E poi li abbiamo accompagnati. Li abbiamo presentati alle
maestre, abbiamo parlato con quella di Patato Piccolo spiegandogli che avevamo
avuto brutte esperienze. Abbiamo rassicurato un figlio-koala, ci siamo stretti
il cuore quando lui per istinto ha rifiutato il mio bacio quando lei si è
avvicinata, poi lei ha sorriso e io ho potuto dire a mio figlio, con serenità,
che a questa nuova maestra non importa quanti baci ci diamo.
Abbiamo visto l’abbraccio tra il grande e il suo amico Kehyan, lontani per due mesi e vicini nel banco. Due sorrisi gemelli nel ritrovarsi. Due bambini che superano i colori e la lingua. Keyhan ha la mamma francofona ma ha vissuto in America fino a due anni fa e di fatto la sua lingua è l’inglese, come quella di Patato Grande è l’italiano. Stesse difficoltà, stesso bisogno di trovare certezze e amici. Anche Kehyan ha cambiato scuola, è stata la sua mamma a suggerircela. Una mamma africana che è cresciuta in Belgio e che ragiona da occidentale, legge ai figli, li segue, li accompagna, li conosce. Una delle quattro mamme che la fra ha conosciuto in due anni nella vecchia scuola.
La nuova scuola ci ha presentato tante mamme, invece. Forse scemeranno durante l’anno, chi lo sa.
Tranne due bimbi della parte del “nido”, siamo gli UNICI bianchi della scuola. Non ci sono neanche libanesi, qui. Solo neri. Se lo dici in Italia, neri, sei razzista. Sono neri, il nero è un colore. Noi siamo “les blancs”, per loro. Non dicono “quelli chiari” “quelli più chiari” “quelli di non colore”, dicono “les blancs”, perché siamo bianchi e loro neri, semplicemente. Perché è solo un colore.
Intorno a mio figlio grande c’è curiosità, soprattutto da parte delle bimbE: un bimbo biondo, occhi chiari, lentiggini… lo guardavano con i risolini della civetteria e io ero sempre lì a chiedermi cosa noi bianchi abbiamo sbagliato culturalmente per aver perso la curiosità e aver messo al suo posto la diffidenza.
Anche io sono diffidente, ne ho motivi, ormai. Ma non verso i bambini. Penso sempre che questi bimbi siano la speranza per il loro paese, per la loro cultura, per un futuro comune. Penso che dalle differenze ci si possa arricchire e crescere, magari insieme.
Mentre pensavo a questo, mentre vedevo questa moltitudine di bambini e ragazzi di tutte le età, mi stupivo nel constatare che no, non sono più ciecamente arrabbiata. Che quando vedo i bambini e i ragazzi che, in divisa, son lì per costruirsi un futuro diverso, l’unica emozione che provo è la commozione e la felicità. Che alla fine mi son (ri)scoperta felice di essere qui. Sono più disincantata, quello sì. E forse è anche giusto che sia così.
Abbiamo visto l’abbraccio tra il grande e il suo amico Kehyan, lontani per due mesi e vicini nel banco. Due sorrisi gemelli nel ritrovarsi. Due bambini che superano i colori e la lingua. Keyhan ha la mamma francofona ma ha vissuto in America fino a due anni fa e di fatto la sua lingua è l’inglese, come quella di Patato Grande è l’italiano. Stesse difficoltà, stesso bisogno di trovare certezze e amici. Anche Kehyan ha cambiato scuola, è stata la sua mamma a suggerircela. Una mamma africana che è cresciuta in Belgio e che ragiona da occidentale, legge ai figli, li segue, li accompagna, li conosce. Una delle quattro mamme che la fra ha conosciuto in due anni nella vecchia scuola.
La nuova scuola ci ha presentato tante mamme, invece. Forse scemeranno durante l’anno, chi lo sa.
Tranne due bimbi della parte del “nido”, siamo gli UNICI bianchi della scuola. Non ci sono neanche libanesi, qui. Solo neri. Se lo dici in Italia, neri, sei razzista. Sono neri, il nero è un colore. Noi siamo “les blancs”, per loro. Non dicono “quelli chiari” “quelli più chiari” “quelli di non colore”, dicono “les blancs”, perché siamo bianchi e loro neri, semplicemente. Perché è solo un colore.
Intorno a mio figlio grande c’è curiosità, soprattutto da parte delle bimbE: un bimbo biondo, occhi chiari, lentiggini… lo guardavano con i risolini della civetteria e io ero sempre lì a chiedermi cosa noi bianchi abbiamo sbagliato culturalmente per aver perso la curiosità e aver messo al suo posto la diffidenza.
Anche io sono diffidente, ne ho motivi, ormai. Ma non verso i bambini. Penso sempre che questi bimbi siano la speranza per il loro paese, per la loro cultura, per un futuro comune. Penso che dalle differenze ci si possa arricchire e crescere, magari insieme.
Mentre pensavo a questo, mentre vedevo questa moltitudine di bambini e ragazzi di tutte le età, mi stupivo nel constatare che no, non sono più ciecamente arrabbiata. Che quando vedo i bambini e i ragazzi che, in divisa, son lì per costruirsi un futuro diverso, l’unica emozione che provo è la commozione e la felicità. Che alla fine mi son (ri)scoperta felice di essere qui. Sono più disincantata, quello sì. E forse è anche giusto che sia così.
Vedrai che adesso andrà tutto molto meglio.
RispondiEliminaUn abbraccio anche ai patati.
Pat
Un po' di speranza. Era quello che serviva anche a me (anche se lo so che, qui, nella nostra ricca Italia, avrei poco di cui lamentarmi...)
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