venerdì 31 gennaio 2014

Con parole altrui #3. Mia Martini



Ci sono canzoni che entrano nella tua vita al momento giusto.
Che scoperte in qualsiasi altro momento non darebbero la stessa comprensione, emozione.
Che in quel preciso momento storico della tua esistenza esprimono esattamente quello che hai dentro.

Questa canzone è una di quelle.
È una lettera d’amore, un’invocazione, un monologo che una donna dedica al suo compagno. L’ho scoperta per caso, una mattina di marzo credo, in una compilation a studio a Sboronia, due mesi prima di sposarmi, più o meno.
Per quanto io e il (futuro) Marito (ma già convivente) Paziente stessimo insieme da più di un decennio e dividessimo letto, cucina e bagno da più di un anno, la prospettiva del matrimonio mi emozionava tantissimo. E no, non mi emozionavano i fiori, le bomboniere, la musica, gli inviti e tutto il corollario che rende un matrimonio una cosa fiabesca… mi emozionava proprio il matrimonio, quell’atto attraverso il quale saremmo stati, di lì a breve, ufficialmente responsabili l’uno dell’altra, staccando quel cordone ombelicale giuridico che ancora vedeva i nostri genitori in un ruolo che volevamo avesse la persona amata.

Questo dono che ci siamo fatti di noi stessi, questa fiducia riposta nell’altro totalmente, mi aprivano nuovi orizzonti davanti, forse fu per quello che notai quella canzone tra tutte, per il titolo: l’amore è il mio orizzonte.
Poi ne sentii il testo e capii che sarebbe stata la colonna sonora di quell’evento, per me. Valutai anche se cantarla, se trovare uno spazio per lei attraverso la mia voce e dedicarla a mio marito, poi rinunciai: la mia ansia da palcoscenico sarebbe stata troppo grande da gestire, in quel momento.

Ricordo che la copiai anche nel mio blog di allora, per non perderla, per legarla a quel momento, per farla mia, per farla nostra.
Da allora, è la canzone che maggiormente mi ricorda quel patto che abbiamo stipulato ormai quasi 8 anni fa, me ne ricorda l’essenza, la volontà e la gioia. Mi ricorda la bellezza di dividere la vita con la persona che ami, l’affidargli te stessa, le paure, le speranze, il passato, il futuro.
Una bellissima esortazione al vivere l’amore senza remore, dando all’altro la possibilità di svelarci per come siamo e non per come pensiamo l’altro ci voglia.
In questo caso specifico, l’interpretazione è fondamentale per rendere al meglio il testo e la voce di Mia Martini la rende quasi “viva”. Vi consiglio di ascoltarla leggendo il testo: secondo me sono un connubio perfetto.

L’amore è il mio orizzonte – Mia Martini

Aprimi come un giglio
aprimi come una finestra al sole
disegna le tue idee con le dita sulla mia pelle.
Come ad una lampada a pezzi
ridammi il chiarore
ricostruiscimi con le tue mani
lascia impazzire nella mia mente perdute emozioni.

Carezza con lo sguardo nuove colline
fammi arrossire con le parole più strane d'amore
ferma quell'orologio che batte nella mia fronte
l'amore è, l'amore è il mio orizzonte.

Aprimi come un foglio
leggi tra le pagine degli occhi,
piega il mio orgoglio
brucia tutti i miei vestiti vecchi
fammi bella senza nubi
come un cielo di gabbiani
ricostruiscimi con le tue mani
lascia cadere nel caffè del mattino nuovi domani.

La mia malattia è il tuo nome
parlar d'amore oggi mi sembra banale, eppure
ferma quell'orologio che batte nella mia fronte
l'amore è, l'amore è il mio orizzonte.






Vi piace l'idea di condividere testi, canzoni, poesie, prose che vi han fatto riflettere su qualcosa o che hanno segnato il vostro percorso? Fatelo anche voi!
Fate un post che parli di questa iniziativa, linkate questo post, su Facebook e Instagram, se li usate e volete condividere, usate l'hashtag #LTAconparolealtrui e #latanaafricana e mettete il link nei commenti a quel post, così che io possa "ritrovarvi".
Scoprirsi attraverso le nostre emozioni e l'interpretazione di parole di altri, può essere bellissimo e costruttivo, facciamolo insieme!

giovedì 30 gennaio 2014

La diversità in un mondo di diversi



Gli ivoriani sono molto tolleranti con gli stranieri. Davvero.
In due anni che sono qui, nessuno mi ha mai fatto sentire diversa, anzi, hanno tutti capito le mie difficoltà linguistiche e mi hanno aiutato parlando piano e usando termini semplici, non appena dicessi “non parlo bene il francese”.
So per certo che la mia diversità li incuriosisce: quando guardano la mia pelle piena piena di efelidi, non lo fanno con sospetto ma con genuina curiosità: cosa sono quelle macchie? Perché le hai? Ma poi vanno via? Quello che non mi è chiaro, invece, è come si pongano nei confronti della diversità endogena.
Mi è stato detto che qui, tra loro, non siano così tolleranti.

C’è ovviamente, in posti del mondo come questo, un substrato culturale legato a superstizioni, che di solito si accompagna a scarsa alfabetizzazione  e scarse possibilità economiche. Per persone che ragionano in maniera tribale (dove “tribale” non ha il valore negativo di “retrogrado”, come viene -troppo- spesso usato in occidente, ma quello naturale ed etimologico di “appartenente ad una tribù”), il “diverso” può essere interpretato come un pericolo, un qualcosa che minaccia la propria identità, o addirittura come un qualcosa legato alle superstizioni (immaginate la nascita di un bambino con una disabilità evidente, ad esempio, che potrebbe essere addirittura interpretata come un segno mandato dal divino: qualche centinaio di anni fa, forse anche poco più di uno, anche in alcune zone d’Italia queste cose accadevano ancora eh). È dura la vita di chi ha sulle spalle un peso simile.

È per esempio il caso degli albini. Avete mai visto un nero albino? In occidente, mai. Qui ovviamente ci sono. Sono dei neri-bianchi: fattezze, tipo di capelli, corporatura autoctona, ma biondi e con la pelle perfino più chiara della mia. Sono “diversi”, e lo sono sia rispetto ai neri, cui è stato inculcato che i diversi sono loro, anche a casa loro, che rispetto ai bianchi, che si sono, da conquistatori, accaparrati il diritto di decidere cosa sia la “normalità”, più o meno ovunque.

Storie che non ho modo di verificare e che si raccontano a mezza bocca, parlano di sacrifici umani, qui, ancora. Ovviamente non ad Abidjan, diciamo nei villaggi, quelli più lontano dai centri urbani.
Non sacrifichi alla divinità, comunque tu la intenda e con qualunque nome tu la chiami, il tuo uomo migliore, sacrifichi il più debole, quello con meno chances, il malato, la donna sterile, lo storpio, il diverso: quello che, a livello istintivo, preferisci non perpetui la specie.
Le società animali sono piene di cose del genere, quella umana si è evoluta in termini di solidarietà sociale e vede la diversità in maniera diversa, ma non sempre: l’accettazione del diverso è una conquista tragicamente recente, a livello culturale.
Certo, il occidente non si fanno (tranne, nel caso fosse vero, a quanto si dice, poche eccezioni portate avanti da pazzi esaltati) sacrifici umani, ma la diversità, in molti ambiti, fa paura ancora oggi.
Così, tornando al discorso principale, se nella mia cultura esiste ancora il concetto di sacrificio, sacrifico la seconda scelta, il diverso, l’albino.

Quando vedo questi ragazzi o bambini per strada (in due anni MAI visti albini più grandi, e questa cosa unita alle voci che ho sentito, mi dà i brividi), provo sempre una gran pena: c’è una società che, se culturalmente elevata, può accettarli ma che istintivamente non li riconosce come parte di se stessa e una che non è pronta ad inserirli nella sua quotidianità. Sono “diversi” qui, sono “diversi” in occidente, sono “diversi” ovunque: hanno caratteristiche che li legano ad entrambe le razze (che poi che brutta parola, “razza”) ma non sono identificabili univocamente in nessuna delle due.
Appartengono alla razza umana: questo dovrebbe bastare per cancellare la loro, e quella di molti altri, diversità.
Temo tristemente che, per questa tappa culturale-evolutiva buona parte del mondo, purtroppo, non sia ancora affatto pronta.

martedì 28 gennaio 2014

Giocare



Si dice spesso che i bambini devono. Devono imparare, essere educati, rispettosi, evitare di sporcarsi, parlare per bene, imparare a leggere e scrivere, sapere disegnare, fare sport, imparare a suonare uno strumento e via così fino a “renderci fieri di loro”.
Un delirio di corbellerie.
I bambini non devono fare nulla di tutto questo: possono fare alcune di quelle cose e, con il nostro aiuto, ed esempio, soprattutto, imparare a farne altre e a relazionarsi col mondo in maniera sana.
I bambini devono fare una cosa sola: essere bambini.

Ci sono bambini, in questa realtà difficile, che non possono essere bambini, che la guerra, o la povertà, o una cultura che vede l’attenzione parentale in maniera diversa, spinge verso un lavoro, verso lo svendere oggetti e se stessi più o meno sulla stessa strada che porta i miei figli verso il mare. C’è gente, qui, che non esita ad offrirti una poco più che bambina come un piacevole svago tra un bagno e l’altro in piscina, e non puoi farci nulla.
In certe zone del mondo i bambini nascono già con gli occhi pieni di brutture e le spalle curve dei vecchi. La cosa brutta è che non puoi farci, concretamente, praticamente nulla. Puoi salvarne uno, dieci, cento, un milione, ma il cambiamento deve essere mentale e culturale e ha, purtroppo, bisogno di tempo.
L’altro giorno stavo facendo notare proprio questo ai Patati: quanto siano fortunati, quanto ci siano nel mondo (e loro lo vedono ogni giorno) bambini che, al contrario, non possono andare a scuola, imparare, divertirsi e giocare.

Ecco, giocare.
I bambini, se esiste un “devono”, devono giocare. Possono, attraverso il gioco, capire come esprimere se stessi, in positivo o in negativo, possono capire quali sono le loro  aspirazioni, i loro interessi, possono scoprire parti di se stessi semplicemente giocando.
Il gioco è da sempre la manifestazione di qualcosa di interiore: il nostro modo, adulti o bambini che siamo, di giocare, a qualsiasi gioco, dice molto di noi, di come ci relazioniamo con gli altri, di come reagiamo agli imprevisti, alle sfide, di come viviamo il perdere e il vincere.
Il gioco che da piccoli è scoperta e coscienza dei propri limiti, da grandi è consapevolezza e sfida. Non bisognerebbe mai smettere di giocare, da soli, con gli amici, coi figli, con persone conosciute da poco, con chiunque.

In casa Latana, oltre ai giochi dei bambini (ne ho parlato, indirettamente, qui), abbiamo anche giochi per noi: di società o di carte, in genere. Giocare con altre coppie, la sera, ha aiutato molto a fare gruppo e a conoscersi. In Italia, facevamo, quando era possibile, lo stesso (memorabile una partita a scarabeo con la fra con le contrazioni mentre si aspettava di andare in ospedale per la nascita del Patato primogenito).
Insomma il gioco, se ne si accetta i limiti e le possibili sconfitte, è un’attività che contraddistingue sì i bambini, ma che dovrebbe rimanere sottilmente permeante anche nella vita degli adulti. Chi gioca, e gioca per il gusto di giocare, è generalmente una persona allegra e vitale.


Con queste premesse non vi stupirà che la fra, appena messo piede, o giù di lì, nel patrio territorio, si recherà ad Expogames, la prima manifestazione del gioco e del fantasy, e lo farà da blogger ufficiale dell’evento (che emozione!!!). Questo significa che la fra si tufferà in un mondo meraviglioso e pieno di gente allegra, cosplayers, giochi di tutti i tipi, libri e riviste di settore!
Ma soprattutto la fra entrerà in un mondo in cui nessuno giudica “infantile” la sacrosanta passione per l’immedesimazione, per il gioco in tutte le sue forme, da quello di carte a quello di ruolo… sembra una cosa banale, ma non lo è. La dimensione del gioco non è, come molti vogliono insinuare, l’ambito in cui si manifesta la “sindrome di Peter Pan”, bensì un qualcosa di molto più articolato e complesso che rimanda all’aspetto dionisiaco della vita, al confronto, alla libertà di divertirci senza condizionamenti esterni, prendendoci una pausa dalla vita di tutti i giorni.

Il gioco è libertà di essere e solo chi è “libero”, in realtà, può giocare. Un aspetto della vita da non sottovalutare, e soprattutto da non dare per scontato, mai.

lunedì 27 gennaio 2014

Ricordi e piaghe da tenere aperte


Giornata della Memoria.
Io oggi voglio mettere il dito nella MIA memoria.
La mia memoria di ragazza diciottenne in visita ad un posto di cui non si parlava, nel suo libro di storia.
Un posto che rappresentava un pezzo di Storia, di quella più brutta, più crudele, più follemente brutale. Una Storia che a leggerla, in quel famoso libro di storia, aveva causato turbamento e aveva causato lacrime nel ripeterla, davanti alla classe e all’insegnante.

Alla Risiera di San Sabba, in quella mattina d’estate, non arrivarono le lacrime. L’orrore, lo stupore, il bagno gelido di realtà congelarono anche quelle.
Arrivò un silenzio denso, arrivò uno specchiarsi negli occhi di Fidanzato Storico e vedere lo stesso sentimento indecifrabile e indescrivibile che si agitava dentro, che non trovava parole adatte ad uscire fuori.

In quelle celle buie ho letto storie, immaginato disperazioni e flebili speranze.
In quel cortile grande, assolato, chiarissimo, ho visto il percorso scavato, ho visto la sagoma sul muro e ho visto gli occhi di quell’Uomo, che ancora era mio nonno, riempirsi, anni prima, in un dove tedesco e diverso, di comprensione e orrore.
In quel cortile, quasi vent’anni fa, mi chiesi come fanno occhi che si son spaccati di disumanità a ricomporsi e vedere la vita ancora come qualcosa di bello, come si sopravvive a un pezzo di vita così annichilente, brutto, ingiusto, bastardo. In quel cortile capii i racconti di mia madre e mia zia su un padre freddo, con manie di controllo, rigido, un padre preso più ad aggiustare se stesso, probabilmente, che a costruire e vivere la famiglia.

In quel cortile, poi, feci un passo verso il basso e, nel percorso scavato a terra, seguii una strada che molti, troppi, prima di me avevano seguito. Un percorso su gambe altrui, senza più un cuore a dare ritmo, senza più una volontà, corpi abbandonati, annientati, uccisi, corpi senza pietà di una sepoltura dove poter portare fiori, con la prospettiva di essere portati dal vento, come le foglie.

Tra me e quella ragazza ci sono venti anni di crescita, consapevolezza, esperienze, confronti; ci sono due figli e un Fidanzato Storico che ora è un Marito Paziente. Ma la fotografia di quel cortile è ancora tutta nei miei occhi, intatta, integra e in grado, ogni volta, di fare increspare la pelle, di causare lacrime e di far crescere un fiotto d’aria dentro dandogli la forma di una sola sillaba, no.

Io oggi voglio mettere il dito nella mia memoria, come fosse una piaga. È una piaga che non voglio smetta mai di esistere e di far male; è una piaga che voglio ricordare ogni qual volta mi verrà la tentazione di negarmi cose che mi fanno troppo male o che non comprendo. È una piaga che voglio faccia male quando qualcuno cercherà di farmi credere che il mio benessere possa o debba passare attraverso lo stare male di altri.
È una piaga che fa parte della Storia, della storia di tante persone che non conosco, della storia di mio nonno.
È una piaga che mi porto addosso e dentro con l’orgoglio di non volerla dimenticare, una piaga che tramanderò, affinché questa memoria continui a far male, come deve.

venerdì 24 gennaio 2014

Con parole altrui #2. Shakespeare.



Stavolta andiamo a casa di uno scrittore, un Signor Scrittore. Shakespeare.
L’Amleto è tuttora uno dei miei libri preferiti, trovo che abbia un’intensità fuori dal comune, un qualcosa che può insinuarsi e entrare dentro. Certo, non è un libro che puoi leggere come se leggessi un normale libro di narrativa: ha bisogno di essere assaporato e digerito pezzetto per pezzetto.

L’Amleto è così vasto e mi sarebbe così difficile spiegare cosa me lo rende caro, che non posso esprimerlo qui, in parole: gli farei un torto.
Da giovane, tipo 20 anni fa (argh), trovavo che la massimo espressione shakesperiana fosse nelle tragedie, in queste rappresentazioni così ricche di emozioni da non poter rimanere sulla carta, da dover essere espresse anche attraverso il corpo, i movimenti, il tono della voce, lo scambio di emozioni sul palco e sotto il palco.

I sonetti shakespeariani li avevo un po’ snobbati, forse perché per apprezzare la delicatezza c’è bisogno di più maturità: le emozioni più nette si fanno nostre facilmente, quelle accennate, cui devi metterci anche un pezzo della tua anima o della tua vita sopra, ecco quelle hanno bisogno di una vita che sia arrivata ad un punto fisso, ad un porto, una baia, un luogo meno tormentato dei propri 17 anni, in cui hai ancora davanti un oceano e ancora non hai scoperto che saper nuotare non ti basterà.
Così quei sonetti son rimasti lì, in una memoria scolastica ormai sbiadita.

Poi è arrivato un film, un film senza pretese culturali, scorrevole ma che offre molti interessanti spunti di riflessione. Il film in questione, che mi è stato prestato, è Viva l’Italia, un film di Massimiliano Bruno, del 2012, di cui vi consiglio la visione perché bello e amaro e soprattutto specchia una realtà sociale italiana che molti troveranno banale, ma che per me ha senso sia affermata e ben compresa nelle sue conseguenze, in tutti i modi.
Detto questo, una dei protagonisti del film, Ambra Angiolini, verso la fine del film fa un provino in cui declama un sonetto di Shakespeare, peraltro anche bene, a mio parere.
Il sonetto in questione è il numero 75, la traduzione dovrebbe essere quella di Marelli.
È stato amore, da subito.
Non oso commentarlo, per paura di sporcarlo, di renderlo più accessibile: un sonetto come questo deve accarezzarti l’anima e devi trovarci qualcosa di tuo dentro, per capirlo a fondo, altrimenti resta qualcosa da baci perugina, per capirci. Se fa risuonare le tue corde, e non è detto che lo faccia, ci troverai pura poesia, altrimenti lo leggerai come avresti potuto leggerlo a 17 anni, perdendoti qualcosa, molto. Le cose ci emozionano a seconda della nostra sensibilità e del nostro vivere pregresso, e ciò che emoziona me potrebbe essere banale per gli altri, senza problemi né drammi.
Consiglio una lettura ad alta voce, cercando di seguire le pause date dalla punteggiatura. Io lo trovo immenso.


Sonetto LXXV “Tu sei per la mia mente…” di William Shakespeare (trad. Marelli?)

Tu sei per la mia mente come il cibo per la vita,
Come le piogge di primavera sono per la terra;
E per goderti in pace combatto la stessa guerra
Che conduce un avaro per accumular ricchezza.

Prima orgoglioso di possedere e, subito dopo,
Roso dal dubbio che il tempo gli scippi il tesoro;
Prima voglioso di restare solo con te,
Poi orgoglioso che il mondo veda il mio piacere.

Talvolta sazio di banchettare del tuo sguardo,
Subito dopo affamato di una tua occhiata:
Non possiedo né perseguo alcun piacere
Se non ciò che ho da te o da te io posso avere.

   Così ogni giorno soffro di fame e sazietà,
   Di tutto ghiotto e d’ogni cosa privo.




Vi piace l'idea di condividere testi, canzoni, poesie, prose che vi han fatto riflettere su qualcosa o che hanno segnato il vostro percorso? Fatelo anche voi!
Fate un post che parli di questa iniziativa, linkate questo post, su Facebook e Instagram, se li usate e volete condividere, usate l'hashtag #LTAconparolealtrui e #latanaafricana e mettete il link nei commenti a quel post, così che io possa "ritrovarvi".
Scoprirsi attraverso le nostre emozioni e l'interpretazione di parole di altri, può essere bellissimo e costruttivo, facciamolo insieme!