lunedì 20 aprile 2015

400 metri di futuro



Gli ivoriani sono abituati a fare la fila.
Al contrario di noi italiani, che ci scazziamo, sbuffiamo e la viviamo male, loro sono lì diligenti e tranquilli ad aspettare. Ore.

Fanno la fila in fila, proprio. Ordinati, allineati. Se ci sono sedie, ogni volta che si scala di uno bisogna spostarsi fisicamente: non esiste il concetto del “chi è l’ultimo?”.
Gli ivoriani sono anche abituati a pensare che sia normale che uno più ricco, uno socialmente più elevato, un prete (e in questo caso che il loro Dio, quello in virtù del quale pensano di avere più diritti del poveraccio che gli sta affianco, li strafulmini, sinceramente) passino loro avanti.

Fanno la fila per comprare il pane, per pagare le bollette, per fare le analisi, per consegnare le domande di visto in Ambasciata; tranne quando sono al volante, gli ivoriani sono in fila.

Stamattina quattrocento metri (misurati col contachilometri della macchina) di ragazzi, in un’ordinatissima fila per due, attendevano davanti alla scuola militare, per consegnare i documenti di ammissione, vista l’età.
Quattrocento metri di fila sotto il sole equatoriale, che alle 8 e mezza è alto come alle 11 e mezza in Italia, con una temperatura di 35° e un’umidità del 75%.
Tutti in fila per un futuro diverso da quello di bracciante, di artigiano, di mendicante.

E mentre sei lì in fila anche tu, in macchina e con l’aria condizionata, ti chiedi il perché di tante cose.
Il perché delle file italiane davanti al negozio per essere i primi ad accaparrarsi un telefono che sarà in vendita anche il giorno dopo, la settimana dopo, il mese dopo.
Ti chiedi inevitabilmente anche dove, nella nostra cultura, si è persa la pazienza di fare la fila a favore della scorciatoia triste e spesso avvilente.

Quei ragazzi in fila stamattina profumavano di voglia di futuro, di fiducia in qualcosa. Educati, sereni, sorridenti.
E, come sempre, ti chiedi perché le persone non vedono quanto anche noi abbiamo da imparare.

giovedì 16 aprile 2015

Scelte



Ho portato i miei figli fuori dall’Italia, tre anni fa.
Ce li ho portati per dar loro un futuro migliore. Non in Costa D’avorio, ovviamente. Volevo che questa esperienza regalasse loro una base linguistica e un’apertura mentale che permettesse quel miglioramento una volta tornati in Italia. Volevo che le migliori condizioni economiche ci permettessero, quando fossero cresciuti, di dar loro possibilità diverse.

Oggi, non ho nessuna voglia di riportarli in Italia, i miei figli.
Ovviamente neanche di lasciarli in Costa d’Avorio.

Oggi l’Italia non offre il futuro che vorrei per loro. Che non è un futuro da plurilaureati o megaprofessori di chissà che cosa, ma semplicemente un futuro da gente onesta che vuole campare serenamente con il proprio impegno e il proprio lavoro, vedendo gratificate le proprie capacità e venendo stimolati a coltivare il proprio genio. Un futuro con la mente aperta, con le lingue in bocca, con la serenità di un paracadute sociale.

Oggi in Italia la mente non è aperta, le lingue in bocca sono quelle di qualche politico con la ninfetta di turno e il paracadute sociale non si apre proprio.
Da italiani abbiamo perso la nostra lingua, trovare qualcuno che parla (e scrive!!!) un italiano corretto è cosa rara e preziosa, senza però averne acquisite altre, senza investire veramente nella preparazione linguistica.

Se mi chiedessero di descrivere oggi quello che penso del mio Paese, che amo alla follia, attraverso un’immagine, sarebbe quella di una vecchia signora intenta a contemplare i suoi ninnoli, a ricordare quando era giovane, quando era bella, senza pensare che si può essere belli anche con una storia sulle spalle e si può non smettere mai di investire tempo ed energie sul futuro, nostro e di chi ci segue.

L’Italia è una crisalide da cui nessuna farfalla dà segno di voler uscire: ferma immobile, ancorata al suo ramo, sospesa tra quello che era, e che ovviamente non è più, e un futuro che si percepisce sghembo, senza fiducia, senza impulsi.

Questo è quello che si prova, oggi, da expat, quando si torna nel nostro Paese: una totale mancanza di obiettivi, un vivere alla giornata perché il futuro fa paura, il futuro è una terra su cui abbiamo perso la fiducia di investire.

Io non voglio questo, per i Patati. Voglio meritocrazia, libertà, giustizia, una società che fa gruppo e non un branco di individualisti a vedere chi ce l’ha più lungo o a capire come evitare di fare una fila o pagare una multa.

Sono amareggiata, confusa, scazzata, triste. Si prospettano decisioni e scelte, difficili e complesse oppure facili ma che sanno di arresa.

Tutto sommato era più facile tre anni fa.

sabato 11 aprile 2015

Strani e stranieri



People are strange when you are stranger…

Se è pur vero che la gente è strana, se tu sei straniero, è vero anche che tu stesso sei strano, da straniero.
Che passi un momento in cui tutto è bello ma sei pienamente cosciente che quella in cui stai non è casa tua, che a quel momento ne seguono tanti intermedi fino a quello in cui tu pensi che quella potrebbe essere davvero casa tua.

Che potresti avere quel coraggio, che all’atto pratico quasi sempre ti manca, per ammainare le vele e dirti che sei arrivato. Che lì vorrai veder crescere figli e arrivare nipoti. Che sarà quello il punto di arrivo, l’omega della tua esistenza.

La vita di un expat è fatta di linguaggi raffazzonati ed emozioni complesse spiegate in modo elementare, è fatta di giri di parole, di mimica facciale, di gesti.
È fatta della consapevolezza di un ritorno, il più delle volte. È fatta di abitudini importanti conquistate ogni giorno di più, una quotidianità strappata a morsi.

È fatta di comprensione del posto in cui vivi, di accettazione della misura in cui questo si discosti da quello da dove sei partito.
È fatta di autonomie coatte, di imprevisti, di cose lontane che non vivi, di amori a distanza.

È fatta di nuovi amori, di sorrisi e risate quando lo stare insieme vale tutto il cuore che decidi di metterci.
È fatta di pezze d’appoggio, di picchetti per arrampicarsi, di piccole certezze regalate o costruite.

E rimaniamo sempre strani, sempre quel po’ stranieri, ci teniamo attaccati a qualche baluardo di cultura, al piacere di un piatto di casa gustato insieme.
Ci emozioniamo per parole nella nostra lingua ascoltate di sfuggita in un luogo inatteso, e ci sentiamo meno soli, per questo.

giovedì 9 aprile 2015

La legge di Murphy non risparmia gli expat...



Murphy doveva essere un gran simpaticone, oppure un gran menagramo, chissà.

Fattostà che è facile ritrovarselo tra i piedi in ogni ambito della propria esistenza: dalla scuola, alla maternità, dal lavoro alla vita da expat.
Le leggi di Murphy per un expat sono diverse:

1. se esiste un posto solo che ti viene in mente come unico posto al mondo non papabile come sede di lavoro, sarà ovviamente quello cui verrai destinato.
es: amore facciamo domanda per andare all’estero?
Si, certo se poi ci danno un posto demmerda come la costa d’Avorio, magari rifiutiamo [è andata così, virgole comprese]

2. la temperatura del posto di assegnazione, che sia in celsius o in farenheit, sarà ovviamente inversamente proporzionale alla tua capacità di tollerarla.
es: odi l’estate? Sarai destinato ad un paese equatoriale.

3. la capacità di fare spese oculate in vista della partenza sarà invece direttamente proporzionale al preavviso ricevuto. Il ché spiega perché tra le vettovaglie reputate indispensabili tu abbia considerato anche succhi di frutta (che si trovano ovviamente ovunque), biscotti (che si son fatti 2 mesi di viaggio) e soprattutto riso da sushi.

4. la capacità di riempire i bagagli è direttamente proporzionale al numero di bagagli assegnati.
es. Amore, stavolta mancano tre mesi al vostro ritorno definitivo, quindi non so di cosa riempiremo le valigie per questo viaggio verso l’Africa… E parti con 8 valigie da 23 kg. Piene.

5. inutile prevenire, anche gli eventi più prevedibili.
es. Amore, visto che staremo quattro anni in Africa direi che possiamo fare una scorta di assorbenti, ché giù non so quali trovo… e per due anni, tra clima e spirale, non hai il ciclo.

6. se vai alla ricerca di sapori conosciuti, non ne troverai neanche mezzo.
es. amore, andiamo dal cinese che ho una voglia matta di involtini primavera? Poi vai lì, ordini spring rolls e ti trovi nel piatto una roba molliccia, trasparente, con dentro foglie di insalata e carne. Epic fail.

martedì 7 aprile 2015

Simpatia, portami via



Figlio grande è un Patato, si sa.

Diciamo però che è un patato cosciente del suo sapere e vagamente presuntuoso. Il ché, nella giusta misura non guasta.
Ha una faccia da angioletto e difficilmente potresti immaginarlo antipatico.

Ma lui ci riesce eh, e anche bene.
Saccente e testardo, ti dà ragione solo dopo che gli hai dimostrato che si sbaglia e a volte dopo ulteriori conferme da parte di terzi che è proprio vero che a sbagliare sia stato effettivamente lui e non tu.
Noi lo si percula chiamandolo Patato Granger, non a caso.

Una delle cose che mio figlio ama simpaticamente rimarcare è il suo essere più bravo di me con il francese (cosa ovvia).
Mi corregge accenti, pronunce, nomi, traduzioni.
Insomma, francamente, mi massacra.

L’apoteosi l’abbiamo raggiunta l’altro giorno in macchina, quando la Fra dopo averli presi dalla lezione di inglese doveva incontrare una sua amica per darle delle cose. Ovviamente la Fra non solo non era mai stata a casa della signora in questione, ma non conosceva neanche il quartiere e non aveva quindi molti punti di riferimento.

Insomma ad un certo punto è stato palese che la Fra era un filo in difficoltà e si è decisa a chiamare la sua amica per avere qualche coordinata in più. Dopo un sommo sforzo per capire la sua interlocutrice, la Fra, sudata, ha chiuso la chiamata.

Mamma, allora hai capito dove devi andare?
Ehm, no, amore, non benissimo. Sai lei parlava veloce, io stavo guidando e non conosco molto bene il quart…
Mamma avresti dovuto farci parlare me, così eravamo sicuri che saremmo arrivati. Ora ti perderai, di nuovo.

Più che Patato Granger, da ora lo chiamerò Percy Latana, uff.