venerdì 28 febbraio 2014

Con parole altrui #7. The Beatles



Una domanda banale, in classe, in un momento di condivisione, forse un fine ricreazione.
Qual è la vostra canzone preferita?
Erano i tempi di Jovanotti, qualche vuoi che fosse.
E la sua, prof?
E lei ci disse il titolo di una vecchia canzone dei Beatles che quasi nessuno conosceva, in classe; probabilmente la snobbammo pure.

Quella donna, quella prof che se n’è andata troppo presto, io beh… è una delle persone che ho stimato maggiormente nella vita e con cui ho avuto la maggiore empatia.
Per anni ero convinta che avrei dato il suo nome ad una eventuale figlia femmina; poi ho semplicemente capito che i morti vanno lasciati stare e che non puoi dare ad un bambino il peso di ricordarti una persona cui hai sinceramente voluto bene, non sarebbe mai completamente libero di tradire le tue aspettative, ai tuoi occhi.
La figlia femmina non è mai arrivata, ma se anche fosse, non sarebbe più stata Giovanna.
Ci sono morti che non seppellisci, la sua è stata una di quelle.
La piango ancora oggi, 23 anni dopo.

La sua canzone preferita era yesterday e risentirla, dopo, suonava così malinconico e insopportabilmente concreto che per anni l’ho ascoltata per dar voce ad un temporaneo bisogno di piangere qualcosa: il passato, lei, le cose sfuggite di mano, un’adolescenza finita troppo bruscamente e troppo presto.
E così yesterday è diventata una canzone immortale, per me. Una di quelle che canti per te, che è troppo personale, che non vuoi condividere, che potresti cantare solo davanti ad un fuoco, tu e le stelle.
Non l’ho mai cantata per nessuno, io che canto un altro po’ pure l’elenco del telefono.

La canto per me, per lei, per le cose che non sono riuscita a dirle, per quello che non mi ha visto diventare, per quello che non sono diventata, per i pomeriggi tristi con un coltellino in mano, per la paura del buio.
Per me è la canzone di quello che non è stato. Un ruolo pesante e importante, per una cosa così leggera come una canzone, in fondo. Eppure.
Se dovessi spiegare quel periodo brutto della mia vita attraverso parole e musica sarebbero quelle; non riuscirei a spiegare, perché è impossibile, come attraverso questa canzone io abbia sentito di non essere sola, come se lei fosse stata lì, a credere in me, come aveva sempre fatto fin dal primo giorno che mi ha conosciuto.

Da una parte salvagente, da una parte occasione per scolare un po’ di lacrime addensate dentro.
Una canzone che non è mia, non è parte del mio tempo, che mi è stata data come un tassello di una persona che ora avrei tanto voluto poter conoscere di più.
Di lei mi rimangono la sensazione di essere stimata e di stimare qualcuno a prescindere, l’amore per la matematica, la sfida con me stessa, una canzone.
Questa.

Yesterday – The Beatles

Yesterday,
all my troubles seemed so far away,
Now it looks as though they're here to stay,
Oh I believe in yesterday.

Suddenly,
I'm not half the man I used to be,
There's a shadow hanging over me.
Oh yesterday came suddenly.

Why she had to go?
I don't know she wouldn't say.
I said something wrong,
now I long for yesterday.

Yesterday,
love was such an easy game to play,
Now I need a place to hide away,
Oh I believe in yesterday.



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Scoprirsi attraverso le nostre emozioni e l'interpretazione di parole di altri, può essere bellissimo e costruttivo, facciamolo insieme!


lunedì 24 febbraio 2014

Segni



Di segni sulla pelle, ne ho tanti.
Smagliature sul corpo che riflettevano quelle nell’anima.
Porto le prime col coraggio dei sopravvissuti, le seconde mantengono l’intimità delle cose che covi nell’io, quello più umido e tuo.

Una volta li odiavo, quei segni.
Mi parlavano di una sconfitta, di un errore di valutazione pagato a carissimo prezzo; mi parlavano dell’adolescenza che avevo deciso di non vivere più: la paura, la consapevolezza, gli occhi così bene aperti su tutto e in ogni momento, parlavano un linguaggio da adulta.

Li odiavo, ma me li sono inflitti uno a uno.
Nella scelta tra i segni dentro, che avevo provato, e quelli fuori, sconosciuti, ho scelto quelli fuori. Erano segni che mi ponevano fuori da logiche che avevo scoperto non avere logica, mi mettevano in una rassicurante condizione di non appetibilità e quindi di basso rischio.

C’è chi si taglia, chi non mangia, chi mangia troppo. Io ero quella che mangiava troppo. Alla base lo stesso tipo di disagio, quello causato da un’immagine del proprio corpo non sana. Alla base un dialogo con il proprio esteriore mediato dalla visione che ne hanno gli altri. Quando affidi ad un altro il compito di definire il tuo aspetto ha perso e perderai molto.

La strada per ritrovarti è in salita e ogni briciola che negli anni ti può essere scivolata dalla tasca diventa fondamentale. Tornare indietro a capire come, cosa, dove, quando, è un percorso di rinascita faticoso ed emotivamente impegnativo.
Anche una volta trovata la strada, seguirla è difficile e la tentazione di tornare alla tua “condizione di riposo” è allettante.

C’è bisogno di impegno e coraggio per scoprire come volersi bene e ancora di più per continuare a farlo.
La tua mente, negli anni, ha individuato in un qualcosa (che sia la lama, che siano le due dita in gola, che sia l’eccesso di cibo), il metodo per fuggire da qualcosa che non riesci ad affrontare e, anche se oggi magari non sono più gli sguardi o i complimenti o gli uomini in generale a farti paura, scopri che la risposta che parte automatica dal tuo cervello è sempre quella.
È quell’automatismo, oggi, che devi combattere. È quello il muro di mattoni che devi abbattere e devi abbatterlo col solo aiuto della forza di volontà, del controllo su te stessa e, soprattutto, della stima di te stessa e delle tue capacità.

Dopo aver affidato per anni agli altri il ruolo di rifletterti la tua immagine, affidandoti al loro giudizio più che al tuo, improvvisamente ti trovi davanti ad uno specchio e capisci che non puoi più delegare.
È lì, in quel momento, che i tuoi segni ti parlano di te, delle tue scelte, delle tue reazioni. Di qualcosa che gli altri guardano ma non possono vedere.

Porto i miei segni col coraggio di ribadire che sono stati frutto in qualche modo di una strategia, giusta o sbagliata che fosse, che mi ha portato ad essere ancòra.
Porto i miei segni con l’orgoglio di chi sa che per quanto siano derivati da una debolezza, rappresentano una scelta di sopravvivenza.
Sono stati segni passivi, una scelta indiretta del male minore.

Venerdì scorso il mio corpo ha ricevuto un segno. È un segno mio, simbolico. Rappresenta la rinascita, il coraggio, la fierezza di aver fatto un cammino.
Sulla mia pelle ora c’è una compagna di viaggio a ricordarmi chi sono, ma soprattutto da dove vengo.

venerdì 21 febbraio 2014

Con parole altrui #6. Thomas Stearn Eliot

Anche a questo scritto ci sono arrivata attraverso un film.
Il film è “La bellezza del somaro”, scenografia della Mazzantini e regia di Castellitto, bellissimo, ben girato, non banale e ricco di spunti interessanti.
In una delle scene uno dei protagonisti legge ad alta voce una parte di questa lunga poesia di Thomas Stearns Eliot, che si intitola Il Canto d’Amore di J. Alfred Prufrock.
La frase che viene ripetuta ci aveva colpito e sia io che il Marito Paziente ne avevamo cercato l’origine.
Io avevo studiato letteratura americana alle superiori, ma tra opere di Eliot il mio libro si era concentrato su “Murder in the Cathedral”, forse citando appena le altre.
Insomma a me il nome “Prufrock” non diceva assolutamente nulla.
Nell’era di google puoi trovare rapidamente ogni cosa e quindi trovammo degli estratti di questa poesia e ci piacquero parecchio.

Poi, poco dopo, tutto sommato, arrivò la notizia che il nostro vivere stava per cambiare, che avremmo fatto un percorso diverso da quello fatto fino a quel momento e che per giunta non lo avremmo intrapreso insieme dall’inizio.
Ed è stato proprio allora, quando le tastiere della fra e del Marito (nostalgico, solo e) Paziente erano a più di 4000 km l’una dall’altra, che entrambi riprendemmo in mano questa poesia.
La fra, attraverso il computer, dedicandola al Marito Paziente attraverso un social e Lui trovando il libro, proprio quel libro tra miliardi di altri, nella saletta ristoro dell’Ambasciata.
A volte le cose fanno veramente giri immensi e strani per arrivare a te.

Quel “ci sarà tempo” ci parlava di nostalgia, di voglia di rivederci, di fiducia in un futuro che Marito Paziente stava già vivendo e che la fra poteva solo immaginare. Ci diceva che la vita non era adesso, che la vita sarebbe stata quel futuro, insieme. Ci faceva sentire meno soli dietro quegli schermi, la sera, lui in una casa vuota e io dopo aver messo i Patati a letto.
Ci parlava di facce da incontrare, di nuove cose da scoprire e con cui confrontarsi, ci parlava di un tempo comune, nostro; ci proponeva una domanda: “posso osare?”, che poi era quella che silenziosamente ci facevamo da mesi.
È bello quando uno scritto riesce a dare voce non ai fatti ma ai turbamenti, alle domande, alle speranze, alle inquietudini.
Nella Tana, Prufrock è stato questo ed oggi, ancora, due anni dopo, mantiene la stessa bellezza, la stessa empatia; ci ripropone domande di cui abbiamo imparato ad accettare l’inarrivabilità delle risposte, ci presenta speranze e un futuro, ancora, insieme.

Io ve ne propongo solo un estratto, quello per noi più significativo, ma vi suggerisco di leggerla tutta perché è bellissima!
La traduzione dall’inglese che ho io è di Roberto Sanesi, per il testo originale vi lascio alla ricerca personale ;-)

Canto d’Amore di J. Alfred Prufrock – Thomas Stearn Eliot

E di sicuro ci sarà tempo
Per il fumo giallo che scivola lungo la strada
Strofinando la schiena contro i vetri;
Ci sarà tempo, ci sarà tempo
Per prepararti una faccia per incontrare le facce che incontri;
Ci sarà tempo per uccidere e creare
E tempo per tutte le opere e i giorni delle mani
Che sollevano e lasciano cadere una domanda sul tuo piatto;
Tempo per te e tempo per me,
E tempo anche per cento indecisioni,
E per cento visioni e revisioni,
Prima di prendere un tea col pane abbrustolito.

[…]

E di sicuro ci sarà tempo
Di chiedere,
«Posso osare?» e, «Posso osare?»
Tempo di volgere il capo e scendere la scala
[…]



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lunedì 17 febbraio 2014

Italia e difficoltà


In Italia da ormai 5 giorni, mi ritrovo a pensare a come ogni volta tornare sia più strano e, proiettandomi nel futuro, a come vivrò il ritorno definitivo in questo Paese (l’Italia) e in questo paese (la Terra di Mezzo).

Tornare è sempre un evento, per chi ti accoglie. Nonna Latana stavolta ha direttamente ammazzato il vitello grasso, facendoci assumere in meno di 12 ore la quantità di calorie che generalmente assumiamo in un mese di Costa d’Avorio, per dire.
Alla Terra di Mezzo, dove io e il Marito Paziente (da soli) stiamo passando la nostra “vacanza da grandi”, abbiamo un sacco di persone che vogliamo vedere e persone che vogliono stare con noi e i giorni sono sempre troppo pochi.
Abbiamo storie lasciate indietro da ascoltare, fatti da esporre e cose che non riusciamo a raccontare.

La nostra realtà quotidiana è talmente complessa e diversa, ci confrontiamo con problemi così differenti, abbiamo possibilità e disagi che non riusciamo a far comprendere.
Condividere una vita  che si spiega in parole che non sono le nostre, pensieri che siamo abituati a formulare in maniera diversa, i dubbi, gli scazzi, i dolori, le difficoltà, le felicità diverse, le emozioni provocate da cose che qui, alla Terra di Mezzo come a Peppaland ma anche a Milano come a Roma, sono banali e quasi scontate. Alcune cose, fuori dal tuo paese sono regali: si impara a non dare per scontato che qualcuno abbia voglia di sentire i tuoi scazzi, le tue paure, le tue contentezze e le tue emozioni.
Lontano da casa scopri la solitudine delle scelte difficili. Scopri la preziosità di un volto amico, di un invito, di un abbraccio.
Lontano da casa la vita scorre su binari diversi e “casa” diventa altro.

Non ho le parole per condividermi con chi conosceva la fra che è partita due anni e spiccioli fa: di quella fra è rimasto poco. Sono ancora io ma non sono più io ed è difficile spiegare i margini più o meno profondi di questo cambiamento.
L’evoluzione che mi ha portato ad essere oggi quella che sono, che è passata per lacrime e testate contro il muro, per felicità insperata, per nuove coscienze personali e di coppia… a raccontarla perde tutte le sfumature del contesto che l’ha provocata e quindi diventa banale.
Non riesci a raccontare un posto che l’immaginario collettivo vede o come il bengodi o come l’inferno senza nessuna pietà di un chiaroscuro che medi le due posizioni.

È sempre la sensazione di mettersi una maschera per rassicurare gli altri che sì, sei ancora tu. Ed è vero, che sei ancora tu, ma sei una “tu” differente in mille modi diversi. Hai talmente fatto l’abitudine a certe cose, a certi modi, a certe espressioni, che ti sembra quasi strano dire “scusi” e non “pardon”, e infatti dici pardon il novanta per cento delle volte. C’è anche chi pensa che tu voglia far notare la tua differenza, quando invece la tua differenza ti pesa, ti rende altro in ogni contesto: non appartieni alla Costa d’Avorio, ovviamente, ma non appartieni neanche più all’Italia, non in maniera così permeante.
Qui, in Italia, ci sono le tue radici, ma il sole che fa crescere gemme e fiori sui tuoi rami è in un altro posto. Attingi da qui e da lì, ma non riesci a collocarti in un dove preciso.

Questo vorrei veramente riuscire a spiegare, ma chiunque io abbia davanti ha l’impazienza e la fame di leggermi negli occhi la coerenza con la giovane donna che un giorno ha fatto una scelta, forse coraggiosa, forse pesante ed è andata altrove.
Sono ancora una giovane donna, ma non più quella: la valigia con cui tornerò sarà nettamente diversa da quella che ho spinto con paura e entusiasmo in quella fredda mattina di novembre.
Sono partita con una maschera da indossare per adattarmi a un posto che non era casa mia, che lo sarebbe stato per quattro anni, che avevo scelto per viverci e farci crescere i miei figli.
Oggi mi accorgo che la maschera mi serve quando torno qui e mi trovo confusa, straniata, fuori dal mio guscio in cui ormai so come spiegare le ali; in Italia volo basso, sempre più in basso.
E mi spiace, perché chi mi aspetta qui, e mi offre il suo tempo, le sue attenzioni, la sua storia, non merita davvero questo.

venerdì 14 febbraio 2014

Con parole altrui #5. Zaz


Ci sono, poi, spunti che ti arrivano in maniera un po’ trasversale e assolutamente inaspettata. Questa canzone appartiene a questa categoria.

Il vecchio collega del Marito Paziente ci parlò di questa cantante francese con sonorità interessanti e noi recuperammo qualcosa online, ma senza troppa convinzione.
Come sempre gli input possono venire da fuori ma le scoperte sono un percorso.
E il mio percorso sono state sei ore di aereo, un po’ di tempo fa. L’ultimo disco di questa cantante francese, Zaz, era tra quelli offerti per l’ascolto sull’aereo e io mi dissi: mah, proviamo, quelle che ho sentito dell’album precedente mi son piaciute… È stato amore!
Tutto l’album vale assolutamente l’ascolto, se anche non conoscete il francese, perché la sonorità è molto bella, la voce è ben modulata sul testo e la musica e l’interpretazione è secondo me degna di nota.

Scendendo nel particolare, io ho adorato questa canzone fin dal primo ascolto, anche senza ancora averne capito il testo, che poi ho ovviamente cercato in rete.
Sostanzialmente si tratta di un incitamento a vedere le grandi possibilità che abbiamo, come esseri umani, attraverso la varietà di culture, espressioni artistiche, luoghi; una spinta a vedere l’aspetto costruttivo della diversità e condividere noi stessi e le nostre possibilità e capacità.

Alcune cose arrivano a te esattamente nel momento in cui sei pronto a metterti in discussione e a rifletterci su, forse perché sei pronto a coglierle, chissà!
Stare qui in Costa d’Avorio dove tutto è più difficile, più netto, con contrasti enormi e duri, ti pone di fronte ad un dilemma: sto qui e in questi quattro anni cerco di sopravvivere a pelo d’acqua oppure mi inzuppo i vestiti e l’esistenza mettendomi un po’ in gioco, cercando di confrontarmi con ciò che mi circonda (e mi ospita, concetto fondamentale) in maniera costruttiva e aperta?

Ho passato buona parte dei miei primi due anni qui bagnandomi poco a poco, scoprendo realtà che non conoscevo ma sempre con un’enorme paura iniziale (qui era appena finita la guerra, due anni fa) a farmi un po’ da zavorra, da freno a mano tirato.
Poi sono riuscita a valutare la quotidianità oggettivamente: i patti della mia bilancia che erano passati repentinamente da “che meraviglia, qui è tutto fighissimo e nuovo” a “ma in che cazzo di angolo del mondo son finita”, si sono finalmente attestati su “vivo in una parte di mondo di cui è essenziale capire le regole e qual è il tuo posto, ma una volta che le cose sono chiare, puoi anche viverle un po’ più profondamente”.

La colonna sonora di questo cambio di punto di vista è stata questa canzone, che ha dato voce ai miei pensieri proprio nel momento in cui, anche se ci ero arrivata per tutt’altre strade, arrivavo alla determinazione di potermi buttare un po’ di più e che non potevo buttar via questa meravigliosa opportunità di crescita, confronto e riflessione che mi è stata data e che stavo vivendo sì, ma ancora solo a livello teorico.

Oggi come oggi, ma è una cosa decisamente recente, diciamo da quando son tornata dopo essere stata male, guardo le cose con gli occhi di chi ha più coscienza e conoscenza di ciò che la circonda, di chi ha capito quali sono i margini e rischi, soprattutto, sulla propria pelle e di chi ha deciso di vivere questo posto e viverlo meglio.
In qualche modo, questa canzone, forse dice anche questo.

On ira - Zaz

On ira écouter Harlem au coin de Manhattan
On ira rougir le thé dans les souks à Amman
On ira nager dans le lit du fleuve Sénégal
Et on verra brûler Bombay sous un feu de Bengale

On ira gratter le ciel en dessous de Kyoto
On ira sentir Rio battre au cœur de Janeiro
On lèvera nos yeux sur le plafond de la chapelle Sixtine
Et on lèvera nos verres dans le café Pouchkine

Oh qu'elle est belle notre chance
Aux milles couleurs de l'être humain
Mélangées de nos différences
A la croisée des destins

Vous êtes les étoiles nous somme l'univers
Vous êtes en un grain de sable nous sommes le désert
Vous êtes mille phrases et moi je suis la plume

Vous êtes l'horizon et nous sommes la mer
Vous êtes les saisons et nous sommes la terre
Vous êtes le rivage et moi je suis l'écume

On dira que le poètes n'ont pas de drapeaux
On fera des jours de fête autant qu'on a de héros
On saura que les enfants sont les gardiens de l'âme
Et qu'il y a des reines autant qu'il y a de femmes

On dira que les rencontres font les plus beaux voyages
On verra qu'on ne mérite que ce qui se partage
On entendra chanter des musiques d’ailleurs
Et l'on saura donner ce que l'on a de meilleur

Oh qu'elle est belle notre chance
Aux milles couleurs de l'être humain
Mélangées de nos différences
A la croisée des destins

Vous êtes les étoiles nous somme l'univers
Vous êtes en un grain de sable nous sommes le désert
Vous êtes êtes mille phrases et moi je suis la plume

Vous êtes l'horizon et nous sommes la mer
Vous êtes les saisons et nous sommes la terre
Vous êtes le rivage et moi je suis l'écume


la traduzione è mia, alcune volte non è letterale, ma spesso tiene conto di come al meglio si esprimerebbero i concetti in italiano, altre volte invece è più pedissequa, dove secondo me la minor linearità rende meglio il concetto che si voleva esprimere ;-)


Andremo

Ascolteremo Harlem all’angolo di Manhattan
Faremo arrossare il tea nei suk di Amman
Nuoteremo nel letto del fiume Senegal
Vedremo bruciare Bombay sotto un fuoco di Bengala

Andremo su un grattacielo in cima a Kyoto
Sentiremo Rio battere nel cuore di Janeiro
Alzeremo i nostri occhi sul soffitto della Cappella Sistina
E leveremo i nostri bicchieri nel caffè Pouchkine

Oh, com’è bella la nostra fortuna
nei mille colori dell’essere umano
mischiati nelle nostre differenze
all’incrocio dei destini.

Voi siete le stelle, noi siamo l’universo
Voi siete un granello di sabbia, noi siamo il deserto
Voi siete mille frasi e io sono la penna

Voi siete l’orizzonte e noi siamo il mare
Voi siete le stagioni e noi siamo la terra
Voi siete la riva e io sono la schiuma.

Diremo che i poeti non hanno bandiera,
Avremo giorni di festa quanti avremo eroi
Sapremo che i bambini sono i guardiani dell’anima
E che ci sono regine quante ci sono donne.

Diremo che gli incontri fanno i viaggi più belli
Vedremo che non si merita che quello che si condivide
Sentiremo cantare musiche di altri luoghi
E sapremo donare quello che abbiamo di migliore.

Oh, com’è bella la nostra fortuna
nei mille colori dell’essere umano
mischiati nelle nostre differenze
all’incrocio dei destini.

Voi siete le stelle, noi siamo l’universo
Voi siete un granello di sabbia, noi siamo il deserto
Voi siete mille frasi e io sono la penna

Voi siete l’orizzonte e noi siamo il mare
Voi siete le stagioni e noi siamo la terra
Voi siete la riva e io sono la schiuma.



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