martedì 30 settembre 2014

Trasformazioni



Abidjan è un mondo in divenire, ultimamente.

Il volto della città è cambiato e sta cambiando giorno per giorno.

La BAD (Banque Africaine de Developpemente) torna qui dopo 10 anni, nella sua sede storica e statutaria. Questo significa prestigio, soldi, persone, possibilità.

Nel concreto, ad Abidjan significa circa 10000 unità abitative in più, il terzo ponte, nuove infrastrutture, meno bidonville.

Significa anche più commercio.
La BAD attirerà qui persone da tutto il mondo e la città si sta preparando anche nelle piccole cose.

Lo storico centro commerciale, CAP Sud, è stato ampliato e migliorato e ha un supermercato che nulla, ma proprio nulla, ha da invidiare a quelli europei: elettrodomestici di marche internazionali, prodotti di importazione, ampia scelta in tutti gli ambiti, sfiziosità.

Nella nuova ala del Centro Commerciale trovi una nuova sede di Color Bois, un negozio meraviglioso che vende prodotti in legno decorati, cari morti eh, ma stupendi.
Trovi il negozio della Inglot, con tutte le novità.
Trovi l’ottica figa, l’erboristeria fornitissima.
Trovi il negozio monomarca Nespresso e quello Swarovsky.
Trovi il negozio di borse da quattro cifre, in euro.
Trovi un parcheggio sopraelevato e parcheggi per le famiglie.

Nascono nuovi supermercati diplomatici, nuove sale da tea, pasticcerie, gelaterie, ristoranti.

Le botteghe degli artigiani improvvisate sulla sabbia non ci sono più, gli ambulanti ai semafori spariti, le strade sembrano essere più sicure e la polizia stessa sembra essere meno a caccia della proverbiale mazzetta, a quel che ho sentito dire.

C’è più attenzione a livello sanitario e sociale.
sembra esserci, in giro, più interesse, più fermento, come se un po’ tutti facessero parte di questa grande avventura, di questa grande nuova speranza.

Insomma Abidjan si prepara a tornare ad essere la Parigi dell’Africa, almeno nelle intenzioni. Chissà che non ce la faccia davvero!

lunedì 22 settembre 2014

Con parole altrui #18. Nannetti, Cristicchi, Vecchioni.



Finalmente riesco a rimettere le mani anche su questa iniziativa a cui tengo veramente tanto, perché è una cosa che attraverso foglietti, post-it, diari di carta, files e blog, veramente mi accompagna da una vita.

E lo faccio con dei testi legati ad un’esperienza molto bella ed emozionalmente intensa fatta poco prima di tornare in Costa d’Avorio.

Igerstoscana ha infatti organizzato, a fine agosto, un incontro a Volterra in occasione della festa medioevale e con la straordinaria possibilità di visitare, seppur da fuori, il complesso del Manicomio. Una bellissima occasione, che mi ha permesso anche di incontrare dal vivo altre due instamamme e di aggiungere altri pezzi al mio puzzle emozionale.

Il Manicomio di Volterra, ormai in disuso da tanto e per questo in condizioni fatiscenti, è un pezzo di storia insieme cupo e aperto al mondo, un luogo dove, nonostante tutto, si respira speranza, non abbandono.

È un luogo di storie, di affetti; un microcosmo in cui ti è ancora possibile immaginare le persone camminare, guardare fuori o guardarsi dentro, sorridere o forse no.
È un luogo teatro di tante storie, di passi incerti, di reclusione, di piccole e o grandi violenze.

Chi ci parla delle persone e dei personaggi che hanno popolato quei padiglioni, lo fa con affetto, ricordando aneddoti, frasi, dando a quel contesto ancora voci e storie.

Sui muri esterni di un padiglione, una mente geniale, ritorta su se stessa, quella di Oreste Fernando Nannetti, ha scritto la sua storia, riappropriandosi di un tempo che lì non entrava a scandire l’esistenza. Un meraviglioso pezzo di umanità che emerge tra la scrittura storta di uno che doveva scrivere con la fibbia di una cinta per lasciare un segno di tutti i pensieri, grandi e piccini, che gli affollavano la mente. Storie, statistiche, varie espressioni di una vita proiettata al di fuori.
Sue queste bellissime parole.

Come una farfalla libera canta tutto il mondo è mio. E tutto fa sognare


In posti come il Manicomio di Volterra ti si proiettano immagini di un mondo che non conosciamo, che il più delle volte non vogliamo vedere.

La mente ritorna a poche, ma significative, immagini del film “La meglio gioventù”, automaticamente. Volterra è stata definita un incubo. Per capire bisogna rientrare in una mentalità che non ci appartiene più o di cui quantomeno oggi non giustifichiamo l’esistenza.


Come in ogni ospedale psichiatrico dell’epoca c’erano elettrochoc e cure pesanti, c’era il confino (non di tutti), c’era un ambiente pesante, nessun contatto in alcuni casi con l’esterno.
Ma Volterra era anche terapia del lavoro e limitazione della contenzione fisica. Per quel periodo, e si parla degli anni 20, un unicum.
Questo non assolve l’Ospedale Psichiatrico di Volterra dalle sue colpe né ne fa un’oasi felice, lo rende solo un po’ più umano in un panorama di desolante inumanità.

Proprio il Manicomio di Volterra ispirò la splendida canzone di Cristicchi, Ti regalerò una rosa, a metà tra l’esperienza personale di un malato e una riflessione esterna sulla malattia mentale. Leggetela, non ascoltatela, leggetela: io la trovo immensa.

Io sono come un pianoforte con un tasto rotto
L'accordo dissonante di un'orchestra di ubriachi
E giorno e notte si assomigliano
Nella poca luce che trafigge i vetri opachi
Me la faccio ancora sotto perché ho paura
Per la società dei sani siamo sempre stati spazzatura
Puzza di piscio e segatura
Questa è malattia mentale e non esiste cura

[…]

I matti sono punti di domanda senza frase
Migliaia di astronavi che non tornano alla base
Sono dei pupazzi stesi ad asciugare al sole
I matti sono apostoli di un Dio che non li vuole


Il mondo della malattia mentale è un caleidoscopio di vite lasciate indietro, di persone che forse un giorno si sono perse, di mani lasciate, di disagi, di solitudine, di pregiudizi.
È un mondo spesso violento nelle sue espressioni, verbali e fisiche; è un mondo difficile.


Nel calderone della definizione “malato di mente” sono rientrate tantissime patologie, negli anni. Patologie che escludevano una socialità e disturbi vari della personalità. Vi rientravano anche depressi o sovversivi. In alcuni casi un doveroso tener sotto controllo la violenza, in altri un confino doloroso per menti da una parte inceppate e dall’altra perfettamente lucide, meravigliosamente poetiche, a volte quasi profetiche, geniali.
Menti matematiche, come quella di John Nash, o menti che sapevano esprimere la bellezza e l’essenza delle cose con le parole, come quella di Alda Merini.

Ed è proprio a lei che è inevitabile pensare, quando si percorrono quelle strade di cui ormai la natura è tornata padrona, a Volterra. A lei e al grande omaggio che un cantautore, Roberto Vecchioni le ha scritto in musica: Canzone per Alda Merini.

Ne citerò solo una parte, ma vi consiglio di ascoltarla e leggerla tutta, merita. Ma ascoltarla a cuore aperto. Una colonna sonora perfetta per posti come il Manicomio di Volterra. Posti per capire e da capire. Magari lasciandosi un po’ sporcare dalla vita che è rimasta tra le pieghe e sui muri, dalle storie che vi sono passate attraverso.

Noi qui dentro si vive in un lungo letargo,
si vive afferrandosi a qualunque sguardo,
contandosi i pezzi lasciati là fuori
che sono i suoi lividi, che sono i miei fiori.
Io non scrivo più niente, mi legano i polsi,
ora l'unico tempo è nel tempo che colsi:
qui dentro il dolore è un ospite usuale,
ma l'amore che manca è l'amore che fa male.

[…]

perché basta anche un niente per essere felici,
basta vivere come le cose che dici,
e divederti in tutti gli amori che hai
per non perderti, perderti, perderti mai.




Vi piacerebbe partecipare a questa iniziativa? ogni venerdì, se si vuole mantenere un appuntamento settimanale ma non è obbligatorio, sul proprio blog ognuno può parlare di uno scritto, prosa o poesia, un testo, una canzone che lo fa riflettere ed emozionare, linkando questo post e mettendo poi il link nei commenti, così che chiunque passi di qui possa venirvi a leggere. Gli hashtag per ritrovarci, anche su Instagram e Facebook, sono #LTAconparolealtrui e #latanaafricana. Buon divertimento!

martedì 16 settembre 2014

Ali e disegni



Il periodo italiano è stato diverso, quest’anno.

Un periodo strano, tremendamente diverso da tutte le parentesi affini che lo hanno preceduto.

Mi ha sorpreso, stavolta, la familiarità in cui la nostra Tana Italiana mi ha accolto. Stavolta è stata nettissima la consapevolezza di un ritorno che puoi nominare in  mesi e non più in anni e la proiezione di una vita che si dispiegherà tra quelle mura e non più nel loro omologo africano.

Ci sono stati progetti, ci sono state chiacchiere, ci sono state nuovi incontri, ci sono state conferme, in quest’estate italiana.
Qualche seme che forse germoglierà, o forse no, ma che ci siamo goduti nell’immediatezza.

Mi sorprende tanto, questo cambio di punto di vista.
Ho lasciato la Costa d’Avorio a fine giugno con nessuna voglia di tornare qui; sono tornata qui rendendomi conto che tanti fili invisibili, per la prima volta, frenavano questo percorso che è sempre stato quasi rassicurante.

La nostra testa ha accettato l’idea di dover tornare a casa, di doversi confrontare con le cose lasciate indietro, ha cercato nuovi appigli e terra fertile da cui ripartire.
Ha percepito distacchi che spera di colmare, ha visto braccia aperte, ne ha avuto anche paura. Paura di mostrarsi per ciò che siamo diventati a persone che ci ricordano com’eravamo.

I nostri amici, e li amiamo molto per questo, ci ricordano felici che manca solo un anno e poi torneremo nello stesso continente, nello stesso Paese.
Vorrei, vorremmo, essere felici come loro, e non lo siamo.
Vorremmo essere capaci di spiegare loro perché non lo siamo, pur facendo loro capire quanto per noi siano importanti, quanto vogliamo loro bene.
Non è facile.

Abbiamo meno di un anno davanti per capire come evolverci portando con noi i segni di tutto questo cambiamento, altri nove mesi prima di uscire dal bozzolo che ci ha fatto crescere e maturare come nessun altro periodo della vita prima.

Abbiamo meno di un anno prima di dover spiegare le ali, con la speranza che il loro disegno, la nostra evoluzione, piaccia a chi lo vedrà.

sabato 13 settembre 2014

Sospensioni



Siamo tornati.
Tornati alla nostra pioggia calda, al cielo fosco, ad essere puntolini bianchi nel mare nero.
Tornati in quella che, per la prima volta in 3 anni, iniziamo a sentire meno “tana”.
Ci siamo scoperti, in Italia, proiettati nella nostra vecchia tana, con l’occhio e i pensieri tesi a pensare a come trasferire in quelle mura che ci han visti diventare quattro e poi partire, quello che siamo diventati.
Questi tre anni ci hanno cambiato tanto.
Sono stati un enorme banco di prova per la nostra famiglia, sono stati gradini aggiunti nella scala della nostra autonomia, sono stati finestre spalancate sul confronto e un vestire panni che in Patria vestono altri.
Ora bisognerà rendere giustizia a tutto questo, trasformare la Tana perché ci assomigli, perché ora come ora potrebbe essere la casa di chiunque, da quanto è impersonale.
La nostra casa italiana non parla di noi, parla il linguaggio confuso di una coppia stanca, sepolta dal supremo impegno di crescere due figli e farlo al meglio, parla il linguaggio di due bambini piccoli e di fiabe raccontate la sera. Parla il linguaggio di una donna che si sentiva sconfitta e dei trenta kg che la separano dalla donna di oggi.
Parla di fumetti da ragazza, libri per ridere, mille cose tenute per sentirsi al sicuro.
Oggi non siamo più quelli che sono partiti e stare lì è come trovarsi nella casa di un altro, solo che quell’altro eri tu. Uno specchio sul passato, prezioso e angosciante.
Anche la Tana Africana ci rappresenta meno, oggi.
Una data di scadenza stampigliata tra le scapole ci dice che qui siamo ospiti e non ci fa sognare modifiche, cambiamenti, personalizzazioni.
Avevo detto che no, a noi non sarebbe successo. Me l’ero promesso.
Avevo guardato gli altri smettere di attaccarsi alle cose e guardarle con distacco di chi sa esattamente quando dovrà lasciarle, e avevo detto “per me non sarà così”. Però se oggi vedo un oggetto, quell’oggetto è per la Tana Italiana, non per quella Africana.
Guardi le cose con distacco, ti affezioni meno. C’è chi è abituato all’idea di cambiare mondo ogni tot, i civili dell’Ambasciata, per dirne una, e non capisce il tuo smarrimento e le tue lacrime al pensiero che lascerai questa terra, questa casa, la te stessa che ti sei costruita qui.
In questo momento la vita è tornata alla quotidianità, qui. Bimbi a scuola, Marito Paziente al lavoro, io al pc per Instamamme o a lavorare su altro. Nei momenti di pausa, però, c’è un sottile senso di smarrimento, di vita che va troppo veloce, di qualcosa che vorresti non si fermasse o che forse sì, si fermasse.
Poi guardi fuori e ti rendi conto che l’anno prossimo a posto delle palme vedrai castagni e ti senti sospesa, tra ciò che sei e ciò che sarai.
Decidi di goderti le palme, poi chissà.