mercoledì 10 dicembre 2014

Sospensioni



Ed eccoci qui, con qui ben al di sopra del Sahara.

Dicevo, un po’ di tempo fa, che avevo paura del periodo del mio compleanno. Ecco, i miei reni hanno aspettato novembre, stavolta, per manifestare il loro dissenso al mio stile di vita.

Una colica pazzesca, un ricovero, un calcolo ostruttivo e uno sceso alla vescica, un viaggio aereo.
E ora, un’attesa. L’attesa di sapere se sarà possibile risolvere il problema oppure se dovrò rimandare.

Una partenza ragionata e programmata, stavolta. Una partenza più difficile, emotivamente devastante.
Nessuna paura, solo lucida consapevolezza della necessità del viaggio. E delle conseguenze.

L’anno scorso ho scoperto la mancanza giorno a giorno, quest’anno mi è arrivata addosso come un tir in contromano. Una mancanza che ha il contorno dei miei figli.
Posso stare lontana dal Marito Paziente, per quanto sia l’amore della mia vita e la mano che cerco quando mi sento persa; non posso stare lontana dai miei figli. Di loro mi perdo tappe quotidiane, sorprese, piccole scoperte.

Sto cercando di essere positiva, a volte è facile a volte molto meno.

Mi ritrovo un po’ sospesa e, su questo filo, non so da che parte guardare.

martedì 18 novembre 2014

Sessualità



L’Africa in generale, mi dicono, e la Costa d’Avorio in particolare, lo vivo, sono permeate dal fatalismo. L’ho detto e raccontato praticamente ovunque.

L’atteggiamento nei confronti della malattia non è di lotta strenua, almeno non nelle realtà tradizionali. Ci si rivolge al guaritore, allo stregone, al saggio del villaggio più che al medico col camice bianco, spesso. Troppo spesso, a volte.

Nei miei primi tempi qui, ho avuto modo di frequentare diciamo un filo troppo assiduamente la clinica internazionale. Che ok ha l’aggettivo “sainte” (santa) nel nome, ma che è un policlinico gestito da gente laica, dove lavorano laici e dove non c’è l’atteggiamento tipo “donna tu partorirai con grande dolore”, per dire.

In una delle sale d’aspetto troneggiava un cartello, anni fa: L’abstinence, c'est la protection sans risque contre le sida! L’astinenza è la protezione senza rischi contro l’AIDS.
Il ché è come dire che che per prevenire l’obesità basta il digiuno, più o meno. Un punto di vista illuminato e al passo coi tempi e con la società africana, insomma.

I cari, buoni, vecchi preservativi si trovavano solo nei supermercati diplomatici o nelle farmacie, pochi e di marche sconosciute, con mezzo dito di polvere sopra ogni scatola.

In tutto questo continuava una promiscuità figlia di ignoranza, istinto, fatalismo, poche speranze.

Ma qualcosa si sta smuovendo, pare.

I preservativi li trovi meno nascosti, e sono di più. E c’è meno polvere sopra.
Li trovi anche nei supermercati e puoi scegliere.

A metà anno scolastico, l’anno scorso, nella scuola dei Patati è stato fatto, per le classi dalla quarta elementare in su, un approfondimento sulla SIDA (l’AIDS) che parlava anche di sessualità, di come, perché e quando si usano i preservativi, sulla prevenzione delle nascite indesiderate.

Un qualcosa che, a giudicare dai cartelloni prodotti dai bambini, parlava anche di autocoscienza e di come ci potessero essere alternative possibili ad una vita da mamma adolescente, per una bimba africana. Il tutto, ovviamente, per un pubblico dagli 8-9 anni in su.

Certo, una scuola privata. Però una scuola privata frequentata praticamente esclusivamente da gente locale. Con i soldi, tanti soldi, ma locale.
Gente figlia di una cultura che ha dentro lo stesso fatalismo di quella che ancora vive nei villaggi.

Poi possiamo anche ragionare sul fatto che alle elementari, in Italia, non esiste una comunicazione di questo tipo. Che se la comunicazione fosse fatta prima del turbine emotivo ed ormonale dell’adolescenza, la sessualità non avrebbe nulla di morboso e la prevenzione sarebbe un’esigenza naturale come tante altre.
Mi piace pensare che ci si possa arrivare, anche da noi, prima o poi.

venerdì 14 novembre 2014

Pantere



Dovunque stiano andando e qualunque cosa stiano facendo, gli ivoriani hanno un portamento felino.

È una cosa che si è persa nel parvenu, ma che riscontri ancora nella media della popolazione.

Le donne di basso ceto camminano ondeggiando il bacino come pantere. Si muovono flessuose anche se magari pesano 150kg.
Sembra che si muovano a ritmo di una musica ancestrale che sentono solo loro.

È difficile spiegarlo, detta così sembra che ancheggino come certe ragazzette sgallettate italiane che sembra debbano vendere chissà che mercanzia dimenando i fianchi in maniera esagerata e pertanto, contrariamente alle intenzioni, sgraziata.

Ecco, proprio il contrario: c’è una grazia particolare, sottile ma evidente, nel movimento delle anche di una donna locale.
Cammina, si muove, non deve e soprattutto non vuole dimostrare nulla a nessuno col suo modo di farlo.

Se queste sono le premesse, non vi stupirà sapere che vederle ballare è uno spettacolo. Possono essere oggettivamente brutte, grasse, fatte male, ma mentre ballano hanno una sensualità innata assolutamente permeante.

Negli uomini questa “felinità” non è così evidente e immediata.
Ci sono però occasioni in cui riconosci il movimento ancestrale, anche negli uomini.

In Costa d’Avorio il pedone è al livello più basso della catena alimentare: non esistono strisce pedonali e nessuno rallenta se vede qualcuno attraversare (infatti spesso, agli incroci senza semafori, ci sono i vigili o i poliziotti per evitare stragi inutili). Questo fa sì che l’attraversamento sia fatto di corsa, sempre.

Le strade ad alto scorrimento, ad Abidjan, hanno spesso dei cordoli alti a fare da mezzeria. Questo significa che l’attraversamento deve essere, in genere, svolto in due tempi: attraversi la prima parte, ringrazi un dio qualunque, scavalchi, attraversi la seconda parte, ri-ringrazi il dio di prima o un altro a scelta.

C’è però l’eccezione. Ed è lì che vedi il felino.
C’è l’uomo che corre, spicca un salto e no, non supera il cordolo bensì ci si appoggia sopra con un solo piede per un nanosecondo e senza interruzioni continua il suo salto. Una roba che manco Super Mario.
Un movimento così sinuoso, perfetto, aerodinamico che ti stupisci ogni volta di come ci riesca.

Amo questo manifestarsi delle caratteristiche ancestrali che ci legano al regno animale.
Le vedi qui: da noi si sono completamente perse, temo.
E io non riesco a non innamorarmi, ogni volta, di questi uomini e queste donne, della naturalezza con cui fanno qualcosa che a noi ormai necessita uno sforzo, un pensare, un costruire.

Ci sono cose che di questo posto fanno paura.
Ci sono cose che ci fanno sentire stranamente bene e a casa.
Posso enumerarmi le prime per non pensare che dovrò rinunciare anche alle seconde.
Ma la parola che mi sale sempre alle labbra è perdita, non so perché.

lunedì 10 novembre 2014

occhi e mani



Gli occhi piccoli hanno guardato quelli grandi, trovandoci una riserva di amore ancora inespresso.

Gli occhi grandi si sono specchiati nei piccoli, leggendoci dentro quelle due sillabe che cambiano la vita di ogni donna, in ogni posto del mondo.

La mano grande ha preso la piccola, con la promessa di portarla a conoscere un mondo al di fuori da quello ristretto di una casa con troppi bambini e pochi adulti.

La mano piccola si è fatta rinchiudere nella stretta di quella grande, lasciandoci dentro i suoi sogni e le speranze in custodia.

Gli occhi piccoli si sono fatti grandi, immensi.
Quelli grandi  li hanno abbracciati.

È così che la mia amica E. ha conosciuto sua figlia.
E la bimba M. ha scelto sua madre.

domenica 9 novembre 2014

Muri



A volte mi fermo a pensare.

A pensare a quanti cambiamenti epocali ho visto accadere.
A riflettere su come le cose avrebbero potuto essere diverse.

Venticinque anni fa la caduta di un muro unificava una città assurdamente divisa in due. Era il 9 novembre 1989 e ricordo ancora perfettamente le lacrime di mia madre davanti a quel telegiornale storico che sanciva, di fatto, la fine della guerra fredda e l’inizio di una nuova era.

Io avevo studiato una geografia diversa, fatta di due Germanie, con due capitali. La portata di quell’evento, le lacrime di quei ragazzi che scavalcavano un muro pesante e denso di diversità, il ricordo dei tentativi di fuga… tutto sembrava ed era incredibile, agli occhi una tredicenne.

Avevo un orsetto da bambina, ricordo di un viaggio di lavoro di mio padre nella Repubblica Federale Tedesca. Per me era solo un regalo, ovviamente.
La cosa più preziosa che mio padre riportò da quel viaggio invece fu una foto, sfocata, rubata, scattata dall’autobus col quale si spostavano. Una foto del muro, una semplice foto. Ma trasmette annichilimento e angoscia.

Oggi, a quasi 40 anni, quella foto mi atterrisce e mi dà forza e motivi per sperare e lottare che cose del genere non accadano più, che i miei figli non debbano vedere città divise, confini presidiati, odio politico.

La geografia che ho studiato da piccola mi presentava un’Europa diversa, che oggi (per fortuna?) non esiste più. Sono state ridisegnate carte e paesi, sono state riscoperte coscienze e appartenenze che hanno unito cose che erano state separate o separato qualcosa che era stato forzatamente unito.

Venticinque anni fa, in quella fredda serata berlinese, è iniziato un percorso. Un percorso che ha portato pace al centro dell’Europa ma ha portato anche a libertà con prezzi altissimi, autocoscienze annegate nel sangue, guerre infinite e bastarde trascinate nell’indifferenza dei più.

È strano vederlo oggi, con l’età e la coscienza di oggi, da un posto così lontano socialmente, culturalmente e civilmente da qualsiasi forza fosse in campo all’epoca in Europa.

Tre anni in un posto così tanto diverso, ti permettono di guardare con distacco e obiettività il posto da cui vieni, le sue dinamiche, la sua storia. Di capire meglio le connessioni, le bellezze, le conquiste, le brutture, le ingiustizie, le possibilità.

Il più grande augurio per questi fratelli africani che la vita mi ha in qualche modo regalato, sono occasioni e occhi puliti per poter vedere, un domani, da lontano, o da incredibilmente vicino, cambiamenti così importanti nella loro realtà, nella loro autocoscienza, nella loro dignità.