lunedì 30 marzo 2015

Dispense da expat e abitudini che cambiano



Ci sono cose che io ormai do per scontate, piccole abitudini, accorgimenti che raccontati hanno sapori diversi.

In Paesi con una democrazia instabile, come questo, si mette presto in conto che le cose possano cambiare velocemente e che altrettanto velocemente si debba essere in grado di prendere decisioni e compiere azioni determinate.

Qualche giorno fa parlavo con un gruppo di amiche italiane sul mettere in ordine la dispensa. Mentre discutevamo mi sono resa conto che mentre la loro dispensa parla di offerte speciali la mia parla di guerra: è bene avere di che sopravvivere per qualche giorno, sempre. Pasta, farina, roba in scatola, olio. Non ci avevo mai prestato attenzione, in questo senso.


Dal primo sparo sentito una sera di più di due anni fa, è diventato automatico ragionare in maniera diversa, senza neanche bisogno di dircelo. È diventato normale notare quanta polizia ci sia in giro. Tendere le orecchie per capire cosa ci succede intorno.

Per un breve periodo abbiamo avuto un po’ di cose, un cambio per uno, documenti,  a portata di mano nel caso bisognasse scappare velocemente in Ambasciata. Io e i bambini eravamo pronti a partire in qualsiasi momento.

A ripensare oggi a queste cose mi accorgo che non c’è mai stata angoscia, in quei momenti. Quella era la nostra quotidianità, ci adattavamo a cose che non avremmo potuto cambiare. Era inutile trasmettere preoccupazione ai nostri figli: eravamo noi i grandi, e i grandi sono quelli che devono dirti che va tutto bene.

È quasi strano pensare di tornare in un paese in cui c’è una tutela del cittadino, c’è il diritto. Qui non c’è nulla di tutto questo, concretamente. Si impara a fare da soli, a non dare per scontato nulla.

Quando hanno vaccinato mio figlio senza il mio consenso, ho provato la più grande frustrazione della mia vita: volevo giustizia, a tutti i costi. Poi ho capito che non potevo averla e che dovevo prevenire, evitare che le cose potessero andare come non volevo andassero, mettere i puntini sulle “i”.

Qui devi imparare ad evitare incidenti e guidi con occhi che non avresti mai pensato di avere; qui non puoi dare per scontato che la scuola sia un ambiente di tutela per i bambini, quindi devi essere molto più attento ad eventuali sintomi di disagio; qui la logica non è la tua e tanto vale arrendersi.

Ripenso a tutte queste cose, a quanto questi anni abbiano cambiato il nostro modo di vivere, facendoci vedere cose che non avremmo mai preso in considerazione prima e frustrandoci per atteggiamenti che rispetto alla nostra evoluzione sociale occidentale sono oggettivamente superati.

Si impara la collera e si impara il rispetto, la frustrazione e l’acquiescenza, e non lo avresti mai immaginato.
Non ci si accorge di quanto certe piccole cose abbiano modificato la propria quotidianità che quando si è in procinto di dare un taglio netto. Forse la prospettiva del cambiamento ti fa fare bilanci involontari, chi lo sa.

Sarà quasi surreale avere solo un litro d’olio o un kg di farina in casa, questo pensavo risistemando la dispensa ieri. Mondi diversi, indubbiamente.

venerdì 27 marzo 2015

Librerie e regali



Le librerie sanno di storie raccontate e da raccontare. Sono posti in cui puoi credere che tutto sia ancora possibile, in cui puoi credere di essere una cuoca o una principessa, e nessuno ti smentirà.

Le librerie odorano di sogni, di qualcosa che colma lo spazio tra quello che siamo e quello che vorremmo diventare, in ogni fase della nostra vita.

Rumoreggiano di pagine sfogliate, si colorano di foto e disegni.
Le librerie sono piene di gente che cerca qualcosa o che non sa di cercare qualcosa, ma che lo troverà.

Adoro le librerie, i loro suoni, i loro odori, le persone e i personaggi che le abitano. Il silenzioso andare per scaffali, farsi affascinare da una copertina, da una foto. Il loro aprire mille strade da seguire.


Da anni ormai andare in una libreria è un lusso, per me.
I periodi italiani sono talmente concitati che finisco per ordinare i libri online e farmeli recapitare a casa. In Costa d’Avorio è diverso: nonostante una quotidianità che si spiega e si dispiega in francese, non ho ancora un lessico che mi permetta di capire le sfumature di ciò che leggo in quella lingua. Ho tanti libri in francese, ma sono essenzialmente libri di cucina.

Il regalo che vorrei tanto ricevere? Un pomeriggio in una grande libreria italiana, una di quelle coi divani, con grandi aree tematiche, con migliaia di libri. Un pomeriggio per me, senza orologi e tempo, permettendomi di seguire suggestioni e emozioni, di cercare qualcosa e di scoprire altro, di sognare ad occhi aperti.
Un pomeriggio tutto mio, io e i miei primi veri amici, quelli che non mi hanno deluso mai, i libri.
Me lo sono promesso. Sarà forse il primo regalo che mi farò dopo essere tornata in Italia.
E che nessuno mi venga a cercare ;-)

mercoledì 25 marzo 2015

Figli sessantottini



Patato Piccolo deve avere qualche gene di tipo rivoluzionario, oltre che tutti i miei geni polemici e la permalosità di mia madre e di mia cognata.
Insomma Patato Piccolo non è una personcina facile.

Si spazientisce subito, vuole che le cose sian fatte come vuole e dice lui. È volitivo e vagamente prepotente. Sa anche essere dolcissimo e affettuoso, ma solo con persone selezionate, altrimenti il suo sguardo non perdona e non permette di equivocare.

Pur avendo un forte attaccamento a me, è sempre stato  all’atto pratico un bambino indipendente: a dieci mesi prendeva il cucchiaino e mangiava “dassolo” (eh sì, è nato maremmano), ha iniziato a parlare e camminare molto presto e da subito piuttosto bene. Usa il coltello meglio del fratello grande e in genere è sempre stato abbastanza aperto alle nuove proposte culinarie.

Se infatti fin da piccolo è stato uno scassamaroni un bambino con le idee chiare in termini di abbigliamento (“no, io quella cosa lì – detto con tono schifato arricciando il naso- non la metto”) e calzature (non a caso  lo si chiama il nostro piccolo feticista), non ha mai dato problemi col mangiare: per nulla schifiltoso, la sua caratteristica peculiare in termini di cibo è sempre stata quella di mangiare come un tribunale.

All’alba dei suoi sei anni però qualche gene represso deve essersi svegliato tutto insieme: Patato Piccolo ha iniziato a manifestare una ferrea volontà di decidere in autonomia cosa mangiare e cosa no.
Ovviamente non esiste: si mangia quello che c’è a tavola. Non è che nella Tana si cucinino interiora cotte nel grasso di montone, quindi quello che arriva nel piatto è qualcosa che tiene conto dei gusti comuni e della necessità di mangiare equilibrato e sano.

Per Patato Piccolo, però, le verdure, o qualsiasi cosa le contenga anche in piccola parte, in questo momento sono più o meno come la luna piena per Lupin: si trasforma in una specie di sindacalista, imbruttisce pesantemente, tira fuori il miglior tono da femminista sessantottina e afferma perentorio: il corpo è mio e decido io cosa ci metto dentro!

Ci aspettano anni difficili…

martedì 24 marzo 2015

Cieli aperti e gabbie



Non che non mi piaccia la Costa d’Avorio: l’ho sempre amata molto. Ma come ogni amante stanco sta facendo di tutto per farsi lasciare senza rimpianti.

Mi porto dentro un’irrequietezza che tre anni fa non avrei mai pensato di avere. Mi porto dentro l’irrequietezza del viaggiatore, di chi ha scoperto e accettato che ci siano angoli di mondo ancora da vedere e in cui depositare un pochino della propria polvere, in custodia.

Eppure, l’ autunno improvviso e imprevisto dell’anno passato mi ha ricordato che il mio posto è quello, in fin dei conti. Che è con quella stagione che sono nata, 38 anni fa. Che è stato quel posto, quel clima fatto di stagioni, a far da sfondo al primo incontro, al primo bacio, a tutte le tappe di questa vita che un giorno mi ha portato lontano e che tra poco mi riporterà lì.

E mi chiedo anche, però, inquieta, se una volta imparato a fatica a volare nel cielo, tra nubi, temporali e visioni assolute e aperte, riuscirò mai a tornare in una gabbia, nutrita dall’affetto degli amici ma a guardare solo una porzione ristretta di quel cielo in cui ero abituata a muovermi in libertà.

Per la prima volta, stavolta non volevo tornare qui. Un taglio netto invece di questo stillicidio del pensare “chissà se è l’ultima volta che vedrò questa cosa o questa persona”. Una goccia di dolore al giorno, per assuefarsi all’idea di un distacco cui non sono pronta.

Non volevo tornare, perché tutto è già nostalgia. E sulla nostalgia non sono mai riuscita a costruire nulla.

lunedì 23 marzo 2015

Madame Fransesca LaTana, Ambassade d'Italie



Amore, vuoi andare a vedere una sfilata? Sono abiti tradizionali!
Wow, che bella cosa, dai! Mi piacerebbe!

Allora, guarda, andrete tu e due nostre amiche dell’Ambasciata. Venerdì 20.
Ah grazie, che bello.

Arrivati a venerdì 20 si scopre che ci sono i biglietti, per andare. Il ché significa che non stai andando esattamente al festival della porchetta, quindi un minimo di dress code ci starebbe bene. Per quanto si tratta di una pomeridiana.
La Fra lo scopre, però, tipo in macchina, casualmente, quando non ha più tempo di cambiarsi. Quindi indossa sandali sportivi, gonna pantalone in pagne (tessuto locale) e magliettina senza pretese. Manco il rossetto o una collana. E vabbeh, si imboscherà dietro. Pensa.

Nel frattempo la Fra scopre che non si tratta tanto di abiti tradizionali quanto di “donne tradizionali”. Le Awoulaba, da cui l’omonima associazione che organizzerà il tutto, sono donne molto formose: grande seno, fianchi larghi e soprattutto un sedere che lo stesso wikipedia definisce ipertrofico. Sono donne che rappresentano la bellezza tipica africana, quella che poi era la bellezza ancestrale un po’  in tutte le culture preclassiche.
La Fra, che in questo deve avere parecchi geni africani, era anche molto interessata a questa cosa: vedere donne con un fisico del genere essere orgogliose di esserlo è una piccola vittoria per tutte le persone, come la Fra stessa, che Barbie non saranno mai. E che la vivono male.

Insomma arriviamo e scopriamo che ecco, no, non è esattamente una sfilata. No. Per niente proprio. Ci viene prospettata l’ipotesi che si tratti di una conferenza. Ah. Qui si va sul difficile, per il francese della Fra. Ma accettiamo la sfida.

Ma diciamo anche che qualcosa a livello di comunicazione non deve essere proprio filato liscio, perché quando entriamo nella sala, veniamo fermamente indirizzati a dei posti speciali, con il cartellino “Ambassade d’Italie”. Ecco no, anche lì.
Non siamo una rappresentanza dell’Ambasciata e non siamo in veste ufficiale, ma neanche un po’. Fattostà che siamo alla sinistra del tavolo delle persone che interverranno e praticamente lampeggiamo, nella sala, perché siamo gli unici bianchi. E olè. Veniamo presentati, fotografati, salutati. Un imbarazzo mortale.

Ed è stato allora che i nostri eroi hanno scoperto che neanche di conferenza si sarebbe trattato, bensì della presentazione del nuovo “tema dell’anno”: il ruolo della donna nella riconciliazione e nell'unità nazionale. Un tema molto bello, a quel punto una conferenza ci sarebbe stata meglio.

Nell’accompagnarla al suo posto, una delle donne dell’organizzazione si è guadagnata l’eterna simpatia della Fra dicendole, tutta sorridente: “ah, tu es une awoulaba aussi!” (la traduzione italiana potrebbe essere, liberamente: “ah, pure te sei una chiattona!”). La fra, che non ha quello che si può definire “un buon rapporto” col proprio corpo, ha sfoggiato il suo miglior sorriso dissimulante odio e si è accomodata. Al caldo.

Ma al caldo davvero: i condizionatori erano rotti. Ora immaginatevi una sala, con tante persone a respirarci dentro, in un edificio sotto al sole cocente africano, in una giornata senza vento, alle 3 del pomeriggio, senza aria condizionata. Il presidente dell’associazione si è scusato dicendo che il giorno prima funzionava tutto, e alla Fra son venuti in mente i disperati tentativi all’esame di urbanistica 1: “ma glielo giuro,ieri la sapevo questa!”.

Dopo un’ora in cui ci siamo sventagliati con qualsiasi cosa e metà della faccia ci è praticamente colata via, grazie signore grazie per non essermi truccata altrimenti finivo la giornata da panda, finalmente sono stati rimediati 4 o 5 grandi ventilatori. Vi giuro, una cosa surreale.

Nell’ora intercorsa tra quando siamo arrivati e l’inizio della cerimonia, abbiamo, dalla nostra postazione privilegiata, tra una foto  e una ripresa, avuto tutto l’agio di guardarci intorno e scoprire meglio questo mondo decisamente per noi inusuale.
Le donne awoulaba danno un nuovo senso alla definizione “tanto”, veramente. Ma sono perfettamente a loro agio e sicure di se stesse. Rappresentano un canone di bellezza tradizionale e lo fanno con orgoglio.
Indossano vestiti colorati, di pagne, con modelli che rendono giustizia al decolté e soprattutto al sedere, vero e proprio punto focale della loro bellezza
.



Hanno abiti da sirena, che mettono in risalto il seno prorompente, la vita più stretta, il fianco largo e il sedere sporgente (ma tanto sporgente). Portano zeppe o tacchi alti, che slanciando la figura esaltano ancora di più la rotondità del sedere. Sono oggettivamente affascinanti e molto, molto, femminili.


Quando, finalmente, la presentazione ha avuto inizio, siamo stati chiamati per nome. Quando l’han chiamata, la Fra era lì che pregava “terra inghiottimi” e si è limitata a sorridere. Praticamente alla fine della serata aveva una paresi, ma vabbeh.

Non vi tedio coi discorsi, di cui comunque avrò capito neanche un decimo per essere onesta, ma ci sono stati anche momenti simpatici, tipo due coreografie con la musica e una cantante: nel primo la cosa notevole erano due ragazzi a torso nudo che ballavano (e sì la pelle nere fa sangue, c’è poco da fa’), nel secondo era il testo della canzone che sostanzialmente diceva “mi sono sposata, sono andata a vivere con mio marito e la mia donna delle pulizie lo guardava, è diventata la sua amante e allora io mi trovo un altro uomo” nel momento in cui diceva l’ultima frase accattava un uomo dal pubblico e ci ballava. Per un’occidentale una cosa da rimanerci con gli occhi appadellati, credetemi sulla parola.


Ad un certo punto, fortunatamente, la presentazione è finita e la Fra ha finito di aver paura che, avendoci erroneamente etichettato come “Ambassade d’Italie” ci chiedessero pure di dire qualcosa. Sarebbero stati bei momenti.

Nell’uscire dalla sala, che con i ventilatori era passata dalla definizione “forno statico” a “forno ventilato”, la Fra è stata re-intercettata dalla simpatica signora dell’ingresso, che sostanzialmente le ha ribadito il concetto, chiedendole di fare da modella per la sfilata di ottobre. Quel dommage! Je vais quitte definitivament la Cote d’Ivoire a la fin de Juin… ci è rimasta male. Lei.

Per completare il quadro “come annientare l’autostima della Fra”, quando la Fra è uscita per fumarsi una strameritatissima sigaretta, è stata accolta da un gruppo di musicisti locali improvvisati che appena l’hanno vista hanno improvvisato un inno alla donna bianca awoulaba.

No, ma non era meglio che me ne restavo a casetta? :-D