La festa della donna è sempre un buon giorno per riflettere
sul nostro ruolo, su come siamo, su come la società ci vede.
Quest’anno la mia riflessione scaturisce da un recente e tristissimo fatto di cronaca.
Quest’anno la mia riflessione scaturisce da un recente e tristissimo fatto di cronaca.
Poco tempo fa un uomo ha sparato a sua moglie, si è
barricato in casa di lei e ha ucciso anche le loro figlie, prima di puntare la
pistola su se stesso e farla finita.
Tralascio tutte le considerazioni sul fatto che l’uomo in questione fosse appartenente alle forze dell’ordine e che abbia realizzato quello scempio con una pistola di ordinanza che forse, a conti fatti, sarebbe stato il caso non avesse più. Di questo mi aspetto e spero che qualcuno risponda, ma nulla toglie o aggiunge al fatto in sé.
Tralascio tutte le considerazioni sul fatto che l’uomo in questione fosse appartenente alle forze dell’ordine e che abbia realizzato quello scempio con una pistola di ordinanza che forse, a conti fatti, sarebbe stato il caso non avesse più. Di questo mi aspetto e spero che qualcuno risponda, ma nulla toglie o aggiunge al fatto in sé.
Le mie considerazioni sono altre e partono dalla triste constatazione
che nell’ambito della violenza sulle donne stiamo ancora sbagliando tutto,
purtroppo.
Non esistono “ma” e non esistono “se”: la violenza di genere
va condannata con forza, sempre e comunque. Non ci sono attenuanti possibili
per chi la commette.
Fin qui, a parole, tutto condivisibile e largamente
condiviso. Eppure, proprio a partire (al solito) dai mezzi di informazione
l’accento cade sempre (e nell’ultimo caso di cronaca l’ennesima conferma) sulla
cosa sbagliata: lei aveva chiesto la separazione (eh, immaginiamo un attimo il perché), lei gli teneva lontane le
figlie (anche qui: chissà per quale
motivo), lei lo aveva cacciato di casa.
Un modo di presentare le cose che vede la donna se non colpevole sicuramente corresponsabile dell’accaduto. Eh, ma anche no.
Un modo di presentare le cose che vede la donna se non colpevole sicuramente corresponsabile dell’accaduto. Eh, ma anche no.
Altri commenti che ho sentito in proposito sono stati del
tipo “non lo aveva denunciato” (come
se questo la rendesse, ancora una volta, complice). Vero eh, aveva presentato,
pare, un esposto. Un esposto non mette in atto misure protettive come una
denuncia, è bene che si sappia. Ma perché allora molte donne non denunciano?
Una denuncia stravolge la tua vita, la cambia, squarcia il
velo e permette a tutti di vedere la tua vita, di analizzarla, criticarla,
giudicarla.
Devi avere forza, una forza incredibile, per accettare tutto
questo. Devi essere convinta, non devi aver paura di rovinare la vita di un
altro. E se sei una persona cui qualcuno sta rovinando la tua, di vita, diventa
paradossalmente più difficile, anche se l'altro è proprio chi ti sta facendo
del male. Essere carnefice del tuo carnefice è pesante, ti mette in un certo
modo (ingiusto e sicuramente "malato") sullo stesso piano.
Mettere nero su bianco, firmare un'accusa pesantissima,
richiede un coraggio non indifferente... Ma lo capisce solo chi lo ha vissuto.
Io per esempio lo capisco benissimo, e sono una di quelle che per tanti motivi
non ha denunciato e non passa giorno che non se ne penta (non fosse altro che
per aver potuto, potenzialmente, evitare che quella persona facesse del male ad
altre).
Da dietro a una tastiera o da davanti ad uno schermo, sembra
quasi impossibile che una donna non denunci chi sistematicamente le fa del
male. Eppure spesso è così. Perché una donna che subisce molestie o violenza, o
viene picchiata, o è vittima di stalking è una donna vinta, fragile, che ha
anche bisogno di mentirsi e dirsi che va tutto bene. È una pasta malleabile
nelle mani sbagliate, è ridotta al rango di “qualcosa” più che di “qualcuno”,
con tutto ciò che sulla propria forza, volontà e capacità di agire questo possa
comportare.
Anni fa, tanti, aprii lo sportello di un armadio, quello in
cui mia nonna teneva le medicine. Ne presi alcune, a caso. Poche, tante, non
ricordo.
Quello che ho capito molto tempo dopo è che non volevo
veramente morire, volevo solo non esistere, volevo solo che tutto finisse. Non
ero pronta a raccontare la mia verità, non ero capace ad uscire da una
situazione orrenda e bastarda, non ero capace di farmi aiutare, non ero capace
di capire che non era colpa mia... Ma volevo solo pace, volevo addormentarmi e
scoprire che no, non stava accadendo a me. Quelle pasticche non erano neanche
una richiesta di aiuto, erano il solo modo che vedevo per far finire qualcosa
più grande di me, che non sapevo gestire.
Quelle medicine ovviamente non mi fecero nulla, ma nulla
nulla, chissà poi cos'erano. Ma quel nulla pesò come una sconfitta, e una
condanna. Mi fece capire che non sarebbe finita mai, se non attraverso una mia
volontà. Che la strada forse più facile non era quella giusta, che dovevo
affrontare il demone. E lo affrontai, ne uscii in qualche modo, ma ne uscii con
un senso di colpa che mi ha tenuto gli occhi bassi per troppo tempo. Ne uscii
portando a casa la pelle e affrontando giudizi dal peso specifico del piombo.
Per bilanciare quel peso ho dovuto mettere un peso addosso che non mi
esponesse, che mi ponesse al riparo dal desiderio altrui. Ero una
sopravvissuta, ma ero vista anche diversamente da chi fino a poco tempo prima
non mi aveva neanche mai calcolato. Anni bui, di cui ricordo un velo di estrema
solitudine e non comprensione, con un sottofondo costante e sfumato di
inadeguatezza e sensi di colpa. Per tanti, ero io la puttana.
Ci sono grandi responsabilità sociali, dietro alle violenze
di genere.
C'è una società pronta a concedere le attenuanti del
"ma" e le corresponsabilità dei "se". C'è una società che
giudica, che scandaglia, che rovista nel torbido con morbosità e senza empatia,
pronta ad entrare nella tua vita, nelle tue mutande, nei segni che hai addosso
senza sporcarsi le mani a fare qualcosa di concreto: perché se tocchi la merda
le mani te le sporchi e devi prendere una posizione netta e concreta, la stessa
che a parole è facile.
C'è una società che condivide parole, video o foto che
possono danneggiare la vita di un altro, senza chiedersi che impatto il loro
gesto potrà avere su quella persona.
Ho sempre voluto avere figli maschi. Credo che da una parte
derivasse dalla paura che ad una mia figlia potesse succedere quello che è
accaduto a me, mentre dall'altra ci fosse un bisogno inconscio di educare delle
figure maschili al rispetto che mi è mancato.
È con la nascita dei miei figli che ho accettato che non
potevo cambiare cosa era successo a me, ma ho capito contestualmente che avevo
l'enorme potere di fare in modo di educarli ad una vita migliore, in cui una
donna non venisse vista come ero stata vista, e vissuta, io.
Che potevo renderli consci del valore della vita umana e di
quanto le loro azioni potevano incidere sull'esistenza altrui.
È questa la grande sfida di noi genitori: questo continuo
insegnare, raddrizzare, volgere al positivo, dare spunti, limiti e tracciati
per fare dei nostri figli uomini (e donne) migliori e più consapevoli di quelli
(e quelle) che li hanno preceduti. L'insegnare a non conformarsi a modelli
forse più popolari ma non per questo più giusti. Dare loro un senso morale e
profondo, in cui collocare il rispetto per sé stessi e per tutti coloro che li
circondano... Senza compromessi, senza i "se" e senza i
"ma".