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martedì 16 giugno 2015

Questione di pelle



Quando si pensa all’archetipo di uomo africano si pensa al corpo scolpito, in genere.
Il corpo scolpito, in realtà, viene da un’alimentazione povera, dal lavorare sotto il sole parecchie ore al giorno, dai lavori di fatica. Gli africani ricchi sono imbolsiti tanto e quanto gli europei, sappiatelo.

Resta però il fatto che gli uomini africani abbiano un corpo oggettivamente più bello e armonico.
Un corpo felino, di un erotismo strisciante che non sapresti spiegare.

I ragazzi africani, quelli sani, portano a spasso i loro muscoli con disinvoltura.
La loro conformazione, il colore della loro pelle, rende il loro corpo diverso. Un europeo, per avere un corpo come quello dovrebbe uccidersi in palestra. E non sembrerebbe armonico, sembrerebbe “pompato”.

Ma, in questi tre anni e mezzo, non ho mai visto uno di loro usare il corpo come un’affermazione di se stessi. Il muscolo definito viene dalla loro quotidianità, non lo considerano un qualcosa di cui vantarsi.

Non ho mai percepito la vanità maschile, qui. Per i più abbienti o i più attenti, la cura di se stessi, l’andare in giro vestiti con ordine, puliti, è di estrema importanza e lo noti subito, forse per contrasto con la maggior parte delle persone, che invece ritiene un sacrilegio coprire gli odori corporei (con le conseguenze olfattive che si possono immaginare, purtroppo).

In questo posto dai mille contrasti,spesso anche il prendersi cura di sé e del proprio corpo in particolare, o del proprio aspetto in generale, ha due posizioni quasi estreme: l’eccesso di pulizia o il suo netto contrario, una grande attenzione o la più completa sciattezza.

Nelle donne si vede meno, perché anche le donne più povere e meno curate hanno dei vestiti di colori sgargianti che con la loro pelle stanno magnificamente. Negli uomini è più evidente.

Questa sorta di eleganza nei movimenti che li rende unici, il colore della pelle che parla di qualcosa di esotico e potente. Gli uomini africani hanno un grande fascino, solo che non lo sanno.
O forse non gli importa, chissà.

giovedì 11 giugno 2015

Una prova costume lunga tre anni e mezzo



Ho sempre avuto con il mio corpo, con la mia esteriorità, un rapporto tutt’altro che sereno.
Fosse stato possibile uscire mettendo uno scafandro, probabilmente lo avrei fatto.
E, a ben guardare, di scafandri virtuali me ne sono messi addosso parecchi, negli anni, per non sentirmi sulla pelle il peso del giudizi altrui.

Poi sono arrivata qui.

Con questa premesse, si può capire con che serenità d’animo io abbia affrontato l’idea di vivere in un posto in cui è estate 9 mesi l’anno e in cui praticamente l’unico svago sia andare al mare, o in piscina.
Tutte attività che comportano una quota parte di pelle scoperta maggiore di quella che mai ero stata disposta a concedere.
Praticamente il miglio verde della salvaguardia dell’ego.

Peccato che una protezione 50+ per l’ego non la facciano.
Quindi: sei a ridosso di una pista da ballo, o balli oppure ti metti seduta su una sedia a guardare gli altri ballare e a far finta di nulla.
Può andare bene per una sera, per quattro anni ovviamente no.
E così, quel primo week end, mi sono messa un costume e sono andata al mare con gli altri.

Rendendomi conto, per la prima volta in vita mia, che in quel contesto l’unica a notare il mio corpo ero io e che agli altri, più del mio fisico, arrivava il mio disagio.
Anzi che era il mio disagio a far loro notare cose verso le quali non avevano il minimo interesse. Una bella lezione di vita, insomma.

Poi ho scoperto, col tempo, che una delle peculiarità di questa società in cui mi sono ritrovata a vivere un po’ per caso, è quella del non giudicare in base a canoni prestabiliti.
In qualunque modo tu sia fatto, qualunque vestito tu scelga di indossare, di qualunque colore tu abbia i capelli o la parrucca, nessuno ti dirà nulla. Nessuno riderà di te, del tuo corpo, della tua parrucca, dei tuoi vestiti.

In questo posto del mondo la prova costume non esiste, concettualmente.
Ed è una sensazione meravigliosa, a dirvela tutta. Un profumo di libertà che non ho mai respirato altrove: nessuno sguardo, nessuna risatina, nessuna battuta cattiva fatta a mezza bocca.
Se stai bene con te stesso, andrai bene anche agli altri. Ecco qui non è un consiglio da psicologo, qui è una realtà che copre tutti come un grande lenzuolo di serenità.

È tutto così semplice, che non sembra neanche possibile.

L’anno prossimo, o forse anche questo, se riuscirò, mi aspetterà una prova costume diversa, in un mondo diverso e sotto occhi diversi, soprattutto.
Speriamo di aver fatto il pieno di indifferenza o di auto-accettazione, altrimenti mi toccherà cercare quella famosa protezione 50+, capace che nel frattempo qualcuno l’abbia inventata.


Con questo post partecipo all’iniziativa Instamamme vuole anche te  che invita i blogger a trattare il loro tema del mese; se sei un blogger e vuoi partecipare vai a leggere come fare: più siamo e più sarà divertente confrontarsi e scoprirsi a vicenda!

lunedì 8 giugno 2015

Conversazioni con Madame Dissout la Graisse. La sessualità femminile



C’è un altro aspetto della condizione femminile di cui Madame Dissout la Graisse ti parla, mentre ti massaggia.

Una donna qui, ancora, è sessualmente un mezzo.

È qualcosa che ha un valore in termini di verginità da poter dimostrare di aver colto. È qualcosa, non qualcuno.

E c’è un uomo che la maggior parte delle volte non ha neanche scelto, che una sera le dice “tu doit coucher avec moi, vite!” (devi giacere con me, veloce) e poi farà i suoi comodi nel suo corpo, come fosse un campo da arare. Come fosse l’unica rivalsa in un mondo quotidiano fatto di “oui patron” e “comme tu veux patron”.

La volontà è dei forti. E c’è una gran forza di numeri, in certe culture. Una donna non si ribella, non può.

È suo compito dare piacere, non provarlo.
E arriviamo alla domanda che mi brucia dentro.
C’è ancora qui, l’infibulazione?

Si stupisce della domanda: ovvio che c’è.

Poi subentra la rabbia: è vietata, ma c’è.

Nel villaggio o nella bidonville dove le case sono fitte fitte e le persone sembrano formiche, c’è modo di sapere cosa accade dietro alle porte chiuse?

A volte, non c’è modo di saperlo neanche in Italia, pensi, sconsolata, tu.

Una donna, qui, spesso, ancora, non ha diritti: il piacere che tiene per sé è qualcosa che l’uomo non controlla e va escisso, letteralmente.

Una donna deve solo occuparsi della casa, dei figli e lavorare.
Pensare e provare piacere sono due cose che vengono osteggiate più o meno apertamente.

Una donna, qui, ancora troppo spesso, non ha coscienza di cosa potrebbe essere, del fatto che il suo corpo appartiene  principalmente a lei e non al maschio che ne abusa o ai figli che lo occupano.

Una donna qui, ancora, spesso, non è pensata pensante, figurati se può godere di qualcosa in cui storicamente la supremazia maschile si è dispiegata.
C’è qualcosa di sottilmente simile ad uno stupro, in tutto questo.
Un atto consenziente ottenuto con una supremazia forzata.

Qualcosa che ovunque accada, è una ferita aperta per tutte le donne.

lunedì 4 maggio 2015

Chiaroscuri



L’altra sera ero ad una cena con amici e si parlava dello stare qui, soprattutto del come viene percepito altrove, lo stare qui.

Quando dico che vivo in Costa d’Avorio, ottengo in genere solo due tipi di risposte:

1. Wow ma che figo, ma beata tu, è bellissimo, l’Africa è stupenda, tramonti su spiagge e palme e vita a bordo oceano.
2. Ommioddio ma dove cazzo vivi, ma come fai, sei coraggiosissima, io non ce la farei mai, in mezzo al nulla in un posto sperduto.

Ovviamente la realtà è in quella zona mediana che nessuno immagina. Non viviamo in un villaggio Valtur né in una capanna di fango.
Una volta, in Italia, mi chiesero se qui avessi la televisione in casa, se avessi acqua, se ci fosse corrente.
Ehm sono in una capitale e mio marito lavora in un’Ambasciata, secondo te?

L’Africa è un luogo strano pieno di enormi contrasti e penso uno dei luoghi maggiormente stereotipati dell’intero pianeta.
Quando dici che sei in Costa d’Avorio molte persone non sanno dove si trovi, allora allarghi il confine e dici Africa.
Da allora in poi la mente registra “Africa” e partono tutta una serie di immagini viste in tv, su internet, nei sussidiari delle elementari o nei libri di geografia di medie e superiori.

Africa, per molti, è un luogo ancestrale e romantico, il luogo del selvaggio, dove il selvaggio significa naturale, senza sovrastrutture, un luogo dove è facile innamorarsi.
Africa, per molti, è la capanna senza nulla, sono bambini con la pancia gonfia, denutriti, abbandonati. È un posto dove si muore, più che dove si vive.

L’Africa è ovviamente entrambe le cose, in ogni nazione che la componga.
La Costa d’Avorio stessa è entrambe le cose, addirittura Abidjan è entrambe queste cose.

Chi vede da fuori vede il bianco e vede il nero, i suoi occhiali non permettono di vedere le sfumature. La bellezza nella difficoltà, la bruttezza nella facilità. La difficoltà della felicità, a volte.

Invece questo è un posto di chiaroscuri, di cose mediate, dove alcune cose sono più facili di quanto si possa pensare e altre cose inspiegabilmente difficili se non inarrivabili.

C’è chi vive nella bidonville ma ha il satellite (giuro), c’è chi manda i figli alla scuola privata ma non si preoccupa se chi lavora per lui puzza in maniera inenarrabile.
Contrasti, a volte sfortune, a volte scelte.
Un mondo sfumato tra bianco e nero, tra ciò che era nero e ciò che il bianco ha reso grigio, tra ciò che è ancora bianco.

Un caleidoscopio di realtà con grandi contrasti agli estremi e infiniti punti intermedi, da scoprire, da vivere, da raccontare.

Ma spesso gli occhiali della gente vedono solo il bianco e il nero. E tutta la poesia e il dramma del grigio va irrimediabilmente perduta.

lunedì 20 aprile 2015

400 metri di futuro



Gli ivoriani sono abituati a fare la fila.
Al contrario di noi italiani, che ci scazziamo, sbuffiamo e la viviamo male, loro sono lì diligenti e tranquilli ad aspettare. Ore.

Fanno la fila in fila, proprio. Ordinati, allineati. Se ci sono sedie, ogni volta che si scala di uno bisogna spostarsi fisicamente: non esiste il concetto del “chi è l’ultimo?”.
Gli ivoriani sono anche abituati a pensare che sia normale che uno più ricco, uno socialmente più elevato, un prete (e in questo caso che il loro Dio, quello in virtù del quale pensano di avere più diritti del poveraccio che gli sta affianco, li strafulmini, sinceramente) passino loro avanti.

Fanno la fila per comprare il pane, per pagare le bollette, per fare le analisi, per consegnare le domande di visto in Ambasciata; tranne quando sono al volante, gli ivoriani sono in fila.

Stamattina quattrocento metri (misurati col contachilometri della macchina) di ragazzi, in un’ordinatissima fila per due, attendevano davanti alla scuola militare, per consegnare i documenti di ammissione, vista l’età.
Quattrocento metri di fila sotto il sole equatoriale, che alle 8 e mezza è alto come alle 11 e mezza in Italia, con una temperatura di 35° e un’umidità del 75%.
Tutti in fila per un futuro diverso da quello di bracciante, di artigiano, di mendicante.

E mentre sei lì in fila anche tu, in macchina e con l’aria condizionata, ti chiedi il perché di tante cose.
Il perché delle file italiane davanti al negozio per essere i primi ad accaparrarsi un telefono che sarà in vendita anche il giorno dopo, la settimana dopo, il mese dopo.
Ti chiedi inevitabilmente anche dove, nella nostra cultura, si è persa la pazienza di fare la fila a favore della scorciatoia triste e spesso avvilente.

Quei ragazzi in fila stamattina profumavano di voglia di futuro, di fiducia in qualcosa. Educati, sereni, sorridenti.
E, come sempre, ti chiedi perché le persone non vedono quanto anche noi abbiamo da imparare.