Abidjan è,
come tutte le città grandi, caotica e chiassosa.
Se alla normale rumorosità dei grandi centri abitati uniamo anche la spiccata attitudine al suono ed al rumore degli autoctoni, si ottiene un collage di suoni incredibili.
Gli ivoriani hanno, come praticamente tutti gli africani, un passato tribale, fatto di danze, canti, suoni, urli. Tutte queste cose sono state represse, prima o poi, dall’uomo bianco colonizzatore. Ciò che ne rimane lo vedi nel muoversi sinuoso delle donne che camminano, ovunque, nel fare ritmo con qualsiasi cosa e nell’uso smodato del clacson.
Visto il costo di acquisto e di manutenzione (per quanto il concetto di manutenzione sia completamente avulso dalla mentalità locale), la stragrande maggioranza di persone usa i taxi, come mezzo di locomozione. I taxi abidjanesi sono reperti archeologici europei, che dopo aver finito la loro vita dignitosa in occidente, vengono ad esalare l’ultimo respiro nel continente nero. L’Africa è il cimitero degli elefanti, per le nostre macchine.
Resta il fatto che questi migliaia di taxi, presenti in ogni luogo della città e dalla provenienza individuabile attraverso il colore (quelli del nostro quartiere sono arancioni, quelli di Marcory, quartiere oltre laguna, sono verdi, per dire), inquinano come la morte e usano il clacson come noi usiamo la bocca.
I taxi abidjanesi suonano e strombazzano per comunicare a chiunque passi per strada (ancorché quello si stia facendo i ricchi cavolacci suoi eh) che sono liberi (anche quando ti hanno appena visto parcheggiare e scendere dalla TUA macchina), suonano per ottenere la precedenza, per dare la precedenza, per comunicare che non intendono fermarsi e se non ti sbrigherai ad attraversare ti falceranno senza pietà (la dura legge della jungla, qui, per i pedoni); suonano per salutare una persona che conoscono, che sia un altro tassista o una persona che sta camminando, suonano per dirti di sbrigarti, suonano per comunicarti che andranno piano. Suonano per qualsiasi cosa, secondo me ormai il gesto è talmente automatico che lo ripetono anche a casa.
Oltre ai taxi, hanno ovviamente preso questo tipo di abitudine anche i guidatori di macchine proprie, che sono meno aggressivi dei tassisti al volante, ma che usano il clacson anche per farsi aprire i cancelli o per comunicare al parcheggiatore che han bisogno di una mano. Chiunque qui abbia abbastanza soldi, perde l’uso delle gambe per eventualmente scendere dalla macchina (il guardiano della casa avrà diritto di andare in bagno, no? Ecco allora non ti attaccare al clacson: scendi e apriti ‘sto cancello per una volta!), delle dita per aprire il finestrino e della bocca per parlare (spesso anche solo per dire un semplice bonjour eh). Fa rabbia notare che anche gli occidentali abbiano di queste tendenze.
Non parliamo proprio delle macchine “militari”: ogni macchina, che sia dell’esercito o della “gendarmerie” o di quello che gli pare, viaggia a clacson o sirene spiegate perché non so quale mondo debba andare a salvare (ora, se c’è traffico ok, ovvio, ma se non c’è, perché?) e soprattutto con quale fretta.
Se alla normale rumorosità dei grandi centri abitati uniamo anche la spiccata attitudine al suono ed al rumore degli autoctoni, si ottiene un collage di suoni incredibili.
Gli ivoriani hanno, come praticamente tutti gli africani, un passato tribale, fatto di danze, canti, suoni, urli. Tutte queste cose sono state represse, prima o poi, dall’uomo bianco colonizzatore. Ciò che ne rimane lo vedi nel muoversi sinuoso delle donne che camminano, ovunque, nel fare ritmo con qualsiasi cosa e nell’uso smodato del clacson.
Visto il costo di acquisto e di manutenzione (per quanto il concetto di manutenzione sia completamente avulso dalla mentalità locale), la stragrande maggioranza di persone usa i taxi, come mezzo di locomozione. I taxi abidjanesi sono reperti archeologici europei, che dopo aver finito la loro vita dignitosa in occidente, vengono ad esalare l’ultimo respiro nel continente nero. L’Africa è il cimitero degli elefanti, per le nostre macchine.
Resta il fatto che questi migliaia di taxi, presenti in ogni luogo della città e dalla provenienza individuabile attraverso il colore (quelli del nostro quartiere sono arancioni, quelli di Marcory, quartiere oltre laguna, sono verdi, per dire), inquinano come la morte e usano il clacson come noi usiamo la bocca.
I taxi abidjanesi suonano e strombazzano per comunicare a chiunque passi per strada (ancorché quello si stia facendo i ricchi cavolacci suoi eh) che sono liberi (anche quando ti hanno appena visto parcheggiare e scendere dalla TUA macchina), suonano per ottenere la precedenza, per dare la precedenza, per comunicare che non intendono fermarsi e se non ti sbrigherai ad attraversare ti falceranno senza pietà (la dura legge della jungla, qui, per i pedoni); suonano per salutare una persona che conoscono, che sia un altro tassista o una persona che sta camminando, suonano per dirti di sbrigarti, suonano per comunicarti che andranno piano. Suonano per qualsiasi cosa, secondo me ormai il gesto è talmente automatico che lo ripetono anche a casa.
Oltre ai taxi, hanno ovviamente preso questo tipo di abitudine anche i guidatori di macchine proprie, che sono meno aggressivi dei tassisti al volante, ma che usano il clacson anche per farsi aprire i cancelli o per comunicare al parcheggiatore che han bisogno di una mano. Chiunque qui abbia abbastanza soldi, perde l’uso delle gambe per eventualmente scendere dalla macchina (il guardiano della casa avrà diritto di andare in bagno, no? Ecco allora non ti attaccare al clacson: scendi e apriti ‘sto cancello per una volta!), delle dita per aprire il finestrino e della bocca per parlare (spesso anche solo per dire un semplice bonjour eh). Fa rabbia notare che anche gli occidentali abbiano di queste tendenze.
Non parliamo proprio delle macchine “militari”: ogni macchina, che sia dell’esercito o della “gendarmerie” o di quello che gli pare, viaggia a clacson o sirene spiegate perché non so quale mondo debba andare a salvare (ora, se c’è traffico ok, ovvio, ma se non c’è, perché?) e soprattutto con quale fretta.
Insomma tra i taxi e le macchine normali qui ad Abidjan c’è una cacofonia atroce, in strada.
Noi ormai siamo talmente abituati a questo concerto continuo che non solo non lo percepiamo più, ma addirittura quando torniamo in Italia tutto ci sembra più ovattato e gradevole. Mentre prima il suono del clacson dietro di noi ci faceva porre dubbi, accelerare, insomma in qualche modo scatenava un’azione concreta o meno, ora semplicemente lo ignoriamo, come ormai siamo abituati a fare qui.
Si direbbe che questa città sia una sorta di palestra acustica, tra i rumori del traffico, i rumori dei musulmani che pregano (che se sono in gruppo si sentono eccome!), i rumori delle feste per i bambini (che, immagino, li sentano anche su marte), il rumore delle animazioni alle feste per adulti (tipo che vicino casa nostra organizzano feste in cui uno, cui spero taglino le corde vocali col coltellino opinel, canta e suona anche fino alle 3 del mattino eh), i rumori dei cantieri (ché qui si costruisce tantissimo, ora come ora).
La cosa bella è che ti basta poco, ovunque tu sia, per sentirti in pace: se ci riesci con tutto ‘sto casino, figurati in posti più tranquilli.
La cosa brutta è che, alla fine, senza tutto questo rumore, ti sembra quasi di stare in una bolla e che, intorno a te, non ci sia vita.
Temo, ormai, di preferire il rumore. Strano come, certe realtà, ti cambino le percezioni.
quanto sto sghinazzando, manco ti immagini!
RispondiElimina:-D
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