lunedì 15 giugno 2015

Imparare a nuotare



Stavo per rispondere al commento di Moky sempre mamma a questo post.
Poi mi sono resa conto che più che un commento, ne stava nascendo una riflessione, e che una riflessione merita un post, non un commento.

Sono arrivata al punto in cui mi sono analizzata e perdonata. Ho davanti a me un oceano di paura nei confronti delle cose che non posso controllare.
Finora me la sono cavata con una zattera, è ora di imparare a nuotare, e di vincere la presunzione di doverlo imparare da sola.

Avere un buon rapporto con se stessi e con l’immagine che diamo di noi stessi, spesso è difficile. Per qualcuno no, per altri sì.
Alla base di un qualsiasi disturbo alimentare, c’è un forte disagio psicologico.
Quella cosa che quando ti concedi di guardarti in uno specchio, non ti permette di guardare te stesso, quanto invece ciò che pensi che gli altri vedranno di te.

Questa dicotomia tra ciò che sei dentro e ciò che sei convinto gli altri penseranno di te, è una delle più feroci forme di alienazione da se stessi. Perché hai due immagini del tuo essere qualcuno, e sei convinto che quella giusta sia quella che leggi negli occhi e nelle parole di perfetti sconosciuti.
Nei casi più gravi questa dicotomia tocca la sfera del pensiero, nel mio caso, per fortuna, si ferma all’esteriorità.

Io ho paura, del mio corpo. Della sua capacità, o anche solo della sua possibilità, di portarmi in posti e situazioni che temo. Li temo perché li ho già visti, pianti, sofferti e perché dopo tanti anni sono ancora qui a leccarmi le ferite e a perdonarmi quella minima responsabilità nell’aver permesso mi venissero inflitte.

Quando, in questi ultimi 25 anni, ho deciso di dimagrire (per stare meglio, più che per piacere a qualcuno), mi sono scontrata proprio con questo. Un’immagine corporea che mi assomigliava di più, senza dubbio, ma che mi rendeva molto più vulnerabile.
Un complimento, già solo fatto da una donna, mi faceva tremare le ginocchia per mezzora (e no, non è un’esagerazione), per cui ricominciava la fase della negazione della sostanza estesa a favore di quella pensante.

Tre anni e mezzo di Africa non hanno ovviamente risolto la situazione, ma mi hanno dato la possibilità di “vederla da fuori” senza che fosse appesantita da giudizi di qualunque genere, tale e quale fosse.
Mi hanno fatto capire che per quanto abbia passato gli ultimi 25 anni a lavorare su me stessa per avere il coraggio di uscire da casa ed espormi allo sguardo altrui, per quanto abbia vinto tante battaglie è forse arrivato il momento di farmi aiutare ad andare oltre.
Ad accettare di poter liberare la farfalla che è in me senza il terrore che qualcuno la catturi, le faccia del male, la privi della sua libertà intrinseca, dei suoi colori, della sua voglia di volare.

C’è forse un limite ultimo ove ti devi fermare, ed è quello in cui capisci che hai scandagliato lo scandagliabile in solitudine, devi metterti in gioco e giocare e visto che il tabellone ti fa paura, devi trovare il coraggio di farti aiutare da qualcuno.
Qualcuno che non ti conosca, che non abbia preconcetti, che veda la tua vita con empatia ma anche con obiettività, qualcuno che non sia implicato con la tua storia e con le sue conseguenze. Qualcuno che ti aiuti a trovare le tue risposte, quelle che vanno bene per te e non per chiunque.

Qualcuno che non sia parte della tua vita, perché dare a qualcuno che ami questo compito, lo rende Qualcuno e lo carica di responsabilità che non deve avere. Si deve imparare a star bene a prescindere da chiunque, altrimenti è un delegare e le deleghe non fanno crescere.

Questo è uno dei grandi regali di questi tre anni e mezzo: la consapevolezza di essere arrivati dove devi trovare il coraggio di farti aiutare, dove devi toglierti la corazza e mostrarti per quello che sei, dove devi mostrare le tue ali, e non più solo raccontarle, a qualcuno.

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