sabato 24 dicembre 2016

Ciao papà...


Ci siamo sempre assomigliati tanto, io e te.
Stessa corporatura, stesse mani, stesse unghie, stesso carattere un po’ di merda.
Ugualmente fumini, ugualmente presuntuosi. Stesso modo di prendere fuoco se arrabbiati e di farsela passare in fretta.
Ci siamo sempre capiti al volo, alzandoci la palla per battute ironiche al limite del caustico.
Stessa abitudine di pretendere tanto dagli altri ma in prima battuta da noi stessi. Stessa incapacità di dire “non ce la faccio, arrangiatevi”.
Stessa passione nel lavoro, stessa razionalità.
Ho passato trent’anni a percularti per l’uso di excel pure per fare il caffè e oggi faccio lo stesso anche io.
Stesso bisogno di programmare e avere tutto sotto controllo.

Sai papà avevo sempre creduto che si diventasse grandi sposandosi, trovando un lavoro, comprando una casa, mettendo al mondo dei figli. In questa settimana ho capito che si diventa grandi quando ti muore un genitore, perché in prima linea ci sei improvvisamente tu, e non sei mai pronto per affrontare questo passaggio, nonostante figli, lavoro, famiglia, casa.
Perché non potrò più dire “papà ho un problema” e ascoltare consigli o spiegazioni, ma sarò io la persona cui verrà richiesto di risolvere problemi, trovare soluzioni, segnare la strada.
E a questo passaggio di consegne non si arriva mai pronti o quantomeno mai pronti del tutto.

Avrei voluto avere più tempo, vederti invecchiare; avrei voluto che vedessi crescere i Patati e diventare gli uomini che adesso sono in boccio. Invece tu resterai sempre cristallizzato in quell’età e io continuerò ad andare avanti, un po’ zoppa e un po’ più sola.

Mi hai lasciato quella che sono, con quei pregi e quei difetti che erano anche i tuoi. Mi hai dato la capacità di non perdere mai la ragione, di non arrendermi mai. Mi hai sempre detto, di fronte alle mie mille paure e insicurezze, di buttarmi: “Cosa può succedere se non va bene? Ti possono ammazzare? Ecco, no, allora vai avanti”.
E io sto andando avanti, lo farò un po’ anche per te.
Manchi immensamente, soprattutto oggi, soprattutto ora.

venerdì 2 dicembre 2016

Blog amarcord




Ricordo con una certa nostalgia quando i blog erano ancora solo un diario e il mantenimento dell’anonimato era per tutti noi pionieri del blogging quasi una priorità. Erano gli anni di Splinder e ci si presentava e conosceva attraverso un nickname, ci si sentiva più liberi di raccontarsi in maniera spontanea, di tirar fuori emozioni, dubbi, scazzi senza tante remore perché avevamo questa corazza che sembrava renderci virtualmente invisibili. Ci si conosceva attraverso le affinità e le curiosità e alcune delle persone conosciute all’epoca sono state e sono ancora molto importanti per me.

Oggi i blog sono qualcosa di profondamente diverso: nascono e sono strettamente collegati a profili social assolutamente riconoscibili, in cui spesso tutto sembra essere strumentale al raggiungimento di uno scopo (visibilità, fama, compenso).
Fare rete in maniera sana è sempre più difficile, a ben guardare.

Perché fare blogging, scrivere di se stessi in rete, è diventata una professione con incarichi, compensi, marchette. Il che va anche bene, visto che permette a chi scrive di potersi dedicare a farlo coprendo almeno i costi della gestione del blog stesso. Il rovescio della medaglia è invece che di contenuti di qualità, in questi blog, ce ne sono sempre meno perché tutto diventa appunto strumentale sia al guadagno che, ancora di più, alla costruzione e definizione di un’immagine di sé allettante e figa che piaccia a chi legge.

Perché se piaci fai seguito, numeri, vali e prima o poi collabori con qualcuno. Ma nel costruire questa immagine… quanto perdi di te?
Vedo bloggerine dell’ultimo minuto inventare panzane grandi come una casa, arrampicarsi sugli specchi, uccidere quotidianamente l’italiano, nuotare nell’incoerenza di ciò che affermano e vomitare malcontento ovunque sia data loro occasione di farlo e… mi prende male.

Mi prende male perché quando offri te stessa agli altri, puoi lavorare forse sulla forma, ma mai sulla sostanza… altrimenti è un inganno.
Mi prende male perché tutte quelle dispensatrici di sorrisi e cuoricini spesso poi in privato si parlano dietro con invidia e livore e cospirano le une contro le altre. E li vedi quei sorrisi finti che fanno tanto “mi stai tremendamente sul cazzo ma mi servi a far pensare di essere social quindi ti metto il cuoricino e via”.

Eh, ma come, hai un blog anche tu e gestisci un sito… che fai: sputi nel piatto in cui mangi?
Il mio lavoro non è, e presumo mai lo sarà, fare la blogger. Non mi interessa, non sarei mai capace di modificare quello che scrivo in base alle chiavi SEO, per dire… al massimo posso metterci una pezza dopo. Sono forse troppo egoista o troppo presuntuosa o troppo vecchia per mettermi a cercare di diventare, attraverso parole non mia, ciò che non sono.

Il mio lavoro è (tra le tante cose) osservare la rete, in un certo senso. E forse mi piace proprio perché mi permette di mantenere il distacco necessario per vedere le cose con obiettività.
So cosa tira, osservo ciò che accade, noto ipocrisie, mi annoto scorrettezze per eliminare quelle persone da una mia lista personale di persone interessanti con cui lavorare a qualcosa. Cerco in questo di mantenere una coerenza per rispetto verso gli altri certo, ma in primis verso me stessa. Mi piace potermi guardare allo specchio in ogni istante e vederci sempre me.

Il fatto che a me non interessi minimamente diventare personaggio è lampante nella gestione che ho di questo blog: condivido pochissimo i contenuti nei social e solo se ne ho tempo e voglia, non scrivo per gli altri ma scrivo per fissare ciò che mi accade, ciò che mi colpisce… se poi colpisce anche altri e ne nasce qualcosa è fantastico ma, davvero, non è quello lo scopo.

Ed è per questo che seleziono, che cesello, che scelgo di cosa parlare qui (ma anche in instamamme in fondo) senza spammare la mia vita in rete credendola più interessante di quella degli altri o cercando di venderla per tale.
È la mia vita: se tra ciò che mi accade o mi accade intorno c’è qualcosa su cui abbia senso riflettere, lo faccio e lo faccio qui. Se voglio condividere momenti belli o brutti lo faccio, se voglio raccontarvi una ricetta e la sua storia, lo faccio. Perché questo blog parla di me e del mondo attraverso la mia lente e non di quello che penso agli altri piacerebbe leggere.

In fondo sono rimasta una figlia di Splinder, probabilmente, ancora romanticamente legata a quell’idea che per scrivere si deve aver qualcosa da dire e da dirsi, di qualunque tipo, a prescindere da quanti leggeranno.

Invece oggi i blog non nascono più per essere scritti: si sono evoluti in qualcosa che nasce già con lo scopo di essere letto, ed è un cambiamento non da poco… scrivere per l’amore di farlo è oggi una banale utopia: se non ti leggono, o non ti condividono, non sei nessuno.
Il problema è: davvero devo farmi dire dalla rete se sono qualcuno o chi sono?