lunedì 31 dicembre 2012

31 dicembre 2012



Ha avuto in comune con lei le efelidi e le ha trasmesse al suo primogenito. Ha ereditato anche la sua pelle chiara, delicata e fragile. Ha condiviso con lei l’esperienza di sposare un uomo, un mestiere, delle regole. Hanno mangiato insieme i crauti, il gulaš, le patate in umido e la potica.
Ha condiviso con lei i momenti di gioia, risparmiandole quelli duri, che le avrebbero fatto solo male.
Ha festeggiato insieme a lei compleanni, anniversari, matrimoni, nascite e battesimi.
L’ha vista commuoversi di gioia e piangere di dolore.
L’ha vista perdersi, quando il destino le ha tolto una figlia e le si è spezzato qualcosa dentro, perché sopravvivere ad un figlio è ingiusto e massacrante.
L’ha vista piano piano perdere contatto con la realtà, scordarsi di chi le stava intorno e poi anche di se stessa.
L’ha vista chiederle “e tu chi sei?” e l’ha sentita chiamarla in un attimo di riconoscimento, commossa dalla sua mano che le accarezzava il viso con la tenerezza di un gesto ridato dalla bimba cui lo faceva lei e che ora è una donna.
Hanno avuto in comune il cambiare la propria vita per amore di un uomo, il lasciarsi indietro la famiglia, gli affetti, gli amici, la propria quotidianità.
Le ha accomunate una vita diversa da come se l’erano immaginata, programmata e forse anche un po’ sognata.
Si sono riconosciute nella paura, per lo più atavica e ingiustificata, che accomuna tutte le donne, le compagne e le spose di chi come mestiere serve il suo paese e lo fa credendoci.
Hanno avuto parole, silenzi, lacrime, sorrisi.
Non li hanno più.
E questo, alla fra, fa decisamente male.
Quest’anno, dopo 4 anni, festeggi il tuo compleanno di nuovo con l’amore della tua vita, quello che è morto guardandoti negli occhi e dicendoti che ti amava. Quest’anno mi piace immaginarvi che ballate la vostra canzone: vieni c’è una strada nel bosco, il suo nome conosco, vuoi conoscerlo tu? E state stretti stretti e vi tenete per mano mentre spegni le tue prime candeline da presenza e non più da donna. E mi piace pensare che, ovunque siate, mi stiate guardando e magari alzate il calice insieme a me.
Buon compleanno nonna Tina, mi manchi immensamente…

venerdì 28 dicembre 2012

Adjamé



Al mercato di Adjamé l’aria puzza di sudore, immondizia  e poche speranze.
Al mercato di Adjamé le cose han prezzi decisamente diversi e dipendono dal colore della tua pelle.
Al mercato di Adjamé trovi vestiti, perline, giocattoli, stoffe, prodotti per la casa e tutto quello che ti può venire in mente.
Al mercato di Adjamé se sei una donna bianca è meglio che tu non ci vada da sola.
Al mercato di Adjamé è meglio non far foto.
Al mercato di Adjamé tutto è caotico, confuso, chiassoso.
Al mercato di Adjamé ti rendi conto che non c’è futuro per un popolo che sceglie di vivere in mezzo all’immondizia e pur avendo il cassone a un passo butta per terra qualsiasi cosa abbia in mano: fazzoletto sporco, frutta, cartaccia il tutto solo un sole impietoso e caldissimo che fa fermentare un altro po’ anche la carta, con buona pace della salute.
Al mercato di Adjamé se ci vai in macchina sedicenti poliziotti mettono le ganasce alle ruote e ti obbligano a pagare la mazzetta.
Al mercato di Adjamé la legalità diventa un nome comune senza alcuna definizione dietro.
Al mercato di Adjamé tutti cercano di venderti qualcosa, fosse anche un paio di jeans in cui entra la tua sola coscia destra (forse perché così ne compri un altro paio per la sinistra?)
Al mercato di Adjamé devi contrattare e saper rinunciare alle cose.
Al mercato di Adjamé le mamme tengono i loro figli pieni di moccio in mezzo alla sabbia sporca di qualunque cosa, a giocare per terra tra le pozze di acqua sporca, le bucce di frutta a fermentare e i cassonetti dell’immondizia aperti.
Al mercato di Adjamé hai una tremenda voglia di lavarti le mani dallo sporco e gli occhi dal poco futuro di quei bambini, che ridono felici a due passi dal colera.
Al mercato di Adjamé puoi far felici dei bambini con poco.
Ed è per questo, solo per questo, che la fra e la sua nuova amica Emilia sono andate lì. Han comprato vestitini, palloni, giocattoli da dare ad un centro sociale che li avrebbe poi portati nei quartieri poveri perché andare loro a fare le dame di carità bianche e ricche proprio non era cosa. Tutti carini, incartati col fiocchetto. Perché è Natale per tutti, è stato Natale per tutti. Perché bisogna aver fiducia. Perché bisogna insegnare a questi bambini con gli occhi adulti ad essere bambini. Perché il valore di un sogno o di un desiderio è una cosa inestimabile. Perché il più grande regalo è la speranza. Che qualcosa cambi, che qualcosa si avveri, che si passi dal concetto di sopravvivenza a quello di vita. Perché questi bambini sono bambini e l’unica cosa che hanno di diverso dai miei è la casualità di essere nati in un posto del mondo diverso. Perché potrebbero essere figli miei e ai miei figli io insegno il valore del sapersi sorprendere, commuovere, emozionare. Tutte cose che in alcune zone di questa grande realtà sono impensabili.
Al mercato di Adjamé il futuro, purtroppo, non è in vendita.

lunedì 17 dicembre 2012

Nostalgie



Poi ci son periodi che ti prende nostalgia.
Nostalgia di un posto in cui natale vuol dir freddo e luci e odore di bucce d'arancia a seccare sul termosifone.
Nostalgia di un posto in cui le strenne natalizie parlano la tua lingua.
Nostalgia di un posto dove i bambini si riempiono gli occhi di colori e la bocca di dolcini.
Nostalgia del piumone, del caminetto, di un qualcosa, un qualsiasi cosa che ti dia il senso dello scorrere del tempo.
Qui il tempo non esiste, i mesi si susseguono uguali con la sola interruzione della stagione delle piogge, con la stessa temperatura, gli stessi alberi sempre verdi, le stesse verdure nei banchetti.
E tutte le decorazioni che puoi trovare, e ce ne son tante, in verità, sembrano la pantomima della festa più che la festa in sé.
Nostalgia del cambiamento, dell'avvicendarsi di colori, delle mille e mille sfumature che il ritmo delle stagioni regala alla vita.
Nostalgia di un giacchettino la sera ché comincia a far freddo.
Nostalgia di quel qualcosa di indefinibile che ti fa riconoscere un posto come tuo.
La vita qui sa esser dura, nel suo proporsi sempre uguale, con la sola pietà di qualche giorno di pioggia battente.
Sa essere difficile nel suo proporti ogni giorno la stessa faccia, come la luna.
Nel suo non concederti una pausa, un colore diverso, un odore diverso.
Qui ti svegli la mattina di natale e potrebbe essere marzo o giugno o settembre se non ci fosse un calendario a dare una scansione all'altrimenti non definibile.
E i giorni ti volano via come quelle foglie ramate che vorresti veder andar lontano con un vento che non c'è e quando c'è porta solo acqua, acqua, acqua.
Sembra difficile rendersi conto di quanto sia dura, questa cosa.
Di quanto sia alienante per chi ha un bioritmo basato sull'alternanza ritrovarsi in una lunga estate calda senza fine.
E non è il caldo, no.
È la sensazione di una realtà immutabile, che ti sovrasta, che ti determina, che non lascia scampo.
E rimani sempre, tuo malgrado, con la speranza che domani mattina, al risveglio, vedrai una foglia cadere o un fiore sbocciare lentamente o addirittura sentirai voglia di metterti un giacchetto.
E poi ti alzi, guardi fuori e una parte di te ci rimane sempre un po' male.
È una lunga estate calda, passerà.

martedì 27 novembre 2012

Bagni. E dignità.



La fra ha appreso da poco che il 19 novembre è stato, come da ormai 11 anni, il World Toilet Day, ovvero la Giornata Mondiale del Gabinetto.
Ché insomma, il gabinetto è sempre una cosa di cui la nostra generazione parla poco. La generazione dei nostri nonni aveva un rapporto con le proprie funzioni corporali molto più tranquillo e sereno, secondo me. Senza contare che il gabinetto, inteso come lo abbiano noi, era un lusso: nelle zone più povere o senza acqua corrente c'era una latrina oppure un gabinetto in legno con un secchio di acqua, piovana generalmente, per mandare via il tutto...chiaramente, in entrambi i casi si trattava di un locale esterno alle case. L'avvento del modo moderno di costruire ha previsto, accanto alla colonna di scarico, anche una colonna di aereazione, in modo da evitare, come dire, ritorni di aria, ma all'epoca, anche il problema degli odori era abbastanza importante. Per quanto ci si potesse vergognare anche allora, il rapporto con l'espletamento delle funzioni corporali era generalmente più natuarale.
Ora come ora, che ogni piccolo odore del nostro corpo deve essere an-ni-en-ta-to (posso testimoniare sull'esistenza di un deodorante intimo, l'ultima frontiera dell'asettico), il bagno è sempre profumatissimo, dotato di aggeggi che appena ti muovi spruzzano fragranze spesso immonde più di ciò che dovrebbero coprire o di quelle malefiche tavolette che se quando tiri lo scarico sei sovrappensiero instintivamente ti prende un colpo e pensi di essere diventato un puffo.
E tutto questo, per noi, è normale: ti scappa, vai, chiudi la porta ché non sia mai, fai quel che devi, ti pulisci, tiri lo scarico e bon, se è il caso apri la finestra o spruzzi il deomefitico e via, esci felice e sereno.
Ci sono però, nel mondo, zone in cui il gabinetto non c'è. Cioé, voglio esser chiara: non è che è fuori, che è di legno e non di porcellana, che è una latrina improvvisata... proprio non c'è. Ti scappa? vai in camporella.
Per noi occidentali, l'andare in camporella è quasi una trasgressione, è quasi divertente: ti scappa, ti apparti, la fai. Poi però torni a casetta tua calda e bellina con le tendine ricamate in bagno e il copritazza in peluche.
Invece c'è gente, tanta, nel mondo, per la quale la camporella è l'unica possibilità, sempre, comunque, a qualsiasi ora, in qualsiasi giorno, piove o c’è il sole a picco.
La fra non ci pensava, a questa cosa. Nata e cresciuta (troppo, ma vabbé) nel ventre della vacca occidentale, la fra ha sempre dato per scontato il water, lo scarico, la carta igienica, lo scopino e poi, un giorno, si è resa conto che no, non è sempre così.
In Perù, per esempio, dove la fra e Marito Paziente sono andati in viaggio di nozze, gli impianti sono scarsi e non reggono il carico di fogna, perciò quello che devi fare lo fai, ma la carta igienica la butti nel cestino lì accanto. Ecco. La fra aveva guardato il bagno, il cestino, e appena ritrovata la parola aveva detto machedaverodavero? ad un, attonito quasi quanto lei, neo marito. Questo capitava, anche se non sempre, anche negli alberi a 5 stelle da 100 dollari a notte a persona (in Perù. 100 dollari.), tanto per capirci.
Poi la fra, un anno fa, è venuta qui. Qui la fra vive in una casa occidentale con la cucina, il bagno con il gabinetto vero e proprio separato dalla zona doccia, bidet (sìììììì, abbiamo il bidet, ancora non ci si capacità nella famiglia latana) e lavabo, le camere grandi, il terrazzo.
Ma basta andare poco lontano che la cosa cambia parecchio: lungo la strada che porta alla scuola patata c'è una piccola bidonville con le case (case... saranno tipo venti metri quadri quelle più grandi) col tetto in bandone (e visto che siamo a 500 km dall'Equatore la temperatura, anche di notte, non scende MAI in tutto l'anno al di sotto dei 24-25 gradi....praticamente son forni, non case). E' leggermente nascosta, la intuisci ma non vedi in faccia la realtà, se non vuoi vederla. E non sempre sei pronta a vederla, per la fra all'inizio era troppo accettare che lì dentro ci vivessero delle persone.
Poi la famiglia latana ha iniziato ad andare regolarmente ogni fine settimana al mare. E la fra, immediatamente fuori Abidjan, attaccata all'aeroporto, ha visto la sua prima vera bidonville. Una città, alternativa ed enorme, nella città. Una città tagliata dalla strada che porta al mare: da una parte le abitazioni (alcune pure coi muri di "pietra": un lusso) e qualche piccolissimo esercizio commerciale; dall'altra bar, ristoranti, luoghi di culto ed enorme a far da sfondo, l'oceano.
Su questa città nella città ci sono mille considerazioni da fare, e verranno fatte, ma quello che la fra non sapeva ed ha appreso in seguito è che la parte delle case è totalmente sfornita di bagni. Niente: non ci sono. La stragrande maggioranza di chi bigogno del bagno va nell'oceano, la cosa più vicina e tuttosommato più igienica. Per far questa cosa, però, le persone sono costrette ad attraversare una strada che nei fine settimana è trafficatissima ed è del tutto priva di illuminazione e sei di pelle scura ogni volta è una roulette russa. Tantissime persone sono morte così: per andare in bagno dopo l’imbrunire.
Per-andare-in-bagno. Per rispondere ad un'esigenza naturale come il bere, il mangiare, il dormire.
L'ivoriano medio ha quindi sviluppato culturalmente il concetto del "dove sto, la fo" e non di rado si vedono uomini anche in giacca e cravatta che accostano la macchina e la fanno la pipì lì, a bordo strada. Quando si dice bei panorami.
E se lo fa l'uomo col SUV sulle strade ad alto scorrimento (giuro), figurati se l'abitante della bidonville si fa qualche problema.
Quando però non devi fare solamente la pipì, per evidenti questioni igieniche, devi per forza allontanarti e allora, per chi vive sulla costa c'è l'oceano e chi invece vive nei villaggi ha l'opzione en-plein-air.
Se guardi la cosa da fuori ti vien quasi da sorridere, poi ti ricordi dei campeggi scout e della tua difficoltà a farla senza un bagno che fosse degno di esser definito tale, dai quali tornavi con una stitichezza tale che praticamente tua madre ti salutava con un guttalax on the rocks in mano. E allora la cosa prende tutta un'altra sfumatura.
Poi ti ricordi che sei una donna e che avere le mestruazioni senza un bagno o un posto dove lavarsi è poco meno di un incubo, senza contare che non puoi andare a scuola o svolgere qualsiasi attività sociale, in quei giorni.
E inizi a capire quanto un bagno sia una cosa assolutamente fondamentale e quanto tutto questo sia legato a doppio filo con il concetto di dignità dell'uomo.
Quanto una cosa che a noi sembra assolutamente piccola nello svolgersi delle nostre attività, sia in verità una cosa fondamentale e per qualcuno fonte di disagio, pericolo, vergogna.
Quanto, come sempre, bisognerebbe riflettere a fondo su quello che si ha e su che cosa implica l'averlo o il non averlo.
E quanto ci sia, ancora, da crescere.

lunedì 26 novembre 2012

Giornata contro la violenza sulle donne. Per non dimenticare. MAI.

Le riconosci.
Le riconosci nelle spalle curve e gli occhi bassi.
Le riconosci negli occhi che si dilatano di paura negli spazi bui.
Le riconosci per il loro cercare, quando entrano la prima volta in un ambiente, istintivamente, le vie di fuga.
Le riconosci dalla paura del contatto fisico.
Le riconosci dall'intesirsi quando qualcuno urla.
Le riconosci per il bisogno di controllare, di incasellare, di prevedere.
Le riconosci per il bisogno di una mano da stringere.
Le riconosci dalle nocche che diventano bianche di rabbia.
Le riconosci dagli occhi acquosi di lacrime che han paura di versare.
Le riconosci nel loro corpo segnato dai sensi di colpa.
Le riconosci dal voler dimostrare che loro sì, loro ce l'hanno fatta.
Le riconosci dal lampo di comprensione che attraversa i loro occhi al solo accenno di qualcosa.
Le riconosci.
Sono le donne che un giorno sono state fermate da un uomo, e da allora camminano su strade difficili.

lunedì 19 novembre 2012

Geppetto. L'epilogo?

Avevamo lasciato i nostri eroi con un tavolo spaccato che sarebbe stato sostituito.
Se ve lo foste chiesto, fino a due settimane fa, la situazione era ancora stabile: famiglia latana con tavolo rotto e Geppetto con tavolo rifatto, ma ancora nell'antro buio.
Già, perché, ovviamente, la fra e il Marito Paziente col cavolo avrebbero speso due volte i soldi del trasporto: quando fossero stati pronti tutti i mobili, avrebbero chiamato un  furgoncino.
Eccesso di fiducia, evidente.
Quando il tavolo s'era rotto, mancavano all'appello ancora la scrivania, il mobile per il televisore e il tavolino dell'angolo salotto.
Lo sbaglio fondamentale dei coniugi latana era stato impostare il rapporto con Geppetto sulla fiducia e senza fare pressioni: i nostri illusi volevano infatti che i mobili fossero fatti bene e si erano dimostrati (troppo) tolleranti sulla tempistica.
A loro svantaggio c'era stato anche il fatto che l'antro buio di Geppetto fosse collocato lungo la strada che porta al mare, a circa tipo 40 km da Abidjan. Una strada che se per qualche motivo non vai al mare, non è che ti sia proprio comoda e di strada, ecco.
Insomma prima c'era stato il viaggio in Italia, poi il trombo della fra, poi la stagione delle piogge, poi i due mesi italiani della fra e dei patati, poi il rientro a scuola e il risultato era che nessuno era stato col fiato sul collo di Geppetto. Che però aveva, dal dicembre scorso, tutti i disegni quotati dei mobili. Ci avrà asciugato il fritto, più o meno.
Per puro realismo, i coniugi latana s'erano pure decisi a semplificare il disegno dei mobili, onde non dover aspettare che poi Geppetto li rifacesse se non fossero stati fatti bene.
Ché Geppetto è taaaaanto caruccio, ma è talmente de legno che avremmo potuto chiamarlo Pinocchio.
Però sarebbe prima o poi arrivato  il tempo che pure la giobbesca pazienza dei coniugi latana si fosse assogliata con limite tendente fortemente allo zero. E quel tempo è arrivato circa a metà ottobre.
"Geppé, hai finito i mobili?"
Oui oui pas problems
Ecco, ora sto tranquilla.
Ce li fa vedere, nell'antro buio.
Anche nell'antro buio ci si rende conto, all'evidenza visuale, che, passi per il tavolo che da progetto deve essere di un colore diverso, scrivania, mobile per il televisore e tavolinetto sono di tre sfumature di marrone completamente diverse.
"Ehm, Geppetto, tesoro, questi tre mobili devono avere lo stesso colore, intesi?"
Oui oui pas problems
Aridanga.
"I mobili, come ti abbiamo più volte detto, ci servono. Quando possiamo far venire il furgoncino?"
"Ehm, devo sistemare il colore del tavolinetto, unificare i colori dei mobili e mettere i pomelli alla cassettiera della scrivania, diciamo giovedì prossimo, per stare tranquilli"
Fosse che fosse la volta buona, si dicono i nostri eroi fiduciosi e si rimane d'accordo per il giovedì successivo.
Nel frattempo Marito (sempre più) Paziente si accorda per il furgoncino e il trasporto.
Arriva il giovedì ed è tutto organizzato. Ci mettiamo in macchina e attraversiamo indenni perfino la zona dell'abattoire, dove c'è l'iradeddio di montoni, capre e caprette che ci fanno ciao addio, visto che il giorno seguente sarà il Tabaschi.
Che poi l'unico motivo per prendere i mobili in quei giorni è che la fra, la settimana successiva, ha invitato tipo 13-14 persone a cena per festeggiare il suo compleanno, altrimenti Marito (sì, ok, ma fino ad un certo punto) Paziente col cavolo si sarebbe messo, digiuno, al volante all'ora di pranzo e con più di 30° per prendere i mobili.
Chiaramente si era appurato circa un anno fa che i coniugi latana fossero coglioni, però qualcosa l'avevano pur imparata e han chiamato Geppetto prima di farsi tipo 80 km.
"Geppé i mobili son pronti? guarda che me 'ncazzo come una biscia potrei alterarmi un po' se vengo lì e non son come devono essere, lo sai?"
Oui oui pas problem.
Insomma arriviamo, con una fame immane (lo sa solo Dio, quanto ha rischiato l'amico cicciottello di Geppetto), all'antro buio.
Da fuori, contiamo. 1, 2, 3, 4: ok, i mobili ci son tutti.
Con l'occhiometro la fra vede anche che sono accettabilmente storti.
Poi, entrano.
E, indovina?
I mobili sono ancora di colori diversi. Si vede che il ragazzo s'è impegnato: son più scuri della settimana prima quindi li ha verniciati. Ma è chiaro come il sole che non ha usato lo stesso legno di base, visto che il risultato è diverso. La scrivania tende al caramello, il tavolinetto al marrone rosato e il mobile per il televisore al miele di castagno (il bello di fare l'architetto è che sai usare termini tecnici).
I coniugi latana a questo punto finalmente capiscono che le cose son due: o Geppetto è il più grande paraculo della storia o è completamente deficiente.
Umanamente propendono per la prima, ma il loro orgoglio spera per la seconda. Ai posteri l'ardua sentenza.
Si incazzano come mine, glielo spiegano con le buone, con le cattive, con le mezz'emmedie; la fra è quasi sull'orlo di dirgli "ma io mi fidavo di te"... ma non c'è nulla da fare, la sua risposta è sempre: i mobili si scuriranno col tempo.
Bene, Geppé, ma allora mi spieghi come mai la scrivania, che hai fatto per prima, è più scura  del mobile per il televisore?
Ma no, ho fatto prima il mobile.
Abbèllo, il disegno della scrivania te l'ho fatto dopo aver visto il mobile per il televisione fatto ma da rifinire.
A Geppé ma che vieni a rubà a casa dei ladri?
Geppetto, ripete la sua versione come un mantra.
Alché la fra gli dice che se è convinto di quello che dice, allora i mobili glieli pagheranno un tot in meno promettendogli di portargli il saldo a mobili scuriti.
Ennò, fa lui.
Essì, fa il Marito (al limite basso del) Paziente.
Ennò, insiste lui.
Al Marito (direi quasi non più) Paziente basta un sguardo per capire che la fra è sul punto di scuoiare Geppetto e foderare la con la sua pelle i loro mobili, in modo che abbiano un colore uniforme, quindi spedisce, con piglio sìculo, la fra (che stava effettivamente lustrando gli attrezzi da scortico) in macchina.
Tutto 'sto teatrino sotto gli sguardi un po' attoniti, un po' divertiti e un po' curiosi dei trasportatori.
Del secondo, e ultimo atto, la fra sa ben poco, ma sa che Marito (forse un giorno tornerà ad essere) Paziente ha spuntato uno sconto pari praticamente alle spese di trasporto.' N affare, insomma.
Saldato Geppetto, cui la fra ha segretamente augurato di spendere i loro soldi per andare a puttane e di non accorgersi in tempo che si tratti di travestiti (ché i luoghi comuni sugli uomini neri li conosciamo tutti no?), i nostri eroi si avviano, seguiti dal furgoncino coi loro mobili dentro.
Il leit-motiv del viaggio di ritorno è stato "ma quanto siamo coglioni", ma  redo che questo si potesse dedurre da tutta la storia precedente.
Arrivati a casa, scaricati i mobili, verifichiamo con orrore che i suddetti mobili stingono.
Ma mica poco, ché Geppetto voleva fare bella figura e quindi ha abbondato (che poi, si sappia, in Costa d'Avorio i mobili vengono tinti con una specie di vernice un po' cerosa che assomiglia terrificantemente al lucido da scarpe e non è detto che non lo sia).
Nei seguenti due giorni lo straccio e il prodotto per il legno diventano due periferiche del corpo della fra e finalmente si ottiene di potersi avvicinare ai mobili.
A tutt'oggi i mobili, se ti ci strofini sopra, ti macchiano i vestiti (il ché fa di molto incazzare la fra e di molto gioire il produttore dei detersivi locali) ma con attenzione la convivenza mobili-vestiti è possibile.
Solo che la fra l'altro giorno guardava il suo nuovo tavolo e notava che il decoro è più piccolo e decisamente meno bello, che il colore è più scuro, che l'effetto non è affatto lo stesso di cui si erano tanto innamorati l'anno scorso.
E con profonda commiserazione di se stessa si è resa conto che avevan fatto fare tutti i mobili a Geppetto proprio in virtù di quel tavolo bellissimo e del fatto che piacesse ad entrambi.
Così ora, per essersi innamorati di un tavolo, hanno 5 mobili di colori diversi, un po' stortignaccoli e hanno pure un tavolo diverso dall'oggetto del loro folle innamoramento.
No ma davvero, bella scelta.

martedì 6 novembre 2012

Un anno

Un anno fa, a quest'ora, la fra era su un aereo intercontinentale pargoli-munita e si preparava ad uno dei salti nel vuoto più grandi che avesse mai fatto.
Lasciata Parigi e lasciata l'Europa in compagnia degli ultimi sms della lalla, la fra si chiedeva legittimamente se avrebbe mai potuto mandare sms, se sarebbe sopravvissuta al caldo, se i bambini si sarebbero ambientati con facilità.
La fra, un anno fa, se lo ricorda bene, pensava che stava andando a casa. Nel posto che sarebbe stata la loro casa per quattro anni. Nel posto in cui Marito Paziente avrebbe prestato servizio per 4 anni. Nel posto in cui i suoi figli avrebbero imparato a scrivere e a leggere. Nel posto in cui anche lei avrebbe imparato una nuova lingua.
Quello che la fra allora non sapeva era che si sarebbe innamorata di un sole grande e arancione, che ci sarebbero state giornate veramente dure, che affrontare qualsiasi malattia lontano, così lontano, dai tuoi affetti è pesante.
Che avrebbe dovuto fare i conti con gli immancabili sensi di colpa occidentali e che avrebbe sperimentato un'intolleranza nei confronti di chi pensa che sei bianco sei un pollo da spennare, o una vacca da mungere.
Che avrebbe imparato a guidare una macchina di cilindrata imbarazzante e col cambio automatico.
Che si sarebbe emozionata sentendo cantare "volare", nella sua lingua, in un supermercato.
Che avrebbe avuto la voglia di prendersi tutti i bambini con gli occhi da grandi e portarli via dalla loro povertà e dalla loro mancanza di futuro.
Che avrebbe dato qualsiasi cosa, qualsiasi, nei giorni duri, per poter uscire a prendere un caffé con un'amica.
Che avrebbe dovuto mettere da parte delle cose di se stessa e farne uscire altre.
Che quello che ha sempre dato per scontato, scontato con è affatto.
Che dietro alle situazioni qui non c'è solo povertà, ma anche nessuna voglia di migliorarsi.
Che avrebbe provato molta rabbia, per questo.

A distanza di un anno, la fra è ancora convinta che questa sia casa sua e tuttosommato ci si trova anche bene.
E, nonostante i giorni duri, gli scazzi e le disavventure mediche, non ha mai pensato di tornare indietro, o di aver fatto uno sbaglio.

venerdì 2 novembre 2012

Meravigliose scelte didattiche

Il calendario scolastico della scuola patata prevede dei periodi di lezioni di un mese e mezzo circa (con frequenza dalle 7 e 45 alle 16 e 45, quattro giorni a settimana), seguiti da una settimana di "revisioni" e poi da un tot, variabile tra 10 e 15, di giorni di vacanza (cosa che metterebbe a dura prova ogni tipo di organizzazione lavorativa e familiare se non ci fosse l'usanza di avere un nounou- la tata- fissa in casa).
I periodi di "revisione" sono dei veri e propri esami di verifica delle competenze acquisite fino a quel momento.
Nella classe del patato piccolo non c'è un "programma", quindi immagino sia una cosina "all'acqua di rose", invece in classe del patato grande la cosa è più seria.
Durante la settimana scorsa è stato chiesto, a mio figlio di 5 anni, di scrivere, sotto dettatura, le parole "un" e "deux" e di scrivere le vocali a seconda del suono che percepisce nelle parole pronunciate dalla maestra, il tutto in un quaderno in cui il corpo centrale della lettera (l'altezza delle vocali, per capirsi) non supera i 3 mm e in corsivo.
Se si esce dalla riga, viene considerato errore e viene valutato come tale. Qui c'è un'attenzione quasi maniacale per la calligrafia.
Per l'esame di matematica è stato invece necessario dimostrare di conoscere il concetto di numero e di saper raggruppare, in gruppi di due, degli oggetti affini, cerchiandoli o colorandoli. Per quanto riguarda la geometria si doveva dimostrare di saper riconoscere e disegnare un quadrato, un rettangolo, un triangolo e un cerchio.
Poi c'erano due poesie-filastrocche da imparare a memoria.
Cioè, questa è la prima verifica della Grande Section, ovvero dell'equivalente italiano dell'ultimo anno di scuola materna, non so se ho reso, come dire.
Nel cahier de le comunication (quaderno delle comunicazioni tra scuola e famiglia), i coniugi latana, non più di 20 giorni fa, hanno trovato una serie di fogli in cui c'erano suggerimenti su come aiutare il proprio figlio ad avere una routine di studio per rimanere in pari con la didattica. Nel caso non ci riuscisse, ci sono dei corsi dopo la fine delle lezioni, come delle ripetizioni, in cui gli alunni vengono, chiaramente a pagamento, aiutati a fare i compiti e a "rientrare in carreggiata" con il resto della classe e con quello che ci si aspetta debbano sapere e saper fare.
La scuola, o meglio quella dei patati, è fortemente meritocratica: hai le competenze, vai avanti. Non le hai, rimettiti in paro e in fretta, altrimenti ripeterai l'anno.
Il metodo di Maitresse Esigente, l'insegnante di patato grande, è basato sull'esercizio quotidiano, sia a casa che a scuola. In pratica, non passa giorno o quasi che patato grande non abbia dei compiti da svolgere. Per capirsi: scrivere "un" e "deux" per tipo 12 volte di seguito senza uscire dalle righe, è stato il compito in assoluto più lungo e complicato (e partendo da zero è effettivamente complesso per un bimbo di 5 anni).
Insomma, passati i giorni e le settimane, patato grande ha preso sempre più confidenza con la scrittura, scrivendo con entusiasmo tutto ciò che imparava a scrivere ("un", "deux" e le vocali in corsivo e il suo nome in stampatello).
Finché l'altro giorno ci ha annunciato di aver imparato a scrivere la sua prima parola.
Che non è "maman" o "papa", no.
La prima parola che mio figlio ha imparato a scrivere è "ami".
Amico.

Sarà una parola che ti accompagnerà per tutta la vita, patato grande: giustatela e non aver timore di usarla e di scriverla. Che questa parola di cui sei tanto fiero ti sia compagna nei giorni belli, brutti, comunque importanti.
E' fortemente simbolico e bello che questa sia la tua prima parola scritta, ora non lo sai ma quando, da grande, lo capirai sarai anche tu grato a questa scuola così diversa e multietnica che pensa che "amico" sia una parola fondamentale e te la dona come il tuo primo traguardo.
Mamma e papà ci saranno sempre, ma un amico...beh, te ne accorgerai, amore mio. La complicità, la confidenza e talvolta la fiducia che mai penserai di poter provare con qualcuno...tutto questo è rinchiuso in questa tua prima, semplice e meravigliosa parola.
Fanne buon uso.