venerdì 16 maggio 2014

Giorni di pioggia




Oggi mi ha sorpreso la pioggia.
Pioveva già, in realtà, da più di tre ore ma nel sonnacchioso e poi frenetico inizio del giorno l'avevo percepita solo come un evento bagnato.

Uscendo dalla scuola, dopo aver lasciato i patati, invece, sono stata accolta da ciò che più amo della pioggia: l'odore.
In Italia l'odore della pioggia è un odore con una forte predominanza della componente "terra bagnata"; qui, che la terra è sabbia, la pioggia sa di altro.

Sa di fiori stuzzicati dalle gocce e smossi dal vento. I fiori, qui, non sono profumati, hanno bisogno di amplificatori per mostrarsi nella loro essenza odorosa.
Sa di foglie verdi di alberi cui non siamo abituati, che non conosciamo; quell'odore di risveglio di qualcosa che il sole sopisce ogni giorno.

Nella loro assoluta e meravigliosa semplicità, le persone accanto a me non si turbano per la pioggia. Non ci sono genitori frenetici, non c'è il senso di urgenza: la pioggia è un evento naturale, se ti bagni poi ti asciugherai.

Qualche ombrello, qualche k-way, colorati, belli, sereni.

E a contorno quest'odore di rinascita e speranza, di cose non evidenti, di bellezze da scoprire, di occasioni da cogliere.

Oggi Abidjan mi ha regalato un pezzo nuovo del suo puzzle.

giovedì 15 maggio 2014

Mercatini e panorami





Mettete che voi realizzate creazioni artigianali da più di dieci anni.
Mettete che, in mancanza di altre occasioni, sia stato e sia ancora l’unico modo per esprimere la vostra creatività.
Mettete che vi piaccia e vi faccia guadagnare qualche soldo, che voglio dire proprio schifo non fa.

Ora mettete che ci sia un mercatino ad Abidjan in occasione della festa della mamma (che qui è il 25 ma che è stato fatto secondo il calendario europeo, evidentemente).
Mettete che vi eravate informate, che una signora vi avesse detto “pas de problem (e già lì avreste dovuto iniziare a preoccuparvi), lo facciamo insieme”.

Mettete che vi ha tirato un bidone colossale e che abbiate scoperto, dopo aver realizzato un sacco di bigiotteria, che il posto per voi non c’era.
Mettete che ve la siete messa via, avete archiviato il tutto e avete detto, alla prochaine, serenamente.

Mettete che ricevete una chiamata alle 20 di venerdì sera che vi dice che sabato mattina alle 8, se volete, dovete essere lì a montare perché hanno trovato un posto per voi.
Mettete che ovviamente dite “mais oui, je serai là
Mettete che avete passato la seconda serata, la prima eravate fuori a cena: la chiamata è arrivata che stavate montando in macchina, a fare cartellini dei prezzi, etichette e biglietti da visita.

Ora mettete che avete avuto l’ansia da prestazione mercatara più grande della vostra vita.
Ché se già portare la propria creatività in piazza vi dà sempre quel senso di esame “positivo”, portarla in un posto che non è casa, dove non si parla la vostra lingua e dove i gusti e le abitudini sono diverse è l’equivalente della discussione della tesi (almeno qui non c’era il megaprofarchgrandearchitettodeimieicoglioni a giudicare in tre minuti netti un percorso di 5 anni di fatica, però).

Mettete che avete superato un altro gradino, che siete in più alto di venerdì scorso, che magari davanti c’è ancora una salita e potrebbe essere pure ripida, ma che qui, oggi, ora, c’è una piazzola di sosta da cui guardare da dove avete iniziato il cammino, due anni e mezzo fa.

Qui, oggi, ora, è un bellissimo panorama.

mercoledì 14 maggio 2014

Madame Dissout la Graisse



Madame Dissout la Graisse è la massaggiatrice della fra.
Quella, in pratica, che ha l’ingrato compito di smanacciare la sua ciccia per assottigliarne lo strato e, soprattutto, per combattere la ritenzione idrica allucinante che in questo posto si annida perfino sulle cosce delle zanzare, figuratevi su quelle della fra.

Madame Dissout la Graisse è una donna robusta, sorridente, con un’età indefinibile che dovrebbe avvicinarsi ai 60 anni.

Madame Dissout la Graisse ha muscoli potenti e ti massaggia per più di un’ora in tutto il corpo, sudando come uno scaricatore di porto e chiacchierando, se tu sei disposta a farlo.

La fra, che non riesce a gestire i silenzi e deve riempirli di qualcosa sempre e comunque, ovviamente ha deciso di affiancare alla stimolazione passiva dei propri tessuti anche quella attiva del proprio francese e si è lanciata più volte in conversazioni di ogni tipo con Madame Dissout la Graisse.

Hanno parlato di società, di bambini, di famiglia, di guerra, di lingua, di occidente, di Africa. Si sono confrontate per quello che sono, due donne.

Madame Dissout la Graisse è l’occhiale che permette alla fra di vedere da dentro una realtà, sicuramente parziale ma vera e vissuta, che non conosce. Di vederla con gli occhi di una donna africana che ha vissuto cose che la fra conosce solo, fortunatamente, dai racconti dei suoi nonni o dai libri di storia.

Tutto questo merita uno spazio a sé, in questo blog. Son cose troppo vaste e pesanti e dure che non le posso scrivere senza spiegarle, argomentarle. Non posso buttarle lì, son cose che vanno lette, capite, assaporate (per quanto il gusto sia cattivo eh) e digerite.

Quello che Madame Dissout la Graisse ha condiviso con la fra è uno spaccato di vita che merita rispetto e attenzione, che merita occhi bene aperti e testa libera che non voglia ritirarsi sotto la sabbia del è lontano da noi.

Ci saranno dei post, prossimamente, dedicati a questo. Uno al mese, non di più.
Ci sono cose che lasciano segni e aiutano a capire. Occasioni di crescita. Vi invito a coglierli, a rifletterci, come ho fatto e sto facendo io.

Madame Dissout la Graisse è una donna onesta che non vuole nulla se non lavorare, non ti chiede elemosina, non vuole pietà, ha muscoli forti e spalle larghe.
Ha storie da raccontare. E merita che vengano raccontate, semplicemente.

venerdì 9 maggio 2014

Con parole altrui #16. Samuele Bersani



Credo fermamente nell’uso e nel peso delle parole giuste. Ci credo da sempre e mi rammarico ogni qual volta non le trovo oppure non le so usare bene.

Non so gestire pagine vuote, silenzi, assenze. Scrivo e parlo anche da sola. Da che io ricordi.

Riempio di parole la mia vita, la mia mente, i miei fogli reali e virtuali, i miei occhi, le mie orecchie e quelle altrui.

Scrivo e parlo, parlo e scrivo. Anche quando non ho interlocutori reali, virtuali o di carta. Riempio la mente di parole anche mentre guido, dormo, faccio altro. Non stacco mai dai miei pensieri, nel bene e nel male, non mi concedo tregue e la maggior parte delle volte non le voglio.

Ho usato le parole come balsami e coltelli, per ferire e per curare. Le ho usate e le uso per descrivere e raccontare me, quello che vivo, quello che vedo, quello che sento.

Le ho usate per difendermi e per attaccare, le ho usate dolosamente inconsapevolmente e le ho caricate d’odio goccia a goccia.
Ne ho fatti sogni diventati concreti, ne ho fatte speranze disilluse, ne ho fatto perdite, lutti, rimorsi e pochi rimpianti.

Sono state, e sono, amiche fedeli e complici. Le ho usate per fare ironia, per fare polemica, per dimostrare qualcosa, per compiacere qualcuno, per esprimere giudizi, per consolare, per valutare.

Sono una persona che non dà scampo, con le parole. Amo la dialettica, sono polemica e non mi piace perdere. Sarei stata un ottimo avvocato, credo.

Ne uso sempre troppe, di parole: ne basterebbero in assoluto sempre meno. Ma mi piace usarle, giocarci, farle uscire e lasciarle a ballare un po’ nell’aria prima di sedimentarsi. Mi piace esprimere i concetti fino a fugare ogni minimo dubbio, negli altri e soprattutto in me.

Sono una persona che racconta e condivide tanto, forse troppo, praticamente tutto. Questo fa delle mie parole allo stesso tempo uno scudo e una feritoia nello scudo, ne sono consapevole. Ma il silenzio della mente mi spaventa molto di più che la ferita del cuore o dell’orgoglio.

Ogni parola che scelgo di pronunciare o scrivere non è mai a caso, è un mattone che mi costruisce. Così la percepisco, così la vivo. Soprattutto quando scrivo. Il mio primo pubblico sono sempre stata io, non so mai dove lo scrivere mi porterà, parola dopo parola. Ed è sempre fondamentale rileggermi, dopo. Dopo mesi, dopo anni. Capire chi ero attraverso la scelta delle parole che usavo, attraverso il modo di assemblarle.

Per questo amo questa canzone. Per questa personificazione della parola in qualcosa di esterno, così simile a me, così nelle mie corde.
Io la trovo bellissima, la condivido volentieri con voi.


Le mie parole – Samuele Bersani

Le mie parole sono sassi
precisi aguzzi pronti da scagliare
su facce vulnerabili e indifese
sono nuvole sospese
gonfie di sottointesi
che accendono negli occhi infinite attese
sono gocce preziose indimenticate
a lungo spasimate e poi centellinate, sono frecce infuocate che il vento o la fortuna sanno indirizzare

Sono lampi dentro a un pozzo, cupo e abbandonato
un viso sordo e muto che l'amore ha illuminato
sono foglie cadute
promesse dovute
che il tempo ti perdoni per averle pronunciate
sono note stonate
sul foglio capitate per sbaglio
tracciate e poi dimenticate
le parole che ho detto, oppure ho creduto di dire
lo ammetto
strette tra i denti
passate, ricorrenti
inaspettate, sentite o sognate...

Le mie parole son capriole
palle di neve al sole
razzi incandescenti prima di scoppiare
sono giocattoli e zanzare, sabbia da ammucchiare
piccoli divieti a cui disobbedire
sono andate a dormire sorprese da un dolore profondo
che non mi riesce di spiegare
fanno come gli pare
si perdono al buio per poi ritornare

Sono notti interminate, scoppi di risate
facce sopraesposte per il troppo sole
sono questo le parole
dolci o rancorose
piene di rispetto oppure indecorose

Sono mio padre e mia madre
un bacio a testa prima del sonno
un altro prima di partire
le parole che ho detto e chissà quante ancora devono venire...
strette tra i denti
risparmiano i presenti
immaginate, sentite o sognate
spade, fendenti
al buio sospirate, perdonate
da un palmo soffiate 



Vi piacerebbe partecipare a questa iniziativa? ogni venerdì, se si vuole mantenere un appuntamento settimanale ma non è obbligatorio, sul proprio blog ognuno può parlare di uno scritto, prosa o poesia, un testo, una canzone che lo fa riflettere ed emozionare, linkando questo post e mettendo poi il link nei commenti, così che chiunque passi di qui possa venirvi a leggere. Gli hashtag per ritrovarci, anche su Instagram e Facebook, sono #LTAconparolealtrui e #latanaafricana. Buon divertimento!

mercoledì 7 maggio 2014

Verbi e vita



L’importanza di passare dall’indicativo al condizionale.

Lo status di Amicadisempre su FB, qualche tempo fa.
Uno status che mi ha smosso dentro, che mi ha fatto riflettere un bel po’.

L’indicativo è il modo più egocentrico di vedere la vita: in qualsiasi tempo lo declini, implica certezze, imposizioni, un cammino segnato, decisioni già prese.
È un porsi rispetto alla vita di petto con le proprie convinzioni. È un modo utilissimo quando ci si pone un obiettivo importante, implica in sé già la voglia e la fiducia in se stessi di cui necessita la nostra avventura.

Il condizionale è il modo del dubbio, del compromesso: implica incertezza e mediazione, strade fatte un passo alla volta e decisioni in divenire.
È un percorso di vita fatto di mediazioni e interrogativi. È il modo che ci fa analizzare tutto ciò che facciamo, che implica l’importanza di prendere in considerazione fattori esterni da noi stessi.

Questo meraviglioso modo, il condizionale, implica l’accettare il compromesso di un “se” non governato da noi. È il modo verbale e psicologico più sociale che abbiamo poiché accetta che non tutto sia deciso, che ci siano altre persone e volontà da prendere in considerazione. La differenza tra “farò” e “farei”, nella società, è sostanziale.

Il condizionale implica in sé anche l’accettazione di un eventuale cambiamento e prende in considerazione quello che l’indicativo non riesce a gestire: l’imprevisto.
Inserire ed accettare l’elemento sorpresa nella propria vita non è cosa da poco: ci vuole maturità e neanche poca, a dirla tutta.

Il nostro percorso linguistico, parallelamente a quello psicologico, parte dall’affermazione di noi stessi e della nostra volontà. Per il bambino, l’”io” è tutto: ha bisogno di imporsi per attribuirsi una sicurezza di se stesso che gli permetta di superare i suoi limiti e non a caso l’indicativo è il primo modo con in quale ci si confronta.

Ad un certo punto, concedetemi il “dovrebbe”, entrare il condizionale, nel linguaggio del bambino. E non perché è importante che il bambino parli una lingua corretta (anche se, su questo, la fra è una talebana), bensì proprio per le implicazioni psicologiche che questo comporta.

La nascita e lo sviluppo dell’aspetto sociale della vita è necessariamente legata all’idea che non si debba affermare se stessi sempre e comunque e che si possa accettare, anche se a fatica, che la nostra volontà, scontrandosi con quella altrui, possa risultare perdente.

L’importanza di una mediazione, di una negoziazione, è fondamentale. Nel bambino e nell’adulto che diventerà. Accettare un condizionale è un passo enorme, nella vita. Fa la differenza tra l’immaturità e la maturità, tra l’asocialità e la socialità.

Il condizionale è il modo del dialogo e del confronto. Dovrebbe essere la forma verbale più usata al mondo. E invece.

Il condizionale è anche il modo dell’amore, dell’affetto e della stima. Ovviamente non nelle affermazioni, ma nelle decisioni: quando il “vorrei” vince sul “voglio”, la coppia funziona, per dire. Due “voglio” contrapposti fermano la vita, due “vorrei” camminano insieme cercando passi comuni.

Se l’indicativo è il modo dell’agire e dell’affermare, il condizionale è il modo del pensiero e della riflessione, come anche dell’accettazione e implica la grande maturità e coscienza di se stessi da riconoscere ciò che oggettivamente non si può da quello che è invece nelle nostre possibilità e capacità.

Il condizionale, usato con facilità, è la lingua degli alibi per se stessi. La differenza tra un “vorrei ma” e un “vorrei se” è sostanziale, nell’approccio alla vita.

Il condizionale è un modo meravigliosamente adulto di affrontare le vita, la socialità, i rapporti personali, il lavoro, il futuro.

Quando capisci l’importanza di passare dall’indicativo al condizionale hai fatto un passo enorme: non sei più una persona, sei una Persona. Con tutto il peso e l’importanza di una maiuscola.