Visualizzazione post con etichetta cose da grandi. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta cose da grandi. Mostra tutti i post

giovedì 8 marzo 2018

Piccoli uomini e uomini piccoli




La festa della donna è sempre un buon giorno per riflettere sul nostro ruolo, su come siamo, su come la società ci vede.
Quest’anno la mia riflessione scaturisce da un recente e tristissimo fatto di cronaca.

Poco tempo fa un uomo ha sparato a sua moglie, si è barricato in casa di lei e ha ucciso anche le loro figlie, prima di puntare la pistola su se stesso e farla finita.
Tralascio tutte le considerazioni sul fatto che l’uomo in questione fosse appartenente alle forze dell’ordine e che abbia realizzato quello scempio con una pistola di ordinanza che forse, a conti fatti, sarebbe stato il caso non avesse più. Di questo mi aspetto e spero che qualcuno risponda, ma nulla toglie o aggiunge al fatto in sé.

Le mie considerazioni sono altre e partono dalla triste constatazione che nell’ambito della violenza sulle donne stiamo ancora sbagliando tutto, purtroppo.

Non esistono “ma” e non esistono “se”: la violenza di genere va condannata con forza, sempre e comunque. Non ci sono attenuanti possibili per chi la commette.
Fin qui, a parole, tutto condivisibile e largamente condiviso. Eppure, proprio a partire (al solito) dai mezzi di informazione l’accento cade sempre (e nell’ultimo caso di cronaca l’ennesima conferma) sulla cosa sbagliata: lei aveva chiesto la separazione (eh, immaginiamo un attimo il perché), lei gli teneva lontane le figlie (anche qui: chissà per quale motivo), lei lo aveva cacciato di casa.
Un modo di presentare le cose che vede la donna se non colpevole sicuramente corresponsabile dell’accaduto. Eh, ma anche no.

Altri commenti che ho sentito in proposito sono stati del tipo “non lo aveva denunciato” (come se questo la rendesse, ancora una volta, complice). Vero eh, aveva presentato, pare, un esposto. Un esposto non mette in atto misure protettive come una denuncia, è bene che si sappia. Ma perché allora molte donne non denunciano?

Una denuncia stravolge la tua vita, la cambia, squarcia il velo e permette a tutti di vedere la tua vita, di analizzarla, criticarla, giudicarla.

Devi avere forza, una forza incredibile, per accettare tutto questo. Devi essere convinta, non devi aver paura di rovinare la vita di un altro. E se sei una persona cui qualcuno sta rovinando la tua, di vita, diventa paradossalmente più difficile, anche se l'altro è proprio chi ti sta facendo del male. Essere carnefice del tuo carnefice è pesante, ti mette in un certo modo (ingiusto e sicuramente "malato") sullo stesso piano.
Mettere nero su bianco, firmare un'accusa pesantissima, richiede un coraggio non indifferente... Ma lo capisce solo chi lo ha vissuto. Io per esempio lo capisco benissimo, e sono una di quelle che per tanti motivi non ha denunciato e non passa giorno che non se ne penta (non fosse altro che per aver potuto, potenzialmente, evitare che quella persona facesse del male ad altre).

Da dietro a una tastiera o da davanti ad uno schermo, sembra quasi impossibile che una donna non denunci chi sistematicamente le fa del male. Eppure spesso è così. Perché una donna che subisce molestie o violenza, o viene picchiata, o è vittima di stalking è una donna vinta, fragile, che ha anche bisogno di mentirsi e dirsi che va tutto bene. È una pasta malleabile nelle mani sbagliate, è ridotta al rango di “qualcosa” più che di “qualcuno”, con tutto ciò che sulla propria forza, volontà e capacità di agire questo possa comportare.

Anni fa, tanti, aprii lo sportello di un armadio, quello in cui mia nonna teneva le medicine. Ne presi alcune, a caso. Poche, tante, non ricordo.
Quello che ho capito molto tempo dopo è che non volevo veramente morire, volevo solo non esistere, volevo solo che tutto finisse. Non ero pronta a raccontare la mia verità, non ero capace ad uscire da una situazione orrenda e bastarda, non ero capace di farmi aiutare, non ero capace di capire che non era colpa mia... Ma volevo solo pace, volevo addormentarmi e scoprire che no, non stava accadendo a me. Quelle pasticche non erano neanche una richiesta di aiuto, erano il solo modo che vedevo per far finire qualcosa più grande di me, che non sapevo gestire.
Quelle medicine ovviamente non mi fecero nulla, ma nulla nulla, chissà poi cos'erano. Ma quel nulla pesò come una sconfitta, e una condanna. Mi fece capire che non sarebbe finita mai, se non attraverso una mia volontà. Che la strada forse più facile non era quella giusta, che dovevo affrontare il demone. E lo affrontai, ne uscii in qualche modo, ma ne uscii con un senso di colpa che mi ha tenuto gli occhi bassi per troppo tempo. Ne uscii portando a casa la pelle e affrontando giudizi dal peso specifico del piombo. Per bilanciare quel peso ho dovuto mettere un peso addosso che non mi esponesse, che mi ponesse al riparo dal desiderio altrui. Ero una sopravvissuta, ma ero vista anche diversamente da chi fino a poco tempo prima non mi aveva neanche mai calcolato. Anni bui, di cui ricordo un velo di estrema solitudine e non comprensione, con un sottofondo costante e sfumato di inadeguatezza e sensi di colpa. Per tanti, ero io la puttana.

Ci sono grandi responsabilità sociali, dietro alle violenze di genere.
C'è una società pronta a concedere le attenuanti del "ma" e le corresponsabilità dei "se". C'è una società che giudica, che scandaglia, che rovista nel torbido con morbosità e senza empatia, pronta ad entrare nella tua vita, nelle tue mutande, nei segni che hai addosso senza sporcarsi le mani a fare qualcosa di concreto: perché se tocchi la merda le mani te le sporchi e devi prendere una posizione netta e concreta, la stessa che a parole è facile.
C'è una società che condivide parole, video o foto che possono danneggiare la vita di un altro, senza chiedersi che impatto il loro gesto potrà avere su quella persona.

Ho sempre voluto avere figli maschi. Credo che da una parte derivasse dalla paura che ad una mia figlia potesse succedere quello che è accaduto a me, mentre dall'altra ci fosse un bisogno inconscio di educare delle figure maschili al rispetto che mi è mancato.
È con la nascita dei miei figli che ho accettato che non potevo cambiare cosa era successo a me, ma ho capito contestualmente che avevo l'enorme potere di fare in modo di educarli ad una vita migliore, in cui una donna non venisse vista come ero stata vista, e vissuta, io.
Che potevo renderli consci del valore della vita umana e di quanto le loro azioni potevano incidere sull'esistenza altrui.

È questa la grande sfida di noi genitori: questo continuo insegnare, raddrizzare, volgere al positivo, dare spunti, limiti e tracciati per fare dei nostri figli uomini (e donne) migliori e più consapevoli di quelli (e quelle) che li hanno preceduti. L'insegnare a non conformarsi a modelli forse più popolari ma non per questo più giusti. Dare loro un senso morale e profondo, in cui collocare il rispetto per sé stessi e per tutti coloro che li circondano... Senza compromessi, senza i "se" e senza i "ma".

mercoledì 15 novembre 2017

Rinascite, ritrovamenti e percorsi




Un anno fa iniziava una nuova fase della mia vita. E iniziava con una sala operatoria e tanta paura.
Rinascita, la definiscono alcuni. Io la definirei riappropriamento di una me stessa che (mi) mancava da tanto, troppo, tempo.
 

Il più bel complimento ricevuto in questi mesi è stato “Non sembri un’altra… Sei finalmente proprio tu”. Nulla di più vero.

Strano come il cambiamento di immagine corporea influisca sulla percezione che si ha di sé stessi. E no, non sono i 48 kg in meno, quello è un dato oggettivo… il grosso cambiamento è l’essere a proprio agio con quella che si è.
E no, non è affatto scontato: non è la prima volta che faccio una dieta, non è la prima volta che dimagrisco parecchio.
È la prima volta, però, ed è questo che è degno di nota, che ciò non comporti un tremare di gambe e una paura indefinibile di fronte ad un complimento, uno sguardo. È la prima volta che non temo un obiettivo puntato. Si direbbe che sia quasi diventata esibizionista, rispetto a prima… la verità è che questa condizione è la mia normalità e come tale la vivo. Certo, chi mi conosce non ha mai conosciuto questa Francesca, a meno di pochissime persone con cui vanto un rapporto almeno trentennale.

La Francesca che oggi appare è quella che sarebbe stata se in un caldo agosto di 27 anni fa non le fosse accaduto nulla. Con più consapevolezze, attraversando mille e mille mari in tempesta, oggi la Fra è quella che è interiormente da sempre, con una libertà che teme meno di quanto non fosse abituata a fare. Con meno barriere tra sé stessa e il mondo, con meno bisogno di barriere. Ma una Fra ben consapevole di non essere “arrivata”, perché la lotta contro il volersi male, o piuttosto il non volersi bene, è qualcosa di molto complesso e vasto e non sono così ingenua da pensare che questo basti, soprattutto ora che la vita mi ha posto nel piatto complicazioni e cose completamente inattese da affrontare. Il volersi bene non è il punto di arrivo, ma il percorso. Per questo la consapevolezza di ciò che si è e di ciò che si è stati è fondamentale.

Molte persone che hanno fatto il mio stesso percorso dicono spesso “lo avessi fatto prima”; io credo semplicemente che ogni cosa nella vita, e questa non fa eccezione, arrivi quando si è pronti alle conseguenze, quando è il momento giusto tra maturità e crescita personale. Quando si accetta di prendere una strada e si è pronti a mettersi in discussione se serve, a perdonarsi debolezze e umanità, a lasciar andare pesi che nulla hanno di fisico.

Ecco, dopo un anno, un anno bello tosto e onestamente mai facile, è questo il punto in cui sono. Che è un punto che non conoscevo e che mi ha portato inaspettatamente a riconoscermi.
Non è poco, non è affatto poco.
La sensazione di potermi giocare la vita con libertà è qualcosa che non sperimentavo da quando avevo 13 anni: poco dopo il mondo mi dimostrava che quella libertà per me sarebbe stata una conquista, e lo faceva con brutalità e senza sconti.
Non me ne fa tuttora, di sconti, peraltro. Ma oggi ho 41 anni e la capacità di affrontarlo e accettarlo, senza il dramma che mi sconvolse invece allora.

È per questo che l’intervento non è mai stato il fine, quanto il mezzo. Che non mi ponevo aspettative, che non avevo fretta di farlo quanto una paura fottuta che mi portasse in luoghi dove non ero pronta a stare.
Oggi dico con serenità che questo è esattamente il posto di me stessa in cui voglio stare.
Sono stata brava, sì. Ma non a dimagrire quanto a non perdermi, a lottare, a non accettare le scorciatoie classiche ai problemi, a vedermi cambiare, ad accettarmi cambiare.

L’intervento non è, né mai lo sarà, una bacchetta magica. Per questo non mi sento arrivata, per questo per la prima volta nella mia vita l’importante non è nell’obiettivo quanto nel percorso quotidiano, nella scelta che faccio ogni giorno.
La Francesca di un anno fa non mi manca, mai. Preferisco quella combattiva di oggi che la larva rilassata di un anno fa. Preferisco quella che oggi sa dire “non ce la faccio” a quella che faceva ogni cosa accumulando stanchezza e frustrazione per colmare il vuoto tra se stessa e il mondo.
Quel vuoto oggi non c’è e spero non torni più, lavoro affinché sia così, ogni giorno.

Non è facile, ma è quello che mi rende oggi una persona migliore, al di là di ogni kg perso.
L’importante non è perdere, è ritrovare. Questa è la grande scoperta di quest’ultimo anno e anche questa no, non era affatto scontata.

lunedì 4 settembre 2017

Nuotare, tra le onde






Mesi complessi, duri, fatti di tante cose che si sono incastrate, alcune bene e altre anche decisamente male.

Se questo 2017 doveva insegnarmi qualcosa, è stato l’imparare a non dare nulla per scontato: i rapporti, le presenze, l’amicizia, il lavoro, la forza fisica, l’immagine corporea.
Un duro colpo per chi, come me, programma sempre tutto, ama giocare d’anticipo, pianta paletti anche nei punti impervi per darsi certezze da cui ripartire.

Quest’anno mi ha insegnato, finora, che la certezza fondamentale sono io, oggi, qui, subito, in questo istante. Che tutto può cambiare e può cambiarmi, ma fino ad un certo punto.
Che esiste un’essenza che devo imparare a riconoscere e difendere ad ogni costo, perché quella essenza sono io e non c’è nulla, nulla, che debba toccarla e che sia più importante. Che sia il mondo che vuole esserci, ad adattarsi a quell’essenza, se vuole veramente, se penserà che ne vale la pena. Per me la vale, sempre.

Questi mesi mi hanno insegnato che posso rialzarmi, che ce la faccio, che posso farcela anche quando mi pare di no, che so scavalcare, con fatica immane e pari paura, le onde che arrivano sempre più veloci e una dietro l’altra.
Che chi vuole c’è e nuota con te, più che dirti come si nuota dalla sua comoda barchetta. Che quando mi sento persa posso ripartire, magari da un gradino che mi pare più basso e che poi scopro essere comunque solido. E se sia più in basso, sticazzi. Il magico potere dello sticazzi: una conquista, per me.

Cosa vorrei, oggi? Stabilità, calma, deporre le armi.
Sono stanca, fiera di me ma stanca, affaticata. Mi servirebbe una piazzola di sosta, che attualmente ancora non vedo ma che prima o poi dovrà pur esserci… non so dove, non so quando, né chi ci sarà e forse non è così importante saperlo. Alla fine la vita è il viaggio, e forse questo è solo un momento in cui è tutto più pesante e nebuloso, tutto qui. L’importante è non concedersi una pausa troppo lunga, soprattutto da se stessi.

Ho sempre creduto che i momenti in cui pensi di aver toccato il fondo sono quelli in cui cresci di più, in cui sei più a contatto con quell’essenza che troppe volte ti sfugge. Ne ho avuto la conferma, e forse, quando mi concedo di ammetterlo, sono più forte oggi di un anno fa. Con qualche segno in più, con qualche sogno in meno, con giorni alterni come i parcheggi: navigo più a vista, in fondo.

E va bene così, se una pace e una serenità sono possibili sono una mia responsabilità: ho passato una vita a demandarle e a pensare di doverle meritare, adesso so che devo concedermele io. E no, è tutt’altro che facile per una cresciuta con l’idea che se non hai è perché non meriti, e non perché non sai concederti qualcosa o ancora non sai chiederlo, o anche solo perché non hai vicino le persone giuste. Oggi non aspetto che gli altri capiscano e interpretino: chiedo, litigo, discuto, combatto e controbatto. Perché se dai agli altri il ruolo di stabilire se meriti qualcosa, permetti loro di stabilire il tuo valore… e io, semplicemente, ho deciso di assegnarmelo, con onestà ed obiettività, da sola.


Sous l'oeil de l'ange
Je suis venu te dire que j'ai su rester fort
Sous l'oeil de l'ange
Je suis venu te dire qu'ils n'ont rien vu encore
Sous l'oeil de l'ange
Je suis venu te dire que j'ai trouver la paix
Sous l'oeil de l'ange
J'ai su pardonner et j'ai su le chanter

[K’maro – Sous l’oeil de l’ange]

venerdì 26 maggio 2017

Vaccini e riflessioni





Come la penso sui vaccini è cosa nota: la salvaguardia della comunità viene prima di ogni libertà del singolo che possa metterla a rischio.
Ammetto, senza problemi, di non essermi mai posta tanti dubbi sui benefici dei vaccini: il semplice vaccino anti influenzale (tra le altre millemila medicine che prendeva) ha permesso a mio padre, la cui situazione era ben più che compromessa a livello circolatorio e cardiaco già nel lontano 1998, di vedermi laureata, di potermi accompagnare a mettere una firma importante, di conoscere e amare i suoi nipoti.

Poi sono andata a vivere in Africa, dove i vaccini hanno avuto un ruolo fondamentale per la mia sicurezza e per quella di tutta la Tana e dove i vaccini hanno ancora il ruolo, che tocchi veramente con mano, di salvare tante vite.
L’esperienza africana mi ha fatto interrogare, fin dai primissimi tempi, su quanto noi occidentali diamo per scontata  una prevenzione delle malattie e una sicurezza data da un’immunità di gruppo che permette(va, a conti fatti) di poter fare dei distinguo e scelte diverse.
Oggi, nel nostro civilissimo Paese, la situazione è ben diversa.

La libertà di scelta ha portato a risultati critici, che hanno indotto un’azione di forza limitativa del libero arbitrio per questioni di sanità pubblica.
Da vaccinista quale sono, ora sono contenta?
, perché ravviso in tutto questo una volontà di tutelare chi non può tutelarsi (immunodepressi, bambini non ancora vaccinati, malati, persone che nonostante il vaccino non hanno sviluppato gli anticorpi).
No, perché se si è arrivati a tutto questo vuol dire che qualcosa non ha funzionato e la limitazione di una libertà di scelta è qualcosa che storicamente e filosoficamente mi turba non poco: abbiamo veramente gestito così male il libero arbitrio da portare il nostro Stato a togliercelo? Non è una perdita che abbiamo inflitto a noi stessi?

La tentazione fortissima, in cui sono caduta anche io, è quella di bollare chi ha scelto di non vaccinare come “idiota”. E ce ne sono, eh, come per ogni convinzione: del resto c’è anche chi è disposto a credere ancora che la Terra sia piatta, per dire.
Però i cosiddetti antivax non sono tutti idioti: ne conosco personalmente alcuni di cui stimo la grande intelligenza, cui voglio bene e con cui ho legami importanti e profondi.

Tutto questo mi ha portato a pormi interrogativi, a cercare di capire senza accontentarmi del banale “complottisti” o del semplice “idioti”.

La rete, questa grande piazza di paese allargata, ha avuto e ha il grande merito di creare contatti tra le persone, di mettere a disposizione di chiunque, al di là del proprio titolo di studio o delle sue conoscenze specifiche in qualunque ambito, una varietà di informazioni incredibilmente vasta.
Questo significa che in rete, o grazie alla rete, troverai sempre chi ti darà ragione della tua idea o delle tue paure, qualunque esse siano.

Una informazione così vasta e non chiara porta a mille dubbi e ad altrettante paranoie, di ogni tipo (basti pensare all’allarmismo sull’Ebola in occidente). Una volta le cose così le trovavi nella posta di Cioè, oggi le trovi in gruppi Facebook, validate da condivisioni e like e si sa che qualsiasi cosa giri sui social non sempre viene controllata prima di essere ricondivisa; viene manipolata (anche in assoluta buona fede, eh), strumentalizzata, proposta per uno scopo (dal più banale “vendere un prodotto” al più sudbolo “instillare un dubbio”).
Sono la nostra storia, la nostra sensibilità, le nostre aspettative, i nostri ideali a farci scegliere in cosa credere. È anche il nostro carattere.

Sull’argomento vaccini, per restare in tema, in rete si trova di tutto.

Una delle cose che, confrontandomi con persone che hanno scelto di non vaccinare, esce più spesso è la poca fiducia nelle istituzioni, a livello globale. L’idea che dietro ad ogni scelta che viene fatta per noi ci sia la volontà di danneggiarci, di renderci schiavi, di imbrogliarci. Non sono così ingenua e ciecamente fiduciosa da non credere che su alcuni aspetti la cosa abbia un senso, peraltro.

In questo clima di sfiducia è ovvio come messaggi complottistici possano trovare terreno fertile, a livello politico ci sono intere fazioni che ci campano per dire, e diffondano sfiducia a tutto campo.
Se teorie antivax oggi in campo medico vengono confutate a livello macroscopico e scientifico, dati alla mano, per alcuni è ovvio che i dati siano falsati, che ci sia una congiura. Basta guardare il caso di medici antivaccinisti che sono stati (giustamente) radiati dall’Ordine dei Medici: ormai sono martiri. Per quanto mi riguarda, se non segui un protocollo scientifico non sei un medico ma uno stregone e ti prendo per tale, ma non per tutti è così e più che bollarli come idioti senza cervello ci sarebbe da interrogarsi sul perché.

C’è, sempre a mio parere, sempre di più, una gran voglia di essere “contro”, di distinguersi, di non seguire la massa perché la massa è diventata quasi il male per antonomasia. Una voglia di affermarsi e dire “io mi sono informato anche da chi la pensa diversamente e ho valutato”. Il ché è giusto e sano ma pone diversi interrogativi.

Chi mi dice che quelle fonti siano sicure? Che non ci sia anche lì una manipolazione di dati, o peggio ancora la creazione di dati falsi, per perseguire uno scopo?

Lo scopo di una campagna antivaccini (ma anche di tante campagne che minano la fiducia nella scelta di massa), uno dei tanti, potrebbe essere anche quello di renderci ribelli rispetto alle istituzioni, di destabilizzare talmente tanto l’uomo da renderlo individualista e quindi più controllabile. Un po’ subdolo? Non mi stupirebbe, non mi stupisce più nulla ormai.
Chi mi dice, in pratica, che questo complottismo non sia altro che un complotto esso stesso per renderci soli e presuntuosi di cose che non sappiamo, basandosi su ignoranza (non nel senso negativo, quanto etimologico) e qualunquismo (cosa che tira tanto, altroché) per poi farci scivolare in una facile predisposizione ad un dominio senza leggi e più subdolo da individuare come tale?

Siamo veramente in grado, in assenza di studi nostri pregressi specifici, di valutare la veridicità di tesi che si schierano contro le organizzazioni sanitarie mondiali?

Si può dire: eh ma quelli che hanno istillato il dubbio sui vaccini e creato allarmismi sono medici. Ok. Ma sono tutti immunologi o specializzati in questo campo?
Io sono un architetto, ho fatto anche due o tre esami specifici (con interesse e profitto) sulla statica, la scienza e la tecnica delle costruzioni, ma non ho proseguito quella strada e non ho approfondito a livello teorico e sul campo l’argomento. Ciò mi rende perfettamente in grado, sicuramente molto più dell’uomo della strada, di capire di cosa si parli quando si parla di costruzione di un ponte, per esempio… ma ben altra cosa è essere in grado di progettarlo in modo che regga il peso di tutte le persone che ci passeranno sopra e devono poterlo fare in tutta sicurezza. Dovrei riprendere a studiare, fare gavetta, affiancarmi a persone più competenti di me, insomma (e sarebbe quantomeno etico se lo facessi prima di dare consigli, informazioni e direttive in tal senso).
Che un dentista, per esempio, ma per un medico generico per me vale lo stesso, si pronunci sui vaccini io lo trovo ridicolo: può farlo come uomo (e il suo parere varrebbe quanto il mio), di certo sa meglio di me di cosa di sta parlando, ma non è preparato in maniera specifica tanto da prendersi la responsabilità di affermare cose dandole per certe e di dare soprattutto alle sue opinioni un peso che non possono avere nelle scelte altrui.
 

Perché proprio in questo campo c’è così tanta confusione e si è pronti a bollare per malafede ogni protocollo tradizionale?

Perché, secondo me, c’è bisogno di trovare un colpevole quando capitano imprevisti e cose brutte, soprattutto ai nostri figli.
Il genitore che si trova davanti una diagnosi di autismo, in un bimbo che aveva sempre visto normale, sbrocca, come si direbbe a Roma, e ne ha tutte le ragioni. E per quanto le scoperte attuali vedano l’autismo come malattia a componente genetico, guarderà sempre con sospetto al vaccino, alla medicina, all’intero Ministero della salute, quando non alla Comunità Scientifica Internazionale. Ingiusto? Sì, ma comprensibilissimo. Se poi ci mettiamo medici (?) che, in barba alle evidenze scientifiche, gli dicono che sì, l’autismo di suo figlio è stato causato dal vaccino (perché è una risposta: non vera, non comprovata… ma una risposta che non lo vede “colpevole” di avergli portato un gene “malato”), il danno è fatto.

Trattandosi di salute, inoltre, non siamo inclini a perdonare l’errore e perdere fiducia può essere facile, me ne rendo conto perché ci sono passata anche io con i medici ivoriani la cui superficialità mi aveva portato ad una setticemia perciò cerco di non sottovalutare il fattore “storia personale” nelle scelte che ognuno fa, convinto ovviamente che siano le migliori. Spero sempre, e lo dico in assoluta sincerità, che nessuno di noi genitori abbia a pentirsi delle scelte fatte per presunzione e superficialità (cosa capitata a me, fortunatamente per una cosa non grave).

Il problema è che oggi grazie al complottismo, alle informazioni confuse, riportate, prese per vere al di là di evidenze scientifiche, le scelte sono abbastanza obbligate, e non c’è per niente da gioirne, nonostante le evidenze diano ragione ad una fazione piuttosto che all’altra.
Insomma, il navigare in questo mare oggi mi pare tutt’altro che dolce.

martedì 11 aprile 2017

Di voci, confronti e crescita




È la voce, quella che prima sparisce.
Ricordi le parole, i gesti, le espressioni, il viso, il modo di camminare, i gusti, il carattere… ma la voce ti lascia sempre più orfano.

È una cosa che atterrisce, che ti svuota. È l’esatta misura di quanto si perda la persona e non ciò che ci ha lasciato; è la consapevolezza che sei pieno di quella persona ma che non potrai mai più avere uno scambio con lei, che la quota parte della tua crescita che devi a lei si è fermata.

È qualcosa che ti colpisce alle spalle, inaspettatamente, quando stai facendo cose banali e le tue sinapsi ti portano un ricordo qualunque, cretino, banale… e vorresti solo avere un giorno, un’ora, anche un solo minuto di quella voce, di quella possibilità.

Sei ciò che sei anche in virtù di ciò che ti hanno dato, delle persone che ti hanno formato, che hai incontrato, che hai lasciato entrare. Il regalo che la vita ci fa è di rendere tutto questo duraturo a prescindere da tutto: lontananza, scazzi, la stessa morte. La cosa più pesante della morte di una persona è che non sia più possibile l’evoluzione, il confronto diretto.

Mio padre mi manca come mi mancherebbe un organo interno non vitale: vivi lo stesso, ma non è la stessa cosa. Sono ancora nella fase in cui si cerca un nuovo equilibrio, mi sorprendo ancora a pensare di raccontargli ciò che mi accade per avere consigli e conforto e mi accorgo che le risposte devo cercarmele in ciò che di lui mi ha dato negli anni, ma mi manca la voce e piango come una bambina in momenti intempestivi e improvvisi.

Non ho pianto mio padre, non abbastanza. Troppo dolore, troppe incombenze, troppa la maledetta razionalità che mi ha insegnato, o che ho ereditato da lui.
Non posso permettermi di rischiare di schiantarmi in mille pezzi, perché c’è chi conta su di me e merita di avermi intera.
Se c’è una cosa che mio padre mi ha insegnato, con i consigli e soprattutto con l’esempio, è che la vita va avanti, non aspetta che tu ti riprenda, che devi mantenere lucidità e ritrovare in fretta un equilibrio anche se i piatti della tua bilancia sono stati scossi violentemente. Perché non si vive mai solo per se stessi e non si ha modo e agio di perdersi se si è importanti per qualcuno.

Ogni tanto trabocco, sono umana, certo. Non la prendo come una sconfitta ma piuttosto come un fatto naturale, e vado avanti. Ogni tanto riesco anche ad essere felice senza sensi di colpa.

Non ho avuto una vita facile, di ciò che sono non mi è stato regalato nulla e ne sono orgogliosa e forse è anche questo che mi aiuta: so che ho superato tante cose difficili, alcune molto brutte. So che se oggi sono qui è anche in virtù di quello che è stato, nel bene e anche nel male.

La vita in fondo non è che la continua evoluzione di se stessi rispetto a fatti contingenti, imprevisti, occasioni, scelte.
Una volta ero proiettata sul futuro, e perdevo di vista il presente.
Una volta ero cristallizzata nel passato, e non pensavo di meritarmi un presente.
Oggi so che la vita è oggi, adesso, questo istante. Posso programmare, ma c’è sempre il margine di ciò che accade intorno. Ho imparato ad accettarlo, forse è stato l’ultimo regalo di mio padre.
Ma la voce, dio, la voce è ancora una ferita aperta.

sabato 24 dicembre 2016

Ciao papà...


Ci siamo sempre assomigliati tanto, io e te.
Stessa corporatura, stesse mani, stesse unghie, stesso carattere un po’ di merda.
Ugualmente fumini, ugualmente presuntuosi. Stesso modo di prendere fuoco se arrabbiati e di farsela passare in fretta.
Ci siamo sempre capiti al volo, alzandoci la palla per battute ironiche al limite del caustico.
Stessa abitudine di pretendere tanto dagli altri ma in prima battuta da noi stessi. Stessa incapacità di dire “non ce la faccio, arrangiatevi”.
Stessa passione nel lavoro, stessa razionalità.
Ho passato trent’anni a percularti per l’uso di excel pure per fare il caffè e oggi faccio lo stesso anche io.
Stesso bisogno di programmare e avere tutto sotto controllo.

Sai papà avevo sempre creduto che si diventasse grandi sposandosi, trovando un lavoro, comprando una casa, mettendo al mondo dei figli. In questa settimana ho capito che si diventa grandi quando ti muore un genitore, perché in prima linea ci sei improvvisamente tu, e non sei mai pronto per affrontare questo passaggio, nonostante figli, lavoro, famiglia, casa.
Perché non potrò più dire “papà ho un problema” e ascoltare consigli o spiegazioni, ma sarò io la persona cui verrà richiesto di risolvere problemi, trovare soluzioni, segnare la strada.
E a questo passaggio di consegne non si arriva mai pronti o quantomeno mai pronti del tutto.

Avrei voluto avere più tempo, vederti invecchiare; avrei voluto che vedessi crescere i Patati e diventare gli uomini che adesso sono in boccio. Invece tu resterai sempre cristallizzato in quell’età e io continuerò ad andare avanti, un po’ zoppa e un po’ più sola.

Mi hai lasciato quella che sono, con quei pregi e quei difetti che erano anche i tuoi. Mi hai dato la capacità di non perdere mai la ragione, di non arrendermi mai. Mi hai sempre detto, di fronte alle mie mille paure e insicurezze, di buttarmi: “Cosa può succedere se non va bene? Ti possono ammazzare? Ecco, no, allora vai avanti”.
E io sto andando avanti, lo farò un po’ anche per te.
Manchi immensamente, soprattutto oggi, soprattutto ora.

lunedì 21 novembre 2016

La pancia della mamma scricchiola...




… così direbbe Patato Piccolo, e avrebbe ragione.
La pancia di mamma scricchiola perché c’è ancora (per poco) un drenaggio attaccato e perché la mamma ha una piccola carta geografica di cerotti come recente memoria di una scelta precisa e decisa: quella di mettere uno stop al suo mangiare male e al suo rapporto malato con il cibo.

Quando il cibo non è più (ma lo è mai stato?) solo sostentamento ma diventa amico, consolatore, fonte di gratificazione, alibi, schermo verso il mondo… allora si ha un problema.
Io il problema ce l’ho da 26 anni e ho sempre pensato a risolverlo con “pezze” fatte di diete, consulti e varie… poi un giorno ti accorgi che non devi mettere una pezza su una cosa vecchia, quanto invece trovare la stoffa e il modello che faccia per te, per la tua storia.
E allora capisci che non devi cambiare solo ciò che mangi, ma piuttosto il perché e il come mangi.
Ed inizi un percorso, che di sicuro è in salita (ed è giusto che lo sia: non puoi pensare che la tua vita cambi drasticamente senza impegno o fatica: tutte le cose belle vanno conquistate) ma che in realtà funzionerà solo se avrai coraggio e pazienza di scavare, rimuovere, mettere in discussione tante cose.

Ecco, sono all’inizio di questo percorso. L’inizio pratico, perché quello di consapevolezza è iniziato qualche mese fa.
Sono stati mesi un po’ complicati nella Tana, gli ultimi: la prima visita, il lavoro con instamamme che non si ferma mai, un’estate fatta di mercatini, vacanze bellissime in famiglia e con amiche importanti, un settembre di ripresa, le visite ad ottobre, l’intervento martedì.

Non è un caso che io torni qui proprio adesso che finalmente ho messo un punto importante e che sia pronta a condividerlo: gli ultimi periodi sono stati pieni di dubbi e paure, inutile negarselo e credo che chiunque abbia dei figli possa capirlo benissimo.
Scegliere consapevolmente di accettare il rischio intrinseco di un intervento chirurgico è ben diverso da affrontarne uno perché costretti: hai una scelta, e stai scegliendo. Con tutto il carico di responsabilità che questo comporta verso di te, il tuo compagno, i tuoi figli, i tuoi genitori.
Poi capisci che anche loro, oltre te, meritano di avere a fianco la vera te e non il bozzolo che la imprigiona da troppo tempo. Poi li vedi sereni accettare che tu provi a migliorare la tua vita, perché semplicemente ti amano e vogliono che tu sia felice.

È questa la consapevolezza che mi ha accompagnato nel breve tratto tra la camera e la sala operatoria, martedì. Ed è stata fondamentale, senza non ce l’avrei mai fatta. Mi sono detta che se loro erano pronti a rischiare di perdermi per permettermi di essere felice, dovevo anche io amarmi allo stesso modo e concedermi la stessa possibilità.

Per cui oggi sono qui, tornata a casa e pronta ad iniziare i piccoli passi di questo grande percorso che non so ancora dove mi porterà ma che so di percorrere con chi amo e mi ama.
E no, non è affatto scontato.

lunedì 20 giugno 2016

Quando l'Italia ha ricominciato ad essere casa mia



Poco meno di un anno fa prendevo un aereo per tornare in Italia, nel mio Paese.
Per capire che questo sarebbe stato di nuovo il mio Paese ci ho messo un po', in effetti. O forse più per accettarlo che per capirlo, onestamente.
La Costa d’Avorio è stata un’occasione così importante sotto così tanti punti di vista che c’è voluto di lasciarla per riconoscere con umiltà di amarla tanto ma di non appartenerle.

Forse la consapevolezza è arrivata in una calda, si fa per dire, giornata di agosto, quando finalmente mi riavvicinavo alla Terra di Mezzo con l’occhio della memoria, dei passi fatti, dei semi lasciati cadere e ormai diventati pianticelle.
Forse la consapevolezza già nasceva nell’immaginare come quella casa avrebbe parlato di altri, o cosa di quella vita ci avrebbe seguito in questa nuova avventura.

Perché, ora posso dirlo con onestà e consapevolezza, tornare è stata l’avventura al contrario del partire, con la sostanziale differenza che partire era stato un arrivederci e tornare implicava un addio.
C’è stato da ricomporsi e ritrovare equilibri. C’è stato da riprendere una quotidianità in cui la spesa si faceva in una lingua diversa e le parole non ti venivano mai. C’è stato da inserirsi in una scuola completamente diversa per metodo e organizzazione.
C’è stata la difficilissima accettazione del vedere i nostri figli fiorire e capire che in Costa d’Avorio forse non sarebbero fioriti mai. C’è stato un Patato Piccolo che sorrideva, per la prima volta in quattro anni, nell’andare a scuola e ci sono stati immensi sensi di colpa con cui fare i conti.

Insomma c’è stato da riprendere dei fili e lasciarne indietro altri, come per ogni cambiamento. C’è stato un periodo di assestamento e uno di spaesamento, nel delirio immenso delle migliaia di cose da fare.

E poi c’è stato il momento, in qualche posto indefinito tra il sorriso di tuo figlio e la prima spesa fatta senza tradurre, in cui non solo hai capito che questa era casa tua ma l’hai vissuta come tale nella sua interezza. Che ti sei sentita a casa.
Per quel sorriso, per la spesa, per l’aria che respiri, per le strade che percorri, per tutte le emozioni che hai ritrovato senza mai aver capito di averle lasciate indietro.

C’è stato da riconoscere che questo posto del mondo, questo Paese che amo e ho sempre amato, in qualche modo aspettava il mio ritorno e io il suo abbraccio.
Perché vivere all’estero ti presenta il conto di quanto il tuo Paese non ti piaccia, per prima cosa. Poi ti insegna ad apprezzarlo. Ma te lo fa vivere sempre in differita, sempre come fosse la vita degli altri e non la tua.

L’Italia è qualcosa cui senti di far parte ma è sempre più indefinito e lontano, sfumato. La vivi per l’assenza più che per la presenza, quando vivi all’estero. Per quello che non ha saputo trattenerti.
Poi arriva il giorno in cui dentro ti nasce la tua storia con tutte le sue consapevolezze e per quanto tu la possa relegare in un angolino piccolo e nascosto, per quanto tu non sappia dargli un ambito concreto e definito, è quella storia a dirti chi sei, ovunque tu sia.

Con questo post partecipo all'iniziativa "Instamamme vuole anche te"... scopri come farlo anche tu! 

sabato 21 maggio 2016

Milano, che mi fa bene e mi fa male


Milano mi piace: mi è piaciuta in estate, deserta e con un cielo da cartolina, mi è piaciuta in un freddo capodanno con un’aria noncurante e sospesa, mi è piaciuta in questo maggio che sembra marzo, in metropolitane affollate e strade piene di turisti e persone indaffarate nei loro perché.




Questa volta, Milano è stata il mio primo MammacheBlog: un evento cui volevo assolutamente partecipare, dopo anni in differita. Un evento che mi ha fatto fare il pieno di sorrisi, di abbracci, di stimoli, di amicizia, di tante persone finalmente conosciute al di là di quello schermo che un po’ ci unisce tutte. Un evento in cui finalmente puoi toccare con mano l’impatto di ciò che hai costruito, dell’amore e dell’impegno che ci hai messo. Pare poco.



Questa volta Milano è stata una chiacchierata ad un tavolino di un bar, importante e preziosa. È stata l’abbracciare finalmente una persona con cui dividi scazzi, gioie, preoccupazioni, qualunque cosa da quattro anni, senza averla mai vista dal vivo. È stata un gruppo che ha la sua forza nella stima, nel conoscere punti forti e deboli l’una dell’altra, nel concederseli, nel perdonarseli, nello stimolarsi a mettersi in gioco, giorno dopo giorno.


Questa volta, Milano, è stata una strana quotidianità condivisa con una persona cui voglio molto bene. Sono stati momenti rubati agli impegni di ognuna, bei momenti, parole, racconti, confronto. Quelle cose che seppur brevi hanno un peso specifico enorme, nell’economia dell’esistenza.

Questa volta Milano è stata una strana autonomia cui non ero abituata: 5 giorni per me, per il mio lavoro (che mi concedo di non mettere tra virgolette, perché alla fine tale è devo essere la prima a riconoscerlo, per dargli la dignità che merita), lontana dai tre uomini più importanti della mia vita. Era già capitato, ma solo per problemi di salute. È stata una solitudine pesante e strana, fatta di sigarette per riempire un vuoto, fatta di negozi da vedere con tranquillità, fatta di voglia di condividere e mani libere da manine piccole e sudate. Forse ci si può fare l’abitudine, ma è presto.


Questa volta, Milano, è stata un’assoluta e limpida nostalgia di qualcosa che vorrei e che non avrò mai, a meno di ribaltare di nuovo tutto quanto. È stata una Milano dove tocchi le occasioni, dove il tuo lavoro avrebbe un senso decisamente diverso, dove scopri che un posto può essere un concime per ciò che stai piantando, semplicemente. Ho amato ogni viaggio in metro che mi ha portato a svolgere un lavoro, in quei giorni piovosi e un po’ pigiati di mille cose. Ho rimpianto ogni viaggio che non farò. Una scrivania in un posto bellissimo per lavorare confrontandosi con realtà diverse dalla tua ma recettive, costruttive, abituate allo scambio.

Ecco, Milano è stato tutto questo, con un piatto della bilancia che si alzava e si abbassava a seconda del contesto, della compagnia o della solitudine, del reale o del virtuale.

Milano mi ha lasciato piena di sorrisi e concretezza, di puntini di sospensione e congiuntivi. E forse, anche, un po’ vuota perché essere soddisfatti e felici è ben poca cosa se non puoi esserlo guardando in faccia chi ami.

mercoledì 30 marzo 2016

Amicizie e generazioni


Se vent’anni fa mi avessero chiesto di parlare di noi tre, avrei descritto qualcosa di simile a questo video.



La vita non ci ha mai messo in quella condizione, ma nutrivo la certezza che in caso sarebbe andata così. Che saremmo stati noi tre, che ci saremmo stati sempre, che avremmo sempre saputo come far star bene l’altro, che avremmo trovato sempre il modo, il tempo.

Noi che eravamo confidenze, sorrisi, lacrime, appunti prestati, scherzi, cose più serie.
Noi che eravamo telefonate per sfogarci, perché cercavamo aiuto, perché pensavamo che l’altro potesse averne bisogno, o solo per dirci che eravamo felici.
Non c’era niente, niente, della nostra vita che non passasse attraverso noi tre.

Abbiamo ascoltato e ci siamo fatti ascoltare. Abbiamo fatto cazzate e ne abbiamo riso. Abbiamo fatto cazzate più grandi e ne abbiamo pianto.
Abbiamo conosciuto amici, amanti, fidanzati, genitori. Ma non i figli.

Ed è stata una mancanza fatale, quella che ci ha lasciato in piedi sulla soglia e non ci ha fatto salire il gradino.

Forse siamo rimasti cristallizzati a quei tre seduti sui muretti, in fondo. Legati a quell’aspetto e a quel periodo della vita, forse abbiamo avuto paura di ammettere un cambiamento, di viverlo.
Non che non si faccia più parte della vita degli altri due. È bello sentirsi e raccontarsi, meraviglioso vedersi.
Lui è ancora quella sorta di fratello che non ho mai avuto, lei è ancora quella che apre i miei cassetti della mente, tocca e mette a posto, l’unica a cui concedo di farlo.
Ma ci manca un pezzo, un pezzo fondamentale.

Anni fa i miei figli segnarono uno spartiacque pesante e profondo: cambiarono me senza cambiare loro. Ero la prima a diventare genitore, e alla lontananza fisica si aggiunse anche quella mentale.
Avevo sempre immaginato uno scenario diverso, per noi tre. Avevo immaginato che sarebbero stati gli zii dei miei figli, una presenza “reale” e importante come lo erano stati nella mia vita… e non fu così. Per tanti motivi, senza dolo ma senza dubbio dolorosamente.

Sono ancora gli zii per i miei bimbi, perché sono io a farglieli vivere come tali, a parlargli di loro in quei termini. Spero sempre che si arrivi a ricomporre il virtuale col reale, perché alla fin fine non è colpa di nessuno, semplicemente accade che la vita ti separi un po’.

La separazione non comporta nulla in un rapporto che ha una storia: per me loro sono loro, il loro posto non è vacante né in discussione… nonostante i momenti pesanti, le recriminazioni, le delusioni che ognuno di noi potrebbe serenamente fare all’altro. Una volta avevano importanza; cresci e capisci che quello che conta, se ami qualcuno, è ciò che ti lega, non ciò che ti separa.
Per la seconda generazione del nostro rapporto la storia non è un vissuto ma un narrato, e mi assale sempre un po’ di rimpianto per qualcosa che avremmo tutti, io per prima, potuto gestire meglio.

Ci sarà tempo, ci sarà modo, lo troveremo.
Questo pensavo guardando questo video: forse quei tre ragazzi legati da un rapporto così speciale potrebbero un domani essere i nostri figli… forse no, ma è bello pensare che possa essere così.
O forse è solo il giro di boa dei quaranta che si avvicina e mi prende così. Chi lo sa.

martedì 15 marzo 2016

Grand Bassam, 13 marzo 2016.


Alcune cose che accadono ci sconvolgono più di altre, non tanto perché siamo noncuranti rispetto ad alcune, quanto piuttosto perché siamo più empatici nei confronti delle altre.
Empatia vuol dire capacità di immedesimazione, tra le altre cose.
È ovvio che più i gradi di separazione tra te e un evento, in termini di cultura, geografia, società, religione, sono alti in numero e meno sarai portato all’empatia. Potrai provare pietà, gioia o orrore, ma difficilmente potrai immedesimarti ed entrare nel cuore pulsante di una notizia, che sia bella o sia brutta.

Su quella spiaggia di Grand Bassam, fino a meno di 9 mesi fa, ci camminavo anche io. Ci passeggiavo, mi bagnavo i piedi nell’Oceano lottando con la corrente, sorridevo alle persone, compravo semi per le mie collane o parei da indossare sul costume.
In quell’Oceano mio marito faceva il bagno.
Su quelle spiagge, in quegli stessi stabilimenti, ci ho portato i miei figli quasi ogni weekend di sole.
Ce li ho portati con fiducia e con gioia, per cancellare il grigiore di una città in cui lo smog ti fa dimenticare che il cielo sa e può essere azzurro.

Se fossimo stati ancora in Costa d’Avorio, ieri saremmo stati quasi sicuramente a Grand Bassam, probabilmente proprio all’Etoile du Sud, come tante altre volte prima. Avremmo salutato il venditore di artigianato maliano, come sempre avrei finito per comprare perle e semi che già avevo ad un prezzo più alto del loro valore, fingendo di non saperlo. Saremmo stati seduti al tavolo che guarda verso l’Oceano, o forse saremmo stati in piedi a servirci per il pranzo a buffet della domenica.
E da lì avremmo visto arrivare la barca.

Quei corpi neri sulla spiaggia, fotografati nella loro disarmante crudezza, sono i corpi di persone che in qualche modo ho conosciuto, salutato, cui magari ho perfino sorriso, con cui ho fatto la fila per il pranzo o per il bagno, con cui i miei figli hanno nuotato in piscina.
Quei corpi bianchi potevano essere quelli di miei amici o di persone che hanno fatto le mie stesse identiche scelte finendo in quel luogo magari per caso, come me.
Quei corpi, tutti, indifferentemente, sono una ferita per un posto del mondo che cerca il suo riscatto e guarda ad un futuro, che sia il migliore possibile oppure no, e lo fa con fiducia.
Quei corpi, tutti, neri e bianchi, indifferentemente, sono una ferita per me, che ho amato e amo ancora di un amore contrastato e complesso un Paese che tanto mi ha dato e tanto ha voluto in cambio.

Ieri sera volevo scappare dai miei figli, per rassicurarmi di saperli al sicuro. Per rassicurami di essere al sicuro. Per cancellarmi di dosso un permeante senso di colpa per qualcosa che sarebbe potuto accadere. Per giurar loro che mai avrei pensato ci potesse essere qualcosa di così orrendo da cui doverli difendere, in quelle giornate di sole. Per farmi assolvere per qualcosa di indefinito e potenziale ma talmente enorme in peso da tenerti gli occhi aperti a tarda notte.
Non l’ho fatto, avevo paura che arrivasse loro il mio turbamento: l’empatia è una cosa importantissima, ma forse dovremmo preservarne i bambini, lasciare loro ancora la fiducia che basti la mano di mamma e papà, per essere al sicuro.

E mi fa rabbia e vergogna l’umanissimo pensiero che mi colloca felicemente lontana, e mi fa piangere e restare senza fiato quel pezzo di cuore che ho lasciato lì. Da ieri sono dolorosamente divisa tra un’assurda sensazione di fiducia tradita e un’acutissima nostalgia che mi colloca ancora su quelle strade.
Nonostante tutto, nonostante ieri, la Costa d’Avorio ci manca ancora, e credo non smetterà mai di mancarci. Ed è lì che capisci che l’unica cosa che ti salva da orrore e paura è l’amore, in tutte le sue forme.

mercoledì 3 febbraio 2016

Famiglia, limiti e libertà


Il ritorno del Marito Paziente ha portato a tanti interrogativi e tanti confronti.
Per una coppia abituata a vivere tutti gli aspetti della vita, siano quelli pratici o quelli emotivi, insieme, la lontananza è sempre destabilizzante.
Vivere due realtà diverse, in modo così diverso, ha posto interrogativi con i quali forse non ci si era mai confrontati, forse per mancanza di opportunità, forse per mancanza di coraggio.

Vivere da soli, specie se con figli “a carico”, è senz’altro impegnativo: sai che tutto ciò che c’è da fare sarà inevitabilmente sulle tue spalle. Decisioni, azioni, risposte… tutto nasce e muore con te.
Giornate piene di cose da fare o organizzare, pezzi da far combaciare, pezzi da trovare, pezzi da inventare, perfino, a volte.

Ma è più facile.

Nessun compromesso, nessun’altra esigenza da contemplare e tutelare, nessun’altra volontà da conciliare con la propria.
Una voce narrante unica, senza contraddittorio. Una sola calligrafia da rileggere, senza interpretazioni.

Ricostruire una quotidianità unica dalle due che l’hanno preceduta non è facile, soprattutto se questo consegue ad una separazione tra chi è rimasto in un posto e chi è partito, tra chi si sta dando la possibilità di vivere appieno quel posto e chi invece deve ricostruirsi altrove gettando delle basi da solo sperando che vadano bene anche all’altro.

Il ricongiungimento è compromesso, senza alternative. Lo è sempre, in realtà. Ma il permettersi di vivere, anche se solo per poco, una vita senza confronto o scontro di volontà, fa sì che quando da due si torna un’entità tutto possa diventare difficile.

Perché in quell’entità è fondamentale che ci siano, riconoscibili, tutte le parti che la compongono, con le loro caratteristiche, i loro desideri, le loro idiosincrasie, i loro gusti, i loro confini e anche i loro mutamenti.
In generale è ben più facile cedere del tutto che lottare e affermarsi, o al contrario affermarsi e lottare piuttosto che cedere del tutto. È ben più facile cambiare se stessi o chiedere all’altro di cambiare per noi, tout cour.

Ma cedere insieme, affermarsi insieme… è il nucleo di ogni rapporto sociale sano, microscopico o macroscopico che sia. Significa crescere, banalmente, ma quanto è difficile quando si cambia in modo diverso e con tempi diversi?

Cambiare l’altro è rispettarlo?
Cambiare noi stessi è rispettare l’altro?
C’è un limite superato il quale il compromesso diventa violenza? Un voler adattare la materia dell’altro alla nostra forma?
C’è un limite entro il quale è giusto adattare la propria materia alla forma dell’altro?


E allora, ragionandoci e sbattendoci il muso, scopri che la cosa peggiore che puoi chiedere all’altro è di perdersi per te, di mettersi una maschera e crearsi un personaggio che sappia recitare nel tuo teatro. Di diventare, per assecondarti, la persona che tu vuoi che lui sia e non la persona che è e in cui hai visto quel qualcosa che ti ha fatto venire in mente mondi da costruire ed esplorare insieme.

E quale che sia lo spazio compreso tra il perdere se stessi o perdere l’altro, è bene rimanere nelle acque agitate dell’umano tira-e-molla di volontà e desideri. Perché al di fuori, c’è vento di tempesta… e lo si affronta da soli.

giovedì 5 novembre 2015

There's a feeling I get when I look to the West...



…And my spirit is crying for leaving.

A volte guardo il cielo e mi pervade una strana voglia di tornare al di là del Sahara, dove una parte concreta e una eterea del mio cuore sono rimaste a battere con un ritmo che non mi è più familiare, ma non mi sarà mai estraneo.

Una sottile nostalgia, un vago senso di rimpianto per tutte le occasioni perse o non pienamente sfruttate, una sorta di innamoramento per un amante lontano e idealizzato.
C’è qualcosa che mi porta su quelle spiagge come anche in quelle strade, c’è qualcosa che mi porta a cercare le palme e a rimanere perplessa rispetto alla pelle che percepisce una stagione che di fatto non vivo appieno e nella sua interezza da anni.

L’autunno mi risuona dentro, pervaso da quella malinconia e quel romanticismo che da sempre mi appartengono e mi determinano. Ma c’è un luogo segreto, che non so identificare, dove si colloca la nostalgia per quella indeterminata mancanza di stagioni e punti di riferimento, per quel sole enorme caldissimo, per quella vita con le scarpe piene di sabbia.

A volte mi prende una specie di irrequietezza, guardo le foglie portate dal vento e forse per la prima volta in vita mia vorrei farmi portare via anche io.

La mia vita è qui e ora, ne sono cosciente.
Ma poi  c’è quella parte che trova quasi conforto nel saluto di una ragazza nera per strada; una ragazza che saluta solo me, come se mi conoscesse. Il cuore batte più forte, il sorriso risponde al saluto, i passi proseguono il cammino, insieme più stanchi e più sereni. Certamente più incerti.