venerdì 27 maggio 2016

Maternità e lavoro


C’era una volta una bambina che sognava di fare la mamma, un po’ come tutte le bambine col vestitino a balze e i codini.
Poi c’è stata una ragazzina che voleva fare l’architetto, modificare lo spazio, controllare l’indefinito.
Poi è arrivata una ragazza che voleva essere entrambe le cose, con la stessa urgenza e la stessa passione.
Infine, ecco una giovane donna che voleva essere madre, e il resto che si arrangi.

La donna adulta che oggi è dietro a questa tastiera, le guarda e le contiene tutte e quattro e sorride. Un sorriso un po’ amaro, perché la vita non è mai quell’equazione certa che credi possa essere fino a che non ti ci lasci inzuppare un po’.
Un sorriso aperto e onesto, perché nonostante tutto, ha trovato un equilibrio.

Ha scoperto che fare solo la mamma non le sarebbe bastato mai.
Ha scoperto che non seguire i suoi figli non fa per lei, non delegherebbe mai a nessuno il suo ruolo di educatrice, consolatrice, confidente. Ed è stata una scoperta sorprendentemente recente.



Ogni cosa arriva quando sei pronto a riconoscerla, e accettarla. Per me ci sono voluti anni di mutilazioni dell’ego e della stima di sé stessi per accettare che la prospettiva di essere “solo” la madre dei miei figli mi facesse venir voglia di fuggire lontano. E no, non sto scherzando.

Ho vissuto la maternità come una bellissima prigione dorata, pur avendo voluto e cercato entrambi i miei figli, forse a causa del presupposto sbagliato: pensavo che la maternità sarebbe stata la mia realizzazione… Ma la maternità non è qualcosa che ci appartiene, è il creare qualcosa che appartiene al mondo, che non controlli, che non deve realizzare te quanto sé stessa, grazie anche a te.


Un figlio non può essere una realizzazione, è e deve rimanere troppo sé stesso per realizzare te.
Anni di disagio per capirlo, o meglio per accettarlo. Anni in cui ti senti la peggiore delle madri perché hai concettualmente bisogno di tempo da adulti e invece passi le giornate col cubotto parlotto. E non sei felice.
Certo, la scolarizzazione dei miei figli, iniziata al nido, ha contribuito alla mia sanità mentale, ma mancava la difficilissima fase di accettazione della differenza tra come ti immaginavi e come invece hai scoperto di essere. Per cui ok, senza bimbi perché a scuola, ma anche senza scopi.

Il mondo del lavoro non ama le madri, scioccamente e banalmente, figuriamoci quanto possa amarne una che deve ricominciare da zero dopo due maternità e in un periodo di crisi del suo settore. Così ero a casa, a sentirmi la peggiore delle madri, again, perché nonostante i miei figli fossero a scuola e avessi tempo, non riuscivo a trovare il mio spazio, l’oasi felice della mia realizzazione.

Cosa sai fare? Mah, scrivere, dicono. Ok. Te la senti? No.
Altre cose? Ho fantasia. Imparo in fretta.
Ed è così che ho ripreso in mano la mia passione per l’artigianato, scoprendo nuovi materiali, perfezionando tecniche, inventandomi qualcosa di nuovo e proponendolo nei mercatini. Amo la gente, amo lo scambio, amo mettere la faccia in ciò che faccio.

Quando la cosa stava iniziando a diventare più seria, avevo gettato delle basi, iniziavo a essere conosciuta almeno in ambito locale… siamo partiti.
Dire che l’abbia presa male, sotto questo aspetto, è un blando eufemismo: ero arrabbiata, delusa, scazzata… santo subito il lavoro di mio marito, ancora più santo perché era grazie a quello che stavamo vivendo quella realtà che poi ci avrebbe cambiato la vita, ma perché dovevo essere sempre io a rinunciare, a ricominciare, a ricostruire?
Siamo arrivati ad un passo dal divorzio, in quel periodo. E anche su questo, non sto scherzando.



Poi è arrivato Instamamme. Il mio lavoro.
È arrivato come un gioco, qualcosa in cui buttarsi perché tanto di tempo ne avevo, cosa potevo perderci?
È arrivato senza crederci troppo… ma dai, io che lavoro in gruppo? Con altre donne, poi. Non ho la costanza, non l’avrò mai. Non ho la pazienza, la conciliazione.
Però non avevo nulla da perdere, e mi sono detta “proviamo”.

E siamo ancora qui.
Oggi instamamme non mi fa pagare le bollette, ma mi rende contenta del tempo che gli dedico e del tempo che dedico ai miei figli, in uno strano equilibrio in cui mamma c’è ma sta lavorando oppure mamma c’è perché c’è bisogno che ci sia e pace; in cui se non posso lavorare oggi, lo farò stanotte. In cui il nostro datore di lavoro siamo noi stesse, ognuna con sé stessa e con le altre.

Oggi i miei figli considerano Instamamme un lavoro, e non solo perché mi occupa parte delle giornate o mi distoglie da loro. Ne fanno parte anche loro, si sentono coinvolti, vengono coinvolti, capiscono e apprezzano l’impegno che mi vedono mettere in quello che faccio, capiscono la stanchezza, apprezzano il risultato quando viene loro presentato.
È questo che rende instamamme il mio lavoro ed è curioso e bellissimo notare che non solo ha in qualche modo avuto origine dall’essere madre, ma ci si confronta ogni giorno.

Ognuno di questi due ambiti, la maternità e il lavoro, mi permette di migliorare me stessa nell’altro: sono una mamma migliore perché sono felice, sono una lavoratrice migliore perché l’essere madre mi fornisce stimoli e fa trovare soluzioni e conciliazioni che prima non avrei neanche mai preso in considerazione.


Diciamo che ho trovato un equilibrio, qualcosa che mi permetta di scegliere, di non delegare, che non mi faccia sentire prigioniera di un ruolo o di un lavoro in cui a dettare condizioni e tempi non sia io. Non è poco, davvero.
È fortuna, impegno e forse un pizzico di follia. Ma questo solo la donna matura poteva saperlo.



Con questo post partecipo all'iniziativa "Instamamme vuole anche te"... scopri come farlo anche tu! 

sabato 21 maggio 2016

Milano, che mi fa bene e mi fa male


Milano mi piace: mi è piaciuta in estate, deserta e con un cielo da cartolina, mi è piaciuta in un freddo capodanno con un’aria noncurante e sospesa, mi è piaciuta in questo maggio che sembra marzo, in metropolitane affollate e strade piene di turisti e persone indaffarate nei loro perché.




Questa volta, Milano è stata il mio primo MammacheBlog: un evento cui volevo assolutamente partecipare, dopo anni in differita. Un evento che mi ha fatto fare il pieno di sorrisi, di abbracci, di stimoli, di amicizia, di tante persone finalmente conosciute al di là di quello schermo che un po’ ci unisce tutte. Un evento in cui finalmente puoi toccare con mano l’impatto di ciò che hai costruito, dell’amore e dell’impegno che ci hai messo. Pare poco.



Questa volta Milano è stata una chiacchierata ad un tavolino di un bar, importante e preziosa. È stata l’abbracciare finalmente una persona con cui dividi scazzi, gioie, preoccupazioni, qualunque cosa da quattro anni, senza averla mai vista dal vivo. È stata un gruppo che ha la sua forza nella stima, nel conoscere punti forti e deboli l’una dell’altra, nel concederseli, nel perdonarseli, nello stimolarsi a mettersi in gioco, giorno dopo giorno.


Questa volta, Milano, è stata una strana quotidianità condivisa con una persona cui voglio molto bene. Sono stati momenti rubati agli impegni di ognuna, bei momenti, parole, racconti, confronto. Quelle cose che seppur brevi hanno un peso specifico enorme, nell’economia dell’esistenza.

Questa volta Milano è stata una strana autonomia cui non ero abituata: 5 giorni per me, per il mio lavoro (che mi concedo di non mettere tra virgolette, perché alla fine tale è devo essere la prima a riconoscerlo, per dargli la dignità che merita), lontana dai tre uomini più importanti della mia vita. Era già capitato, ma solo per problemi di salute. È stata una solitudine pesante e strana, fatta di sigarette per riempire un vuoto, fatta di negozi da vedere con tranquillità, fatta di voglia di condividere e mani libere da manine piccole e sudate. Forse ci si può fare l’abitudine, ma è presto.


Questa volta, Milano, è stata un’assoluta e limpida nostalgia di qualcosa che vorrei e che non avrò mai, a meno di ribaltare di nuovo tutto quanto. È stata una Milano dove tocchi le occasioni, dove il tuo lavoro avrebbe un senso decisamente diverso, dove scopri che un posto può essere un concime per ciò che stai piantando, semplicemente. Ho amato ogni viaggio in metro che mi ha portato a svolgere un lavoro, in quei giorni piovosi e un po’ pigiati di mille cose. Ho rimpianto ogni viaggio che non farò. Una scrivania in un posto bellissimo per lavorare confrontandosi con realtà diverse dalla tua ma recettive, costruttive, abituate allo scambio.

Ecco, Milano è stato tutto questo, con un piatto della bilancia che si alzava e si abbassava a seconda del contesto, della compagnia o della solitudine, del reale o del virtuale.

Milano mi ha lasciato piena di sorrisi e concretezza, di puntini di sospensione e congiuntivi. E forse, anche, un po’ vuota perché essere soddisfatti e felici è ben poca cosa se non puoi esserlo guardando in faccia chi ami.