sabato 13 settembre 2014

Sospensioni



Siamo tornati.
Tornati alla nostra pioggia calda, al cielo fosco, ad essere puntolini bianchi nel mare nero.
Tornati in quella che, per la prima volta in 3 anni, iniziamo a sentire meno “tana”.
Ci siamo scoperti, in Italia, proiettati nella nostra vecchia tana, con l’occhio e i pensieri tesi a pensare a come trasferire in quelle mura che ci han visti diventare quattro e poi partire, quello che siamo diventati.
Questi tre anni ci hanno cambiato tanto.
Sono stati un enorme banco di prova per la nostra famiglia, sono stati gradini aggiunti nella scala della nostra autonomia, sono stati finestre spalancate sul confronto e un vestire panni che in Patria vestono altri.
Ora bisognerà rendere giustizia a tutto questo, trasformare la Tana perché ci assomigli, perché ora come ora potrebbe essere la casa di chiunque, da quanto è impersonale.
La nostra casa italiana non parla di noi, parla il linguaggio confuso di una coppia stanca, sepolta dal supremo impegno di crescere due figli e farlo al meglio, parla il linguaggio di due bambini piccoli e di fiabe raccontate la sera. Parla il linguaggio di una donna che si sentiva sconfitta e dei trenta kg che la separano dalla donna di oggi.
Parla di fumetti da ragazza, libri per ridere, mille cose tenute per sentirsi al sicuro.
Oggi non siamo più quelli che sono partiti e stare lì è come trovarsi nella casa di un altro, solo che quell’altro eri tu. Uno specchio sul passato, prezioso e angosciante.
Anche la Tana Africana ci rappresenta meno, oggi.
Una data di scadenza stampigliata tra le scapole ci dice che qui siamo ospiti e non ci fa sognare modifiche, cambiamenti, personalizzazioni.
Avevo detto che no, a noi non sarebbe successo. Me l’ero promesso.
Avevo guardato gli altri smettere di attaccarsi alle cose e guardarle con distacco di chi sa esattamente quando dovrà lasciarle, e avevo detto “per me non sarà così”. Però se oggi vedo un oggetto, quell’oggetto è per la Tana Italiana, non per quella Africana.
Guardi le cose con distacco, ti affezioni meno. C’è chi è abituato all’idea di cambiare mondo ogni tot, i civili dell’Ambasciata, per dirne una, e non capisce il tuo smarrimento e le tue lacrime al pensiero che lascerai questa terra, questa casa, la te stessa che ti sei costruita qui.
In questo momento la vita è tornata alla quotidianità, qui. Bimbi a scuola, Marito Paziente al lavoro, io al pc per Instamamme o a lavorare su altro. Nei momenti di pausa, però, c’è un sottile senso di smarrimento, di vita che va troppo veloce, di qualcosa che vorresti non si fermasse o che forse sì, si fermasse.
Poi guardi fuori e ti rendi conto che l’anno prossimo a posto delle palme vedrai castagni e ti senti sospesa, tra ciò che sei e ciò che sarai.
Decidi di goderti le palme, poi chissà.

mercoledì 9 luglio 2014

Tornare


Manco dal mio blog da un’infinità di tempo.

Tempo passato a produrre oggetti artigianali per il mercatino estivo a Sboronia, tempo passato a organizzare le vacanze estive italiane, tempo passato a riflettere su questa mia permeante non voglia di tornare in quello che resta il mio Paese.

Tornare è sempre strano, lo è sempre stato. Sempre questa sensazione di lasciare una quotidianità in cui ti muovi bene per ritrovarne una che non ti rappresenta più fino in fondo. Un posto che conoscevi ma in cui non hai vissuto negli ultimi anni.

Anni che sono stati densi. Che ti han visto crescere come mai nessuna università o esperienza prima.

Quando sono partita ero diversa. Più insicura, più irrisolta, più incastrata in dinamiche anche non mie.
Ora mi sento più leggera e più pesante. Più leggera perché so dare alle cose importanze relative, più pesante perché conosco il confronto, perché della vita altrove mi sono sporcata un po’ e porto in giro i miei passi con scarpe piene di sabbia a ricordarmi altri passi, passi più interni, più intimi, più grandi.

La consapevolezza che dovrò tornare a camminare in strade dove non sono da sola, dove qualcuno si aspetta qualcosa da me, dove la mia vita non sia chiusa nella crescita di un nucleo a quattro ma si apra ad una socialità cui non sono più abituata, mi chiude lo stomaco.

Mi fa chiedere se davvero tornare è quel che voglio, o se esista in un altro dove, un dove più adatto a noi, a quello che siamo diventati.

Poi sono arrivata in Italia. E tutto si è fatto strano. Per la prima volta negli ultimi tre anni ho trovato la consapevolezza che questa è casa mia. Che è il posto in cui il mio corpo sta meglio, in cui, se sono pronta ad accettarlo, trovo una maggiore serenità interiore.

È il posto di parole piene di passato, di racconti del presente e di speranze di un futuro in comune con chi amo.
È il posto in cui ogni angolo ha dietro un ricordo e un pezzo di me lasciato in permuta per giorni come questi.

Dentro di me sento mille voci contrastanti tra un’improvvisa consapevolezza di essere alla fine di un cammino e la grande paura di doverne iniziare un altro.

Tre anni fa avrei potuto dire semplicemente no. Mi è mancato il coraggio. E dissi un sì che sapeva di baratro e di bivio. Ma fu una scelta.

Tra un anno mi aspetta qualcosa che non è un bivio ma è un uscire da una lunghissima galleria e ritrovarsi improvvisamente in un posto che dovresti conoscere e che invece non è più il tuo. E che soprattutto non è una scelta.

Mi aspetta un ricominciare nello stesso posto e con le stesse persone che ho lasciato tre anni fa, che avranno sulle spalle quattro anni in più, come me, ma quattro anni diversi. Ci sarà da riannusarsi, da riscoprirsi, da ricercare parole comuni.

Mi spaventa il non riuscire a condividere questi anni densi, il doverli banalizzare per renderli comprensibili e raccontabili a chi non li ha vissuti con me. Mi spaventa tornare in una mentalità meno aperta e cosmopolita.
Prima di partire, anni fa, quando vedevo un nero avevo timore. Timore di non conoscerne reazioni e ragioni, essenzialmente. Un timore che non è razzismo, ma piuttosto non conoscenza e inquietudine.
In questi ultimi giorni mi sto muovendo un po’ in giro per l’Italia per abbracciare amici e parenti e mi sono resa conto di come vedermi intorno moltitudini di gente bianca mi turbi. Di come mi senta più serena se trovo anche una persona di colore a portata d’occhio.
E sconvolge me per prima, questa cosa.

In questa Italia che sento mia, che custodisce il mio passato e tiene al caldo i semi che vi piantai anni fa, non mi riconosco più molto.

Sembra un controsenso, ma è così. È un posto che mi appartiene ma che non mi rappresenta più.
Tra un anno ci sarà una prova enorme da affrontare, e fa pazzescamente paura.

martedì 17 giugno 2014

uomini (?) e Scelte


Ci sono cose che non si è pronti ad accettare.
Una madre che uccide il proprio bambino, per esempio.
Un raptus, una follia, la depressione post partum, in genere. Spesso donne lasciate sole in quotidianità difficili, donne che si potevano e dovevano aiutare. Prima.

Questo non toglie nulla all’orrore. Non giustifica. Ma aiuta a capire. In genere dietro gesti del genere ci sono segnali che potevano essere colti.

Ci sono poi cose che come le giri le giri non è proprio possibile accettare.
Un uomo (?) che uccide la sua famiglia perché è lo specchio della sua inadeguatezza, perché lo mette di fronte ad una debolezza con cui non sa confrontarsi né combattere. E, come il più vigliacco degli esseri, non agisce su se stesso, rompe lo specchio.

E lo rompe da dietro, metaforicamente e realmente parlando. Colpisce alle spalle, colpisce nel sonno.

Un uomo (?) che ha appena fatto l’amore con sua moglie sul divano, ad un certo punto va in cucina, prende un coltello, che magari veniva pure dalla lista nozze, poi torna e aggredisce la moglie. La moglie che tra il momento della prima aggressione e quello della lama sul collo, riesce a dar voce al suo pensiero fatto di stupore e incredulità. Perché mi stai facendo questo?

Poi sale le scale e riserva lo stesso identico trattamento ai suoi figli, quelli che vengono dallo stesso seme che ancora scorre, vivo, nel corpo di sua moglie, morta.

Poi  si lava, esce, va a vedere la partita. Freddo. Tranquillo. La partita.

Oggi leggo commenti su come le responsabilità  di un gesto come questo siano anche sociali.

Ecco, no. La società può essere, eventualmente, corresponsabile (perché poi esiste sempre la libertà di uniformarsi o meno ai modelli proposti, non siamo obbligati) di reati come prostituzione o come furto. La personale interpretazione della morale, dell’etica, del rispetto è appunto personale.

Siamo tutti soggetti agli stessi input, siamo messi di fronte agli stessi modelli eppure… eppure non tutti ci prostituiamo, rubiamo, uccidiamo.

È ovvio che dietro al fenomeno della prostituzione volontaria minorile ci siano un problema e una responsabilità sociale, ed anche enormi. Ne parlavo tempo fa su Instamamme.
Abbiamo una società malata con valori falsati e spesso effimeri e i deboli (le personalità non ancora formate, come bambini e adolescenti) dovrebbero poter contare su una base sociale forte. Ma qui si parla di adulti.

Quello che siamo, come singoli, è sempre frutto di una scelta. Sempre.
La società ci propone il modello della scappatoia, vero. Che il singolo consideri uccidere moglie e figli una scappatoia dalla propria debolezza di scoprirsi a desiderare altro, è la personale interpretazione di un concetto, non di certo un modello generale.

Sento dire: la società dimentica l’individuo.
Aspetta: la società siamo noi, non è una cosa che ci è stata calata dall’alto. Quelli sono i modelli sociali, non la società, non confondiamo. Quindi se abbiamo perso il valore del confronto non è perché siamo stati obbligati da qualcuno a farlo: è stata, prima o poi, una scelta.
Sento dire: ci viene proposta una televisione fatta di nulla che ci serve scenari intellettualmente vuoti. Verissimo eh, ma non determinante. Esistono i libri, si vive senza tv.

Dietro a questo vedere nella “società” un colpevole non ci sarà mica una scusante per il singolo che si ha paura di diventare? Non sarà mica tutto un fatto di alibi? Non ci sarà un “mettiamo le mani avanti, in caso capiti anche a me, mio figlio, mio marito, mio padre”?

Ci sono responsabilità comuni e responsabilità singole.
Una delle basi del vivere sociale è riconoscere le prime e gestire le conseguenze delle seconde in modo univoco, certo, reale sia a livello di fatti che di pensiero.

È su quello che stiamo perdendo, oggi.

lunedì 16 giugno 2014

Conversazioni con Madame Dissout la Graisse. La donna.



Si parlava di donne, l’altro giorno, durante uno dei massaggi.

Le donne, nelle zone povere, qui, ancora, non hanno diritti.

I loro compiti, mi spiega Madame Dissout la Graisse, sono quello di pulire la casa, fare figli, farli crescere. Dov’è che ho già sentito questa cosa?

Non c’è alcun motivo per cui una donna debba studiare, se ha questi scopi, nella vita e infatti in genere non lo fa.

Deve imparare a non farsi domande e a non farle, soprattutto. E ancora meglio a non cercare le risposte.

Deve obbedire ad un uomo cui è stata data in moglie, ancora, in cambio di qualcosa, che può essere terra, che può essere soldi, che non è libertà.

Deve soddisfarlo in cucina e nel letto, deve crescere figli forti e figlie remissive, deve lavorare come un somaro, se serve. Se c’è bisogno, deve lavorare a servizio presso una casa, se le dice bene di occidentali.

Gli occidentali, in genere, trattano bene e con rispetto. Gli autoctoni ricchi, pare, spesso disprezzano chi è rimasto indietro nella scala sociale ed economica.

Una donna, nelle zone povere (che significa anche nelle bidonville di Abidjan, non devi mica spostarti), è ancora sostanzialmente un oggetto nelle mani del padre prima e del marito poi.

Se riesce ad affrancarsi da questa mentalità, ha davanti una vita di difficile autonomia e di grande fatica.

Madame Dissout la Graisse è analfabeta, e le pesa. Per lei è un cruccio, non saper leggere e scrivere. Lo è talmente tanto che si è fatta i muscoli a forza di massaggiare donne più ricche di lei per permettere ai suoi figli di studiare, per andarsene dal villaggio e offrire loro mentalità più aperte, per permettersi una casa alla periferia di Abidjan che paga in tempo e sudore in case altrui.

Suppongo sia vedova, ho avuto riserbo di chiederlo, del marito non parla mai. Di sicuro non vive con lei.

La sua vita non è facile ora e non deve esserlo stata mai. Porta i suoi anni e la sua competenza in giro per la città per potersi permettere di continuare a scegliere dove vivere e come vivere, soprattutto.

Quando ti racconta delle altre donne ti rendi conto che un po’ di polvere di quei villaggi le ha sporcato la vita, un tempo.

Ha una dignità enorme e le idee chiare su cosa è giusto e cosa no. Su cosa si può accettare e per cosa si debba combattere o faticare.

È una donna che poteva sottomettersi e vivere diversamente. Ha lottato, contro chi concretamente non lo dice, e vive nella serenità e nella difficoltà di chi ogni giorno sceglie.

Se mai in qualche posto sia stato facile, qui di sicuro non lo è.

lunedì 9 giugno 2014

Punizioni


Sono cinque.

Quattro sono in piedi.
Uno è sdraiato a terra.

Uno ha in mano delle corde colorate tenute insieme da qualcosa.
Uno ha un mano una cinta.
Due hanno in mano un pezzo di tubo di gomma.
Uno è sempre sdraiato a terra.

Uno porta giacca e cravatta.
Uno pantaloni cargo e una maglietta.
Uno pantaloncini e una t-shirt lacera.
Uno pantaloni e maglietta.
Uno è sempre sdraiato a terra. Ed è a torso nudo.

A turno ognuno alza la propria arma e si fa forte di una superiorità di origine sconosciuta.
A turno lo colpiscono, forte.
A turno lo fanno piangere e gridare.

Di dolore, impotenza, paura, rassegnazione, umiliazione.

Avrà violato una legge non scritta, avrà fatto uno sgarbo, avrà lavorato male.
Non c’è nessun avrà che giustifichi i suoi lividi di domani e le sue lacrime di oggi.
Ma il cuore dietro al binocolo ha bisogno di cercare un motivo a quello che gli occhi vedono.

Non posso fare nulla per lui.
Uno di loro ha una pistola, nei jeans. La vedo benissimo.
Se provassi a fare qualcosa, a scendere i quattro piani, a girare l’angolo del cortile e ad entrare in quello spiazzo disabitato, potrei alterare un equilibrio e il dito su quel grilletto potrebbe a quel punto diventare il mio.

In un paese senza una giustizia certa, ognuno si fa giustizia da solo.
Ognuno diventa giudice e impartisce pene e punizioni.
Quell’uomo a terra è concettualmente abituato ad essere frustato. Al fatto che c’è qualcuno che abbia dei diritti su di lui. Al non poter difendersi.
E preferisce la frusta alla perdita del lavoro, probabilmente.
Forse ha sbagliato qualcosa, forse sta pagando.

A un cortile di distanza e quattro piani sopra, si respira impotenza e non comprensione. Sdegno. Paura. Empatia.
Ci sono cose che di questo posto non accetterò mai.
L’ennesimo segno rosso sul corpo di quell’uomo a terra è sicuramente una tra quelle.

mercoledì 4 giugno 2014

Nel piatto (ivoriano) della fra: il Kedjenou de Poulet



Uno dei piatti più conosciuti della Costa d’Avorio è senza dubbio il Kedjenou, una sorta di umido (di pollo, di manzo, di pesce), semplicissimo da fare, adatto anche ai bambini e decisamente gustoso.
Il Kedjenou è un piatto sostanzioso, anche perché, essendo “sugoso”, necessita di una guarniture di accompagnamento. L’abbinamento classico, qui, è con l’attieké (il cous cous di manioca), ma è delizioso anche accompagnato da cous cous classico, ignam bollito (che in Italia può essere serenamente sostituito dalle patate lesse) o riso.

Io amo molto quello di pollo, che a quanto ho capito è il più classico, la ricetta mi è stata spiegata passo passo, qualche tempo fa, da Clarisse, la bonne dei nostri amici.

Gli ingredienti per diciamo due adulti un po’ affamati, sono:

- un pollo intero (qui poi son piccini)
- due melanzane africane  (sono piuttosto piccole, a palletta e chiare!) (non ho ancora provato con quelle nostre ma secondo me potrebbero andar bene lo stesso, vi dirò) (in caso si usassero quelle italiane direi una sola)
- quattro grandi pomodori
- due spicchi d’aglio
- due cipolle
- quattro o cinque cipollotti freschi (qui son piccolini, non esagerate!)
- due foglie di alloro
- due peperoncini freschi (piment) (NON sbriciolati, si muore per molto meno)
- 1 dado di pollo sbriciolato (proverò col dado Bimby e saprovvi dire)

Il procedimento è semplice e velocissimo:

Tagliate a pezzi il pollo. Se, come alla fra, vi fa schifo, chiedete al pollaiolo o al macellaio di farlo per voi, il piatto non ne risentirà ;-).
Mettete nel mixer aglio e cipolla e tritateli finissimi, devono quasi “sciogliersi”, dopodiché  toglieteli e metteteli da parte.
Pelate i pomodori e metteteli nel mixer insieme ad un pochino d’acqua. Misura ad occhio, ma sarà tipo mezzo bicchiere, non di più. Fate frullare benissimo!
Prendete un bel tegame largo e metteteci i pezzi di pollo, il pomodoro, il trito di cipolla e aglio, le foglie di alloro, il dado sbriciolato, le melanzane tagliate in quarti, i due peperoncini interi (ribadisco: interi) e i cipollotti fatti a fettine sottili.
Coprire il tegame e far cuocere a fuoco dolce, sempre coperto, per circa 15 minuti.


Ora, quando Clarisse mi disse quinze minutes, io pensai o di aver capito male o che il concetto di “quindici minuti” di un ivoriano fosse come quello di “sì mamma lo faccio subito” di Patato Grande, ovvero moooooolto elastico. Invece, posso testimoniare, il kedjenou dopo quel tempo irrisorio era pronto, sugoso, profumato da mangiarsi anche la pentola e buonissimo!!!

Come sempre vale la regola che se provate a farlo, DOVETE farmi sapere come è venuto!
Come accompagnamento vi suggerisco il cous cous, secondo me è la cosa che ci si sposa meglio!
Bon Appetit!

domenica 1 giugno 2014

Vengo anch'io. No, tu no.



Poi succede quello che di tutta questa esperienza temevi di più.
Sapevi che ti saresti persa tanto: morti che non seppellisci e nascite a cui non assisti, candeline che non vedi spegnere, prime parole che non senti, ultime parole che non percepisci come tali.

Quello che non sapevi, o forse semplicemente non riuscivi ad accettare come eventualità possibile, è che oltre ad una distanza fisica ci sarà anche una distanza diversa. Che ti lasceranno indietro, più o meno consapevolmente.

Non ci sentivamo da un po’, altrimenti mi sarei ricordata.

Vero, è anche colpa mia.

Sono anche io che mi isolo: la mia quotidianità, quella che sono pronta a condividere, passa attraverso queste pagine, o instamamme. La racconto tra le righe di queste riflessioni: il blog era nato proprio per quello, per sopperire alle comunicazioni più difficili, per condividere con gli amici questa esperienza nuova e complessa.
Ma i miei amici, queste pagine, non le vedono più. Sono occupati a vivere una vita lontana, concretamente tanto quanto virtualmente, migliaia di chilometri. Come è anche giusto che sia. La vita di certo non si ferma perché io sono qui.

Sono io la prima a non sfogarmi più con loro, per non trasmettere ansie che io so come dissolvere con me stessa ma che lascerei a sedimentare in posti in cui non so più come muovermi.

E così sono diventata quella che non c’è più l’urgenza, che sì ti fa piacere sentirla e ci tieni anche, ma sono quella che tanto è lontana, che accetti di dimenticare.
E non perché alla fine è andata così, ma perché non è stato fatto nulla prima, affinché questo non accadesse.

Perché sono diventata una del gruppo e non più quella speciale.
Perché improvvisamente il nostro rapporto non meritava una comunicazione speciale e personale, ma è entrato nel calderone di una mailing list, con tutti i rischi che comporta.

Ci sentiamo meno, è vero.
Ed è vero che vorrei sentire i miei amici più spesso, ma altrettanto spesso non so cosa dire.
C’è un mondo intero di cose che vorrei raccontare loro, troppe e troppo grandi per esprimerle nel breve di una telefonata o un messaggio: le scrivo qui, nell’attesa di poterci confrontare a pelle, sperando di gettare dei semi.

Ci sono anche volte che prendo il telefono in mano e compongo un numero, che ho bisogno di non sentirmi dannatamente sola e che succedono cose troppo grandi da rimanere dentro. Poi clicco sulla cornetta rossa, sempre.

Ma che senso avrebbe avuto, per dire, una settimana fa alzare il telefono o scrivere un messaggio e dire “stanno sparando sotto casa mia, c’è gente che urla e corre e tra due ore devo attraversare la città per andare a prendere i miei figli e sono terrorizzata”? Dividere angoscia e paura non significa diminuirla, anzi, ti senti anche responsabile di quella altrui che tu hai indotto.

Era un qualcosa su cui non avevo mai avuto il coraggio di soffermarmi e indagare. Una possibilità che non avevo voluto considerare.
Ero pronta a rimanere indietro, non ad essere lasciata indietro.

E non c’è dolo, proprio questo mi spaventa di più.
Non c’è una scelta, un motivo concreto.
Ci si scorda, semplicemente: non sei più qualcuno di diverso. Ci si vuole bene ancora ma non sei più la persona che è importante avere vicino.

Ci saranno milioni di momenti come questo, immagino. Nel prossimo anno ivoriano, negli anni italiani che seguiranno. Questo è il primo e fa male di conseguenza.
E va oltre il fatto specifico, va oltre le due amiche che eravamo, siamo e saremo.
È l’apertura di percorsi diversi e accidentati e io dovrò trovarmi le scarpe adatte e il coraggio per percorrerli.

Tra un mese tornerò in Italia, e non ne ho nessuna voglia.
Per milioni di motivi, e da oggi anche per questo.