lunedì 20 gennaio 2014

Casualità



Alla fine siamo tutti figli di scelte e casualità.
A partire dal “se mio padre quella sera fosse stato stanco”, passando per “se i miei genitori quel giorno non si fossero incontrati”. Una marea di “se” a definirci e raccontarci.

Ho letto da poco un libro (Venuto al mondo, di Margaret Mazzantini, che vi consiglio vivamente, ma occhio che non è un libro leggero) e mi ha scavato dentro e che parla di una terra vicina ma culturalmente lontana, che mi è molto cara.
Sebbene io non sappia che qualche parola, poche, pochissime, di quella lingua complicata, le mie origini sono in qualche modo legate a quella terra.
Quella terra dove mia nonna è nata in una di quelle finestre temporali di italianità di quelle zone, che per anni sono state “zone di confine”, con un confine che cambiava colore e lingua ogni volta.

Mia nonna era slovena: ha imparato a vivere, in solveno, seppure il suo certificato di nascita la dichiarava italiana. Sapeva ovviamente l’italiano, ma la lingua della casa era lo sloveno.
Poi si fece grande e si innamorò di un giovane soldato italiano di confine. Erano bellissimi, insieme. La fotografia del fidanzamento mi presenta due giovani orgogliose fiduciosi nel futuro, due persone determinate e felici.
Tra quei due ragazzi e i miei nonni c’è stata una guerra, una prigionia, un ritrovarsi e un ricominciare.

Ma il “se” che quel libro mi ha portato a galla è tutto nella scelta di quel ragazzo di prendere sua moglie e sua figlia ancora piccola e metterle su un treno in direzione uguale e contraria a quella che aveva portato lui a conoscerle.
Io me li immagino, quei due ragazzi, che si salutano con la speranza e la paura ad inzuppargli i vestiti. Me li immagino rimasti soli, due metà di qualcosa che solo insieme aveva un suono.
Se mio nonno non avesse fatto quella scelta, io non sarei ovviamente nata da mio padre. Mia madre probabilmente ci sarebbe stata lo stesso e avrebbe conosciuto un bel ragazzo, si sarebbe sposata, chissà forse sarebbe diventata insegnante lo stesso.
Io sarei stata un’altra me, con un altro nome, un’altra fisionomia, altri sogni.
E quella guerra intestina avrebbe riguardato anche me. Avrei visto che io amici prendere il fucile l’uno contro l’altro solo per una diversa origine. Avrei forse, sicuramente, avuto paura, anche.

Sono stata poche volte in quei posti. Ci sono stata quando era ancora Jugoslavija; ci sono stata quando la guerra separava qualcosa che era stata unita dagli uomini e non dall’evoluzione naturale e storica di un luogo; ci sono tornata quando tutto era finito.
I miei viaggi jugoslavi si erano sempre fermati alla Slovenia, ai parenti, alla zona più occidentale di quel mondo slavo così vicino e così nettamente diverso.
Fu nel 1986, a Pasqua.
I miei, con i miei zii, organizzarono un viaggio “on the road” lungo la Jugoslavija. Il punto di partenza era Bled, dove viveva la sorella di mia nonna, zia Leopoldina, una signora anziana ma lucidissima e ospitale. La tappa successiva fu Maribor: altro fratello di mia nonna, altre parti di una famiglia che conoscevo solo di nome e che stranamente era anche la mia.
Dopo le tappe obbligate, iniziò il viaggio vero e proprio. Attraversammo la Croazia, ci innamorammo di Zagabria, ci arrendemmo alla meravigliosa natura di Plitvice.
Scendevamo.
Se visitammo Sarajevo, non lo ricordo. Ho un’immagine strana, sfocata, nella memoria, di me e mia zia su un ponte: potrebbe essere il tristemente famoso Monstar.

La me stessa bambina di 9 anni non aveva alcuna nozione per capire la verità dietro a quel posto così diverso, nella sua rètina rimasero però imprigionate immagini e sensazioni.
Quella povertà dignitosa, quelle donne dimesse, affaticate, a far la spesa in negozietti che si definivano “supermercati”.
La mia mamma, alla stessa età che avevo io allora, si era chiesta perché mia nonna mandasse a sua sorella, insieme a viveri, coperte ed altre cose, anche un pettine.
La memoria di mia madre ha registrato la povertà di quella gente attraverso il dono di un pettine; la mia attraverso le differenze tra quelle donne dimesse e mia madre, bella nel suo essere curata e in ordine, nel dettaglio dei capelli coi colpi di sole o delle scarpe comode.
La vita, nella Jugoslavija del 1986, non era ricca, non agli occhi di una bambina di 9 anni e mezzo.
Qualche anno dopo, pochi in realtà, la guerra, che ben poco segnò la Slovenia, si portò via tanti sogni e tante vite, dalla Croazia in giù.

Questo pensavo: se mio nonno avesse fatto una scelta diversa, una di quelle vite avrebbe potuto essere la mia. Pensavo che mia madre avrebbe potuto innamorarsi di una serbo, o un bosniaco, e seguirlo nel suo paese. Che avrei potuto essere un’adolescente sarajevita con la vita sempre in tasca e il fantasma della paura come ombra.
Io quella guerra l’ho pianta. Ho pianto i bombardamenti di Zagabria, di Plitvice, di quei posti che avevo conosciuto e amato. Ho pianto una guerra assurda, una città sotto assedio che nessuno forse ha avuto voglia di liberare. Non hanno il petrolio: che si ammazzino pure tra loro.
Ho pianto i bambini uccisi dai cecchini per gioco, ho pianto le donne violentate sistematicamente per riprodurre il seme dell’odio.

L’ho pianto, tutto questo, per quelle poche, pochissime, parole di sloveno che so. Per la potica a Natale e Pasqua, per lo sveta n a Natale che mi insegnarono mia madre e mia nonna quando ero bambina.
L’ho pianto per le mie efelidi, per quei pochi tratti che ho ereditato da mia madre e lei dalla sua.
L’ho pianto per quel “se”. E quando ne rileggo, o ne riparlo, lo piango ancora.

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