lunedì 30 settembre 2013

Estote Parati


A breve finirà il mandato del collega di Marito Paziente e ne arriverà uno nuovo.
E la fra si è chiesta, ormai son due anni che è qui e questo fa di lei l’esperta (ah ah ah) o la saggia (uahahahah): cosa è essenziale dire di questa realtà a chi sta per viverci 4 anni densi e carichi di tante cose? A cosa è meglio arrivare preparati?
Vista la sua, di esperienza, la fra oggi direbbe che bisogna esser pronti a:
- accettare una cultura diversa. Dove in “cultura” si intendono millemila cose, tra cui pure che gli odori corporei che generalmente i paesi occidentali evitano e coprono, qui sono accettati e generalmente ben tollerati. Cioè: o puzzano che veramente c’è da sentirsi male o sono puliti al limite dell’asettico e profumano di buonissimo, via di mezzo non pervenuta. Ovviamente la cultura non è questo, ma è anche questo ed è bene saperlo.
- non uccidere i commercianti libanesi. Non me ne vogliano i parenti, amici e collaterali compresi dei discendenti dei fenici, ma qui, i libanesi sono, per dirla alla romana, assolutamente fij de na mignotta. Del tipo che si tengono le confezioni degli shampoo vuote e da quelle piene ne tolgono tipo ¼ per ognuna, così ogni 3 ne hanno una nuova da vendere. Questo è il minimo: quando ti rendi conto che son capaci di “ribattere” la scadenza del latte che dai a tuo figlio o del salmone affumicato (che la procrastinano tipo di mese in mese per sei mesi e più eh), ti rendi conto che o ti adegui o ti tocca cercare al mercato anche un fegato nuovo. Ah, ovviamente, tutto il commercio è in mano ai libanesi.
- non cercare la perfezione. La perfezione in Costa d’Avorio (ma, mi dicono, più o meno in tutta l’Africa) non esiste. Ma non ne esiste neanche una piccola approssimazione. Ti fai fare i mobili? Sono magari assolutamente fedeli al disegno ma altrettanto assolutamente storti e tutti di colori diversi (a volte, anche lo stesso mobile è almeno bicromatico). Vengono a tinteggiarti casa? per attaccarti il lampadario dopo che la pittura sarà asciutta, non avranno l’accortezza di lavarsi le mani, quindi tu avrai delle meravigliose impronte nere (che come si sporcano le mani loro veramente è una cosa allucinante) sul tuo soffitto tinteggiato di fresco. Quello che devi imparare ad accettare è che per loro va bene così, non danno la minima importanza all’estetica, l’importante è che il lampadario, il tavolo, il mobile, ci siano, se poi sono di colori diversi, storti o sporchi non fa niente.
- non farti illusioni. Buona parte, ovviamente non tutte, delle persone che si relazionerà con te lo farà con uno scopo. Che può essere il prestigio (vedi, sono amico di un bianco), che può essere la raccomandazione (ah, lavori in Ambasciata, sai avevo intenzione di chiedere il visto per venire in Italia…), che può essere la ricerca di un lavoro (sei bianco quindi di sicuro avrai la bonne, la nounou, l’autista, il guardiano, il giardiniere, quello che ti lava la macchina… ecco vorrei essere io/mia madre/mia sorella/mio fratello/mio figlio/mia figlia e così via. Se, per tua scelta, non hai nessuna di queste figure che lavori per te, ti giudicano o deficiente o spocchioso), che può essere denaro (sei bianco, quindi sei ricco, sei ricco quindi mi devi qualcosa. Questa tipologia di persone non ti offre un servizio in cambio di denaro eh, si aspetta che il tuo senso di colpa da bianco faccia il suo dovere). La curiosità c’è, ma generalmente la trovi nei bambini, molti degli adulti non ti guardano, ti analizzano. Non è una critica, non vuole esserlo, probabilmente questo atteggiamento viene da un desiderio di rivalsa sul bianco dovuto al colonialismo… però c’è, è inutile negarlo.
- non fidarti. Forse a causa della loro storia, le persone qui non esitano a fregarti. Cioè tu prendi, per dire, una bonne in casa. La tratti bene, le dai da mangiare, la paghi quasi il doppio di quello che la pagherebbero i suoi connazionali, la rispetti, le fai anche dei regali… e lei ti ruba in casa, minimo. Oppure ti rovina le cose in modo che tu poi gliele regali. Cose così. Lo fanno anche tra autoctoni, figurati coi bianchi. Il rapporto di fiducia tra persone è totalmente avulso dalla mentalità ivoriana, è meglio saperlo perché la delusione è cocente.

Queste sono le cose a cui bisogna essere preparati, psicologicamente. Di quelle “materiali”, magari ne parliamo un’altra volta.
Certo che, detta così, sembra che questo sia un brutto posto per vivere. E lo è, se cerchi di vivere esattamente nello stesso modo in cui eri abituato a farlo prima di venirci (cosa che comunque vale per qualsiasi posto nuovo, a prescindere). Se vuoi vivere serenamente, qui, devi cambiare, evolverti, imparare che questa non è casa tua e certe cose non puoi assolutamente pretenderle: se arrivano sono quasi un dono e quel dono ha un valore immenso.
Come primo impatto, devi accettare. Poi inizierai a capire e a vedere dietro. Allora, seppur non troverai certi comportamenti più accettabili rispetto a prima, almeno avrai capito da dove derivano e la convivenza sarà quantomeno più semplice.
Almeno per noi è stato così.

giovedì 26 settembre 2013

la legge della jungla
























In Costa d’Avorio, ma sospetto in tutta l’Africa, almeno quella sub-sahariana, vige ancora la legge della jungla.
La legge della jungla si concretizza nel fatto che il più forte ha ragione, sempre e comunque.
Dove “il più forte” significa il più grosso, il più ricco, il più potente, il più furbo, il più bianco, il “più”. Se esiste un “più” più di te, allora è lui che ha diritto.
È facile presupporre che questa corsa alla prevaricazione sia un retaggio che abbiamo portato noi bianchi qui a forza di frustate, armi e violenza in genere… ma tant’è che è rimasta.
Ed è la causa principale del fenomeno della corruzione, qui. Chi può pagare una mazzetta, diventa “il più” e ottiene il posto auto vicino al cancello della scuola anche se arriva cinquanta minuti dopo gli altri, costretti a parcheggiare nella fanga o sulla strada ad alto scorrimento. Oppure è una persona che lavora in certi ambienti di prestigio, che ne sai. Fattostà che tu arrivi prima e per te quel posto è transennato, anche se sta piovendo il cielo anche da Marte e tu hai due bimbi piccoli.
Io la mazzetta, come concetto, la rifiuto a priori, e parcheggio in tangenziale, come dire.
Chiunque può, appena può, prevarica. Che sia la macchina che si parcheggia in decima fila per non fare (giuro) 30 metri in più o la signora che si mette d’accordo col macellaio per passarti avanti e comprare la carne più bella.
In fila davanti all’Ambasciata nei giorni di ritiro delle domande per i visti (e ci sono file di ore eh) non passa avanti la donna spaventosamente incinta, o lo zoppo o il vecchio, no no no… pretende di passare avanti il prete (che pensa di avere diritti che gli vengono da Dio, immagino), il ricco o  quello che siccome ha già la cittadinanza italiana (per ricongiungimento, spessissimo) allora pensa di avere diritto di entrare prima. Marito (su questa cosa decisamente non) Paziente (che, evidente, così si fa un saaaacco di nuovi amici) li rimanda in fila senza se e senza ma e fa passare chi dovrebbe e chi dovrebbe averne diritto (come la donna incinta di cui sopra).
Qui i diritti non ci sono, si comprano. Si comprano con una tonaca, o una divisa militare, con una mazzetta, col colore della pelle. Con una cittadinanza, con un’appartenenza.
C’è da farcisi un fegato di scorta, su questa cosa. C’è da imporsi di non perdere la propria integrità quando qualcuno ti tratta diversamente perché sei bianco e fa figo magari poter dire che sei amico loro.
Qui ci sono dei “vigili” solo per fare attraversare le persone… è la legge della jungla: io ho la macchina e sono più forte, tu sei a piedi, cavoli tuoi se devi attraversare. La precedenza la hanno le macchine. La fra ha ottenuto degli enormi sorrisi riconoscenti facendo attraversare persone (sotto piogge equatoriali, carichi di roba, con bambini al seguito) che eran lì a muffire perché ci fosse uno che si fermasse a farli passare. Questo spiega anche perché la fra si trasformi in un mostro dai mille occhi ogni volta che è per strada coi patati, ovviamente.
È una vita difficile: difficile da vivere e difficile da accettare.
E per loro, i “meno” che non saranno mai “più”, è ancora peggio, irrimediabilmente.

lunedì 23 settembre 2013

Da sola (quasi). Reloaded.



Ecco, poi ci sono momenti strani, diciamo banchi di prova.
Tipo che il Marito Paziente va in Italia per 3 giorni (per il battesimo della meravigliosa neo nipote Sua Maestà) e tu e i patati rimanete in Costa d’Avorio.
Da soli.
La fra e il Marito Paziente non sono di quelle coppie che tuttoinsiemetuttoinsieme sempre e comunque. Sono abituati a viversi con indipendenza e al distacco (visto pure che la fra e i patati si fanno un mese di Italia da soli in più).
Però non nascondo che l’ansia c’era.
L’ansia, pressoché atavica secondo me, di stare un posto dove sai spiegarti fino ad un certo punto, un posto di certo non famoso per la parità dei sessi, un posto in cui se succede qualcosa, di notte, non è che chiami il 112, ecco… e soprattutto di starci quando il tuo punto di riferimento primario è a 4500km con un mezzo continente in mezzo.
Il Marito Paziente è già sulla via del ritorno e non fraintendiamo, non è che ho passato i due giorni che precedono questo post con gli occhi a gufo senza dormire e tappata in casa.
Ho cercato di fare una vita normale, con qualche pensiero in più, ovviamente.
Sono uscita, ho fatto la spesa. Ho sistemato la casa, ho visto gli amici. Sono perfino andata a cena fuori coi bambini e gli amici e a pranzo noi da soli per la loro prima volta in un maquis, pensa tu.
Però insomma. Non è l’Italia. Non è un posto dove rientrare la notte da sola (anzi peggio, da sola coi patati) sia una cosa serena. Per me che ho paura del buio, poi.
Però ce la siamo cavata senza danni, con i patati che hanno accettato la proposta di dormire tutti insieme con molto entusiasmo (abbiamo quindi sperimentato il tetris notturno, a riprova che il nostro deciso no al cosleeping, all’epoca, ha avuto tutti i suoi perché).
Sono andata a letto presto, mi sono svegliata presto e a parte il disaggio cosleepposo ho anche dormito alla grossa, cosa che non credevo (vedi paura del buio di cui sopra).
Ho sistemato casa, stirato, cucinato (un minimo, in realtà). Il tutto con serenità.
Insomma una bella prova, non lo avrei detto.
Nani contenti, mamma serena.
Una bella vittoria J
Però, ovvio, con Marito Paziente vicino le cose hanno altri colori <3

giovedì 19 settembre 2013

Percorrenze















Da quando i patati hanno iniziato la scuola nuova, la giornata della famiglia Latana inizia abbastanza prima. Generalmente intorno alle 6. Ommioddio le 6. Ecco, parliamone.
La scuola nuova è decisamente più lontana di quella vecchia, che di fatto era dietro casa. Devi prendere una strada ad alto scorrimento e andare verso la periferia; per essere in classe entro le 7 e 45 come da regolamento, devi uscire al massimo alle 7 e 5. Visto che nel mentre devi infilarci un prendere coscienza di te, alzarti, fare colazione, lavarti, vestirti e varie ed eventuali (il tutto moltiplicato per 4), la sveglia alle 6 è più che giustificata, se non vuoi correre.
Depositati, in genere in anticipo finora, i carichi preziosi, c’è da affrontare il percorso opposto, che, andando verso il centro città, è ovviamente più trafficato. Chiunque viva nelle vicinanze di Roma sa che anche un minuto può fare la differenza tra un ritorno umano e un’ora di fila. Qui è uguale.
Quando il Marito Paziente lavora di pomeriggio si va insieme a portarli, la mattina. Altrimenti va la fra da sola. Considerando che i turni lavorativi del pater familias sono a giorni alterni e che i patati vanno a scuola 4 giorni a settimana, la metà delle volte la fra va da sola.
E la fra, inspiegabilmente anche a se stessa, si è accorta che questi ritorni in solitaria giocando alla roulette russa del traffico, le piacciono.
Li percepisce come un momento di assoluta calma e riflessione. Arrivata a casa ci saranno letti da rifare, pavimenti da pulire, bucati da stendere, articoli da scrivere, creazioni da realizzare, cose da organizzare… ma in quella minimo mezzora la fra non può fare altro che riflettere, cantare, pensare, sognare.
È un tempo completamente suo.
Pensa alle cose da scrivere qui, o su Instamamme, pensa a come organizzare il lavoro per il sito, cerca di capire le parole delle canzoni in francese che ascolta; se è in fila fa foto, se capita.
A volte invece va in modalità autocoscienza e riflette sui suoi comportamenti, sui suoi errori, su come migliorarsi.
Quella mezzora mattutina è di fatto l’imprinting di tutta la giornata che seguirà. È un regalo, un’occasione preziosa. Una scoperta inattesa, una bella sorpresa.
Tempo “pesante” e denso, tempo importante.
Era da tanto che la fra non percepiva un suo tempo in questo modo.
Mi sembra un bel cambiamento.

lunedì 16 settembre 2013

Linguaggi e occasioni





















Ormai è più di un anno e mezzo che sono qui, a giorni saranno due anni che il Marito Paziente ha preso servizio in questo posto, prima semi sconosciuto, del mondo.
In questo anno e mezzo ho imparato tante cose: a guidare col cambio automatico, a orientarmi in questa città, dove comprare le cose, a gestire una conversazione, a parlare coi medici da sola, a cavarmela insomma.
E me la cavo pure discretamente, tutto sommato.
Solo che riflettendoci, per una serie di sfighe varie, moltissimi dei termini nuovi che sono entrati nel mio vocabolario, sono termini medici. Il ché fa riflettere. Sulla sfiga, ovviamente, prima cosa. Ma anche sul mio essermi abbandonata alla sfiga ed essermi lasciata sopraffare da una serie di situazioni che, sì, ok, cavolo, proprio non ci volevano… ma capitano. E non è giusto fermino un percorso.
Mi è venuta voglia di intingere le mani e sporcarmele, con questa realtà.
Di viverla in maniera diversa, meno da spettatrice, più attivamente.
Non ho la minima idea di dove questa cosa potrebbe portarmi, ovviamente.
Potrebbe essere un flop pazzesco… ma non voglio che questi 4 anni, che poi non ne rimangono neanche 2, alla fine della fiera mi scivolino addosso. Voglio che mi rimangano. Non voglio pensarli come un periodo di apnea da un vivere italiano in fondo ristretto, pieno di affetti meravigliosi ma con occasioni ristrette e casuali.
Occasioni per imparare, volendo, qui ce ne sono tantissime.
Una nuova lingua, imparata meglio.
Un diverso modo di cucinare.
Suoni nuovi, canzoni nuove.
Per ora l’unica cosa che è davvero entrata, di questo mondo, nella mia quotidianità (dove mia sta esattamente per mia, non della famiglia latana) è l’uso di nuovi materiali per le mie creazioni, essenzialmente per la bigiotteria.
Il resto arriva, permane un po’ e va via.
Ecco, no.
Quattro anni sono tanti, deve restarne il segno. Un anello nella sezione lignea dell’esistenza.
Altrimenti, tutto perde un bel po’ senso.
E sarebbe un vero peccato.

venerdì 13 settembre 2013

Curiosità e diffidenze



















Mentre ero lì seduta in fila che aspettavo il mio turno al banco dell’assicurazione sanitaria, ieri, c’era un bimbo a fianco a me.
Un bimbo nero, un dolcissimo cioccolatino.
Curioso, come tutti i bambini.
Forse un po’ indietro, ma non sono sicura.
Lo incuriosiva tutto di me: la pelle, i vestiti occidentali, i capelli, la borsa, quel che avevo in mano.
La madre, come tutte le madri del mondo, gli diceva “non toccare”.
Io l’ho lasciato toccare la mia borsa, felice dei suoi sorrisi.
Si è avvicinato e mi ha fatto capire che voleva sedersi sulle mie ginocchia.
Ero senza patati, quindi l’ho lasciato fare (ché se Mortino vede che un altro bimbo ha la mia attenzione si trasforma in Voldemort).
E lui è stato lì, un minuto, due minuti, mentre la mamma finiva e arrivava il mio turno.
E io mi sono chiesta… perché.
Perché un bimbo nero istintivamente non ha paura di me, mentre vedo diffidenza negli occhi di bimbi bianchi nei confronti dei neri adulti?
Che tipo di ataviche paure abbiamo ricevuto e tramandato per arrivare a questo?
Un bimbo bianco non sarebbe MAI andato da uno sconosciuto nero e si sarebbe fatto prendere in braccio.
Che cosa è così tanto radicato nella nostra cultura che porta ad una diffidenza spontanea nei confronti dei neri?
Di fatto, soprattutto in occidente, dovrebbero avere loro più paura di noi, rispetto al contrario, visto che per secoli li abbiamo soggiogati e ridotti in schiavitù.
La nostra è quindi una sorta di inconscia coda di paglia? Un nostro inconscio riconoscere l’errore di chi ci ha preceduto? La consapevolezza che in alcuni posti del mondo bianco non è affatto bello e giusto, bianco è (stato?) male?
Perfino i miei figli, che nella diversità ci sguazzano da quando sono nati, avendo una zia disabile, rimangono sempre un po’… scostanti. Diffidenti. Nei confronti dei bambini no, anzi. Ma verso i grandi sì. Eppure li abbiamo educati al rispetto e alla diversità, non sottolineandola mai, perché la diversità non è una cosa da far notare, fa semplicemente parte della vita. Il primo “idolo” di Patato Grande è stato un bimbo polacco che parlava solo polacco e il secondo un bimbo mulatto, scelti da lui, eletti da lui. Eppure.
Un compagno di PRG, quello che abbiamo seguito dalla scuola vecchia alla nuova, mi ha incontrato ogni tanto l’anno scorso a scuola mentre accompagnavo i patati e poi una sola volta è venuto a giocare da noi e, non essendo io la francofona della famiglia, non ha avuto grandi scambi sociali con me. Eppure mi ha visto, il primo giorno di scuola, mi è corso incontro e mi ha abbracciato. Una cosa da sciogliersi lì come un gelato al sole.
Questi bimbi sono più spontanei, sfacciati, curiosi, dei nostri.
Sono più bambini (quando nessuno pretende, purtroppo, facciano cose da adulti, tipo lavorare).
E questo vuol dire che noi adulti, occidentali, abbiamo più paura.
E torniamo alla domanda di cui sopra: perché?

mercoledì 11 settembre 2013

riabituarsi





















Tornare qui ha significato re-immergersi in una realtà completamente diversa.
Riabituarsi a far la spesa in una lingua diversa.
Riabituarsi a non trovare le cose che vorremmo ci fossero.
Riabituarsi a fare a meno di alcune cose.
Riabituarsi al compromesso.
Riabituarsi ad un autunno a 25°.
Riabituarsi ad avere freddo, con 25°. Sì, giuro, succede.
Riabituarsi a non avere posti dove fare passeggiate se non centri commerciali.
Riabituarsi a chiamare quelli di qui “centri commerciali”.
Riabituarsi a guidare una macchina dalla cilindrata imbarazzante (quattro cifre, la prima è un 4. Praticamente un aereo).
Riabituarsi al cambio automatico (e no, sì guida con un solo piede, se provi con due sei fregata).
Riabituarsi al traffico e allo smog.
Riabituarsi a chi ti sorpassa a destra, a sinistra, sopra, sotto, volando.
Riabituarsi ad essere nero a strisce bianche in un posto bianco a strisce nere.
Riabituarsi alla luce netta delle 6 di mattina.
Riabituarsi (soprattutto) ad alzarsi alle 6 di mattina.
Riabituarsi alle palme, la sabbia, i ficus alti quattro piani.
Riabituarsi allo sporco, ovunque.
Riabituarsi all’igienizzante per le mani e all’anti-zanzare.
Riabituarsi a chi ti sorride anche se non ti conosce.
E tutto diventa più facile.