proposto, o imposto, senza drammi. E mi domando come mi sono potuta meritare due figli così meravigliosamente recettivi, aperti, capaci di giocare la vita con lingue e in luoghi differenti.
Vi guardo dormire tranquilli e vorrei essere capace di avere la vostra serenità e la vostra certezza nel futuro.
Vorrei che mi insegnaste la semplicità, la bellezza delle emozioni elementari. La bellezza dello scoprire le cose poco a poco, piuttosto che di conoscerle già.
Ci sarà un giorno in cui sarete voi a spiegare il mondo a me, inevitabilmente. Spero di riuscire ad essere una buona alunna, di avere la stessa voglia di imparare che voi avete oggi.
Arriverà anche il giorno in cui non sgattaiolerò più nella vostra camera per spiare il vostro respiro calmo, arriverà il giorno in cui a chiedersi cosa si celi dietro le vostre ciglia sarà un’altra donna. Spero di riuscire a non avercela troppo con lei, per questo. Ve lo prometto, mi impegnerò.
Per ora mi godo questo momenti inconsapevolmente solo nostri e meravigliosamente ancora solo miei. <3

venerdì 3 giugno 2016

Standard e aspettative


Una delle lezioni più importanti dell’esistenza, quella subito dopo quella su come funziona il cervello di un uomo credo, deve essere stata quella sull’evitare di fissare degli standard, nell’offerta che si fa di sé e del proprio tempo e impegno. Ovviamente me la sono persa.

Ci pensavo mentre, dopo aver passato mezza mattinata, rimandando anche delle cose di lavoro un po’ urgenti, a spignattare per portare in tavola qualcosa di buono, sano e gustoso per i miei figli, ottenevo l’equivalente facciale di “che palle” allo scodellamento delle lasagne nel desco familiare.


Tralasciando per un attimo la voglia che avessi di mettergliele per cappello, a quei piccoli ingrati, riflettevo che se la reazione dei miei figli a un cibo che io vedevo solo nei giorni di festa fosse quella, forse avevo sbagliato qualcosa io. Forse li sto viziando, forse semplicemente sto alzando troppo il livello delle loro aspettative, forse non è un bene.

Non è un bene per loro, che forse non sapranno più apprezzare un momento “speciale”, il pranzo della domenica, il piatto preferito la sera del compleanno. Non è un bene per me, che finirò per non riuscire più a mantenere lo standard cui oggi, seppur con sacrifici e scelte (non lavoro la mattina? Lavorerò di notte, è semplice), li sto abituando.


C’è qualcosa di me che lotta profondamente contro questo concetto: sapere di fare qualcosa di speciale (ok, che io, con la mia storia, reputo speciale) per loro mi rende felice, non mi fa sentire stanchezza, rimpianto, mi aiuta a non sentirmi in colpa quando devo finire un lavoro e non posso dedicarmi a loro come vorrei e vorrebbero.

È ovvio infatti che ciò che do ai miei figli è la mediazione tra ciò che posso dare e ciò che loro desidererebbero, una coperta corta tra diversi bisogni e desideri che una volta copre di qua e una volta di là.


Cerco di non vivere la cosa con troppi sensi di colpa: hanno la fortuna di avere una mamma magari impegnata ma in casa, una mamma che puoi interrompere se hai un dubbio o un’esigenza; una mamma che può invitare a cena il tuo amico del cuore senza drammi, perché non ha cartellini da timbrare e può fare scelte.
D’altra parte, però, è anche vero che questa condizione porta comunque ad uno standard alto di offerta: solo per rimanere nell’ambito culinario, è abbastanza raro che i miei figli mangino qualcosa di rimediato e il “pronto da cuocere” non sanno neanche cosa sia. A mantenere uno standard alto, si rischia che tutto sia dato per scontato. E non è un bene per nessuno.

La verità, nuda, cruda e onesta, è che sono io che non sono capace di darmi un punto. Che ho sempre paura che ciò che do non sia abbastanza, in famiglia come negli affetti e non parliamo proprio del lavoro. Che a parte la stanchezza o la prostrazione mentale, non ho un limite superiore e ho un senso del dovere inox. Dovere autoimposto, ovviamente: so essere più esigente e severa con me stessa di chiunque altro.

Su questo riflettevo, l’altro giorno: offrire così tanto, in termini di precisione, disponibilità, attenzione, impegno, è per chi ne beneficia più un regalo immediato o una possibile condanna nel futuro?