Una delle lezioni più importanti dell’esistenza, quella
subito dopo quella su come funziona il cervello di un uomo credo, deve essere
stata quella sull’evitare di fissare degli standard, nell’offerta che si fa di
sé e del proprio tempo e impegno. Ovviamente me la sono persa.
Ci pensavo mentre, dopo aver passato mezza mattinata,
rimandando anche delle cose di lavoro un po’ urgenti, a spignattare per portare
in tavola qualcosa di buono, sano e gustoso per i miei figli, ottenevo
l’equivalente facciale di “che palle” allo scodellamento delle lasagne nel
desco familiare.
Tralasciando per un attimo la voglia che avessi di
mettergliele per cappello, a quei piccoli ingrati, riflettevo che se la
reazione dei miei figli a un cibo che io vedevo solo nei giorni di festa fosse
quella, forse avevo sbagliato qualcosa io. Forse li sto viziando, forse
semplicemente sto alzando troppo il livello delle loro aspettative, forse non è
un bene.
Non è un bene per loro, che forse non sapranno più apprezzare un momento “speciale”, il pranzo della domenica, il piatto preferito la sera del compleanno. Non è un bene per me, che finirò per non riuscire più a mantenere lo standard cui oggi, seppur con sacrifici e scelte (non lavoro la mattina? Lavorerò di notte, è semplice), li sto abituando.
C’è qualcosa di me che lotta profondamente contro questo
concetto: sapere di fare qualcosa di speciale (ok, che io, con la mia storia,
reputo speciale) per loro mi rende felice, non mi fa sentire stanchezza,
rimpianto, mi aiuta a non sentirmi in colpa quando devo finire un lavoro e non
posso dedicarmi a loro come vorrei e vorrebbero.
È ovvio infatti che ciò che do ai miei figli è la mediazione tra ciò che posso dare e ciò che loro desidererebbero, una coperta corta tra diversi bisogni e desideri che una volta copre di qua e una volta di là.
Cerco di non vivere la cosa con troppi sensi di colpa: hanno la fortuna di avere una mamma magari impegnata ma in casa, una mamma che puoi interrompere se hai un dubbio o un’esigenza; una mamma che può invitare a cena il tuo amico del cuore senza drammi, perché non ha cartellini da timbrare e può fare scelte.
D’altra parte, però, è anche vero che questa condizione porta comunque ad uno standard alto di offerta: solo per rimanere nell’ambito culinario, è abbastanza raro che i miei figli mangino qualcosa di rimediato e il “pronto da cuocere” non sanno neanche cosa sia. A mantenere uno standard alto, si rischia che tutto sia dato per scontato. E non è un bene per nessuno.
La verità, nuda, cruda e onesta, è che sono io che non sono
capace di darmi un punto. Che ho sempre paura che ciò che do non sia
abbastanza, in famiglia come negli affetti e non parliamo proprio del lavoro.
Che a parte la stanchezza o la prostrazione mentale, non ho un limite superiore
e ho un senso del dovere inox. Dovere autoimposto, ovviamente: so essere più
esigente e severa con me stessa di chiunque altro.
Su questo riflettevo, l’altro giorno: offrire così tanto, in termini di precisione, disponibilità, attenzione, impegno, è per chi ne beneficia più un regalo immediato o una possibile condanna nel futuro?
Se hai una risposta per favore, fammelo sapere.
RispondiEliminaA me capita in particolare con i viaggi o comunque le esperienze in genere, sono talmente abituati ad andare in giro che quando si svegliano la prima domanda è: dove andiamo oggi? E quando siamo in giro hanno sempre da ridire su quello che si fa o non si fa...
Sto tirando su dei viziati del viaggio?
Più dai e più vogliono, ma è normale. Vogliamo dare ai nostri figli il meglio di noi e quel meglio poi diviene scontato, ma non riusciamo e possiamo essere diverse. Quando saranno grandi capiranno molte cose e si renderanno conto che mangiare lasagne in settimana non è per tutti scontato.
RispondiEliminaAnche noi avevamo i piatti della domenica, risotto al vino rosso, lasagne o polenra e coniglio, oppure l'arrosto, piatti che in settimana non venivano mai proposti. Nella mia famiglia la domenica, da sei anni, è un normale giorno lavorativo e questa cosa si è persa.