mercoledì 27 aprile 2016

...ma non dovevamo vederci più?


Giovedì scorso abbiamo festeggiato il nono compleanno di Patato Grande, in un locale. La sua prima festa da grande, con i suoi compagni e qualche amichetto e come adulti solo quattro tra genitori e amici, ad un tavolo defilato.
Le chiacchiere, le risate, quel camminare in equilibrio tra l’infanzia e la voglia di essere (ed essere considerati) più grandi, i gruppetti di confidenze e complicità.
Due bimbe mi chiedono timide “Possiamo andare in bagno?”. Insieme.
E allora ti ricordi di quando una delle due bimbe eri tu e quel bagno era il posto in cui trovavi il coraggio di parlare di qualcosa che iniziava a farti battere il cuore, che non sapevi spiegare ma si era tutte una risatina sciocca e complice.

Ci ripensavo, il giorno dopo, mentre guidavo dalla Terra di Mezzo a Peppaland e ripensavo a quanto è bello quel periodo in cui pensi ancora di aver davanti un foglio bianco di destino e di avere tu il nero per i contorni e tutti i colori per renderlo come vuoi tu.
Quel periodo in cui pensi ancora che la persona di cui ti sei innamorata sarà LA persona, che cambierà per te, che ti salverà da te stessa, che la salverai tu da se stessa. Che arriverà ad amarti, che la porterai ad amarti, che tutto quel sentimento che provi non possa non sublimarsi in un qualcosa di comune.
Poi cresci e scopri che l’amore non è una lotta per cambiarsi a vicenda, ma una lotta con te stesso per accettare che l’altro non cambi per te. Che non ha senso rincorrere chi alla fine semplicemente non ti vuole, che devi lasciare all’altro la libertà di non volere te perché ama un’altra persona dello stesso amore che tu provi per lui. E non puoi farci nulla.
E non è questione di “meritarsi di meglio”: tutti meritiamo qualcuno che ci ami per quello che siamo, che ci scelga… è quello il meglio, e chi non sa offrircelo non ne ha colpa, non si può forzare qualcuno a darti ciò che non ha. Può darti se stesso, non quello che tu vuoi sia.

E ripensavo a quello che è stato il mio grande amore di quell’adolescenza che non sapevo gestire e che ho imparato a gestire troppo presto. Quello che ha innescato un meccanismo che, a prescindere da me, da lui o da quello che ci aveva unito, ha cambiato la mia vita, trasformando il punto esclamativo che vedevo nel mio futuro in mille interrogativi, mille paure, mille passi incerti.
Quello che per primo mi spinse oltre i confini del pudore di condividersi, quello che per primo mi fece sentire un dono, una cosa bella e preziosa nel mio essere donna.
Ci pensavo ricordando l’idea immatura che avessi dell’amore all’epoca: il suo amore mi avrebbe salvato, avrebbe dato un senso al buio che mi aveva terrorizzato e ancora mi terrorizzava. Sapere di amarlo mi dava uno scopo che non riuscivo a trovare solo in compagnia di me stessa.
Se dai a un altro questo genere di compito è ovvio che sarà un fallimento. Ma è ovvio solo troppo tardi, quando ormai ti sei compromessa talmente tanto che una strada comune è quantomeno difficile. E così finì, finì quando mi accorsi che potevo solo dare, che non avrei avuto mai.

“Scusa, sei Francesca?”
Alzi gli occhi e sì, sei Francesca.
La prima cosa che in qualche modo riconosci è la voce, così particolare, leggermente strascicata. Non la senti da 21 anni, ma potrebbe essere la sua.
E allora dici “no, dai, non è possibile” e uno sguardo ti dice che no, invece è proprio possibile.
Perché c’è stato un periodo in cui per uno sguardo da quegli occhi avresti, e hai, fatto qualunque cosa, senza domande, senza filtri. Nello sguardo che ci scambiamo c’è un film muto che ci ha visti protagonisti e che oggi guardiamo da sereni spettatori.
E improvvisamente quella storia comune subisce un upgrade e davanti a te non hai il ventenne che hai lasciato indietro, ma il quarantaduenne che è diventato nel frattempo. E anche tu hai il tuo carico di anni, di segni, di figli, di pesi portati e messi tra te e il mondo. Improvvisamente siete solo due quarantenni con una piccola, forse importante per il momento in cui è stata divisa, intimità in comune.
Due quarantenni consapevoli, forse, dell’importanza relativa reciproca avuta nella vita dell’altro ma assolutamente consci e contenti delle scelte che ne sono seguite su percorsi diversi.
Emozione e forse un po’ di imbarazzo, ma nessun battito strano del cuore, nessun rimpianto, nessun sospiro.
Un altro pezzo che si incastra, un pezzo che aspettava da tanto di trovare la giusta collocazione.

Strano come la vita ti sorprenda, come ti ponga risposte esattamente quando con serenità ti poni delle domande e sai guardarti dentro con consapevolezza e onestà, quando forse sei pronta a vederle per quelle che sono e non per quelle che avrebbero potuto essere.
Venerdì pomeriggio ho raddrizzato un punto interrogativo e me ne sono andata, stupita ma serena, con un esclamativo in più addosso. Che aspettava da vent’anni.

mercoledì 30 marzo 2016

Amicizie e generazioni


Se vent’anni fa mi avessero chiesto di parlare di noi tre, avrei descritto qualcosa di simile a questo video.



La vita non ci ha mai messo in quella condizione, ma nutrivo la certezza che in caso sarebbe andata così. Che saremmo stati noi tre, che ci saremmo stati sempre, che avremmo sempre saputo come far star bene l’altro, che avremmo trovato sempre il modo, il tempo.

Noi che eravamo confidenze, sorrisi, lacrime, appunti prestati, scherzi, cose più serie.
Noi che eravamo telefonate per sfogarci, perché cercavamo aiuto, perché pensavamo che l’altro potesse averne bisogno, o solo per dirci che eravamo felici.
Non c’era niente, niente, della nostra vita che non passasse attraverso noi tre.

Abbiamo ascoltato e ci siamo fatti ascoltare. Abbiamo fatto cazzate e ne abbiamo riso. Abbiamo fatto cazzate più grandi e ne abbiamo pianto.
Abbiamo conosciuto amici, amanti, fidanzati, genitori. Ma non i figli.

Ed è stata una mancanza fatale, quella che ci ha lasciato in piedi sulla soglia e non ci ha fatto salire il gradino.

Forse siamo rimasti cristallizzati a quei tre seduti sui muretti, in fondo. Legati a quell’aspetto e a quel periodo della vita, forse abbiamo avuto paura di ammettere un cambiamento, di viverlo.
Non che non si faccia più parte della vita degli altri due. È bello sentirsi e raccontarsi, meraviglioso vedersi.
Lui è ancora quella sorta di fratello che non ho mai avuto, lei è ancora quella che apre i miei cassetti della mente, tocca e mette a posto, l’unica a cui concedo di farlo.
Ma ci manca un pezzo, un pezzo fondamentale.

Anni fa i miei figli segnarono uno spartiacque pesante e profondo: cambiarono me senza cambiare loro. Ero la prima a diventare genitore, e alla lontananza fisica si aggiunse anche quella mentale.
Avevo sempre immaginato uno scenario diverso, per noi tre. Avevo immaginato che sarebbero stati gli zii dei miei figli, una presenza “reale” e importante come lo erano stati nella mia vita… e non fu così. Per tanti motivi, senza dolo ma senza dubbio dolorosamente.

Sono ancora gli zii per i miei bimbi, perché sono io a farglieli vivere come tali, a parlargli di loro in quei termini. Spero sempre che si arrivi a ricomporre il virtuale col reale, perché alla fin fine non è colpa di nessuno, semplicemente accade che la vita ti separi un po’.

La separazione non comporta nulla in un rapporto che ha una storia: per me loro sono loro, il loro posto non è vacante né in discussione… nonostante i momenti pesanti, le recriminazioni, le delusioni che ognuno di noi potrebbe serenamente fare all’altro. Una volta avevano importanza; cresci e capisci che quello che conta, se ami qualcuno, è ciò che ti lega, non ciò che ti separa.
Per la seconda generazione del nostro rapporto la storia non è un vissuto ma un narrato, e mi assale sempre un po’ di rimpianto per qualcosa che avremmo tutti, io per prima, potuto gestire meglio.

Ci sarà tempo, ci sarà modo, lo troveremo.
Questo pensavo guardando questo video: forse quei tre ragazzi legati da un rapporto così speciale potrebbero un domani essere i nostri figli… forse no, ma è bello pensare che possa essere così.
O forse è solo il giro di boa dei quaranta che si avvicina e mi prende così. Chi lo sa.

martedì 15 marzo 2016

Grand Bassam, 13 marzo 2016.


Alcune cose che accadono ci sconvolgono più di altre, non tanto perché siamo noncuranti rispetto ad alcune, quanto piuttosto perché siamo più empatici nei confronti delle altre.
Empatia vuol dire capacità di immedesimazione, tra le altre cose.
È ovvio che più i gradi di separazione tra te e un evento, in termini di cultura, geografia, società, religione, sono alti in numero e meno sarai portato all’empatia. Potrai provare pietà, gioia o orrore, ma difficilmente potrai immedesimarti ed entrare nel cuore pulsante di una notizia, che sia bella o sia brutta.

Su quella spiaggia di Grand Bassam, fino a meno di 9 mesi fa, ci camminavo anche io. Ci passeggiavo, mi bagnavo i piedi nell’Oceano lottando con la corrente, sorridevo alle persone, compravo semi per le mie collane o parei da indossare sul costume.
In quell’Oceano mio marito faceva il bagno.
Su quelle spiagge, in quegli stessi stabilimenti, ci ho portato i miei figli quasi ogni weekend di sole.
Ce li ho portati con fiducia e con gioia, per cancellare il grigiore di una città in cui lo smog ti fa dimenticare che il cielo sa e può essere azzurro.

Se fossimo stati ancora in Costa d’Avorio, ieri saremmo stati quasi sicuramente a Grand Bassam, probabilmente proprio all’Etoile du Sud, come tante altre volte prima. Avremmo salutato il venditore di artigianato maliano, come sempre avrei finito per comprare perle e semi che già avevo ad un prezzo più alto del loro valore, fingendo di non saperlo. Saremmo stati seduti al tavolo che guarda verso l’Oceano, o forse saremmo stati in piedi a servirci per il pranzo a buffet della domenica.
E da lì avremmo visto arrivare la barca.

Quei corpi neri sulla spiaggia, fotografati nella loro disarmante crudezza, sono i corpi di persone che in qualche modo ho conosciuto, salutato, cui magari ho perfino sorriso, con cui ho fatto la fila per il pranzo o per il bagno, con cui i miei figli hanno nuotato in piscina.
Quei corpi bianchi potevano essere quelli di miei amici o di persone che hanno fatto le mie stesse identiche scelte finendo in quel luogo magari per caso, come me.
Quei corpi, tutti, indifferentemente, sono una ferita per un posto del mondo che cerca il suo riscatto e guarda ad un futuro, che sia il migliore possibile oppure no, e lo fa con fiducia.
Quei corpi, tutti, neri e bianchi, indifferentemente, sono una ferita per me, che ho amato e amo ancora di un amore contrastato e complesso un Paese che tanto mi ha dato e tanto ha voluto in cambio.

Ieri sera volevo scappare dai miei figli, per rassicurarmi di saperli al sicuro. Per rassicurami di essere al sicuro. Per cancellarmi di dosso un permeante senso di colpa per qualcosa che sarebbe potuto accadere. Per giurar loro che mai avrei pensato ci potesse essere qualcosa di così orrendo da cui doverli difendere, in quelle giornate di sole. Per farmi assolvere per qualcosa di indefinito e potenziale ma talmente enorme in peso da tenerti gli occhi aperti a tarda notte.
Non l’ho fatto, avevo paura che arrivasse loro il mio turbamento: l’empatia è una cosa importantissima, ma forse dovremmo preservarne i bambini, lasciare loro ancora la fiducia che basti la mano di mamma e papà, per essere al sicuro.

E mi fa rabbia e vergogna l’umanissimo pensiero che mi colloca felicemente lontana, e mi fa piangere e restare senza fiato quel pezzo di cuore che ho lasciato lì. Da ieri sono dolorosamente divisa tra un’assurda sensazione di fiducia tradita e un’acutissima nostalgia che mi colloca ancora su quelle strade.
Nonostante tutto, nonostante ieri, la Costa d’Avorio ci manca ancora, e credo non smetterà mai di mancarci. Ed è lì che capisci che l’unica cosa che ti salva da orrore e paura è l’amore, in tutte le sue forme.

martedì 8 marzo 2016

Lui e lei, noi...


C’erano una volta due ragazzini.
Il ragazzino aveva i capelli che crescevano dritti e un’aria pulita che sapeva di rispetto.
La ragazzina aveva qualche chilo in più e una pelle spruzzata di sole.
Passavano le mattine ad un’aula di distanza, nello stesso corridoio. Incrociandosi, sfiorando tra loro quelle loro vite acerbe e caleidoscopiche di possibilità, perdendosi nelle migliaia di occhi e sguardi che attraversavano quei corridoi.
Un giorno il ragazzino e la ragazzina si conobbero, e si piacquero. Lui si innamorò delle sue lentiggini e della sua intraprendenza, lei di quell’aria pulita e dell’odore della curva del suo collo.
Lui aspettava fuori, vicino al muretto, che uscisse anche la sua classe. Lei lo ricompensava di sorrisi.
Lui rubava, per lei, rami di mimosa dal cortile del giardino vicino, lei si riempiva occhi e naso di colori e odori, col cuore che prendeva un ritmo sconosciuto e diverso.
Negli anni quei ragazzini si sono visti attraversare mari in tempesta, perdendosi e ritrovandosi nelle mani intrecciate e negli abbracci silenziosi.
Sono diventati meno piccoli, meno sicuri, hanno piegato i loro futuri in condizionali, accettando la grande sfida del crescere.
Lui ha smesso di scavalcare muri per rubare fiori, lei ha smesso di permettersi l’intraprendenza.
Lui non ha mai smesso di amare le sue lentiggini e i suoi chili di troppo, lei non ha mai smesso di sentirsi al sicuro appoggiata nella curva perfetta tra il suo collo e la sua spalla.
Oggi quel ragazzino e quella ragazzina non ci sono più. Sono adulti, ormai. Sono un uomo e una donna.  Alle loro mani intrecciate se ne sono aggiunte di più piccole, il loro percorso oggi scorre in ritmi dettati da musiche che non osavano neanche immaginare, su quei muretti pieni di sole.
Ma quando le mimose sono in fiore, il cuore di lei batte ancora a quel ritmo oggi meno sconosciuto ma ancora diverso.
Forse questo li ha salvati: sono ancora due ragazzini, in vestiti troppo grandi per loro.

mercoledì 2 marzo 2016

Voti, impegno ed etichette


Poco tempo fa abbiamo avuto le nostre prime pagelle italiane. Le prime con dei voti a quantificare, invece che a esprimere un livello di apprendimento. Quantificare invece che qualificare, forse questo è il più grande limite delle aspirazioni della scuola italiana. Che sì, ok, ci sono i giudizi ma come è difficile non guardare il voto.

Voti secchi, senza sfumature che rendano merito a impegno e difficoltà. Lapidi sulle mille possibilità di un bambino, come di un ragazzo o di un uomo.
Verifiche oggettive e, quando saranno più grandi (per ora no: graziemaestregrazie) medie da calcolare, una freddezza disarmante a combattere con il calore dell’entusiasmo della conoscenza.

Perché il voto che negli anni ti verrà assegnato dipenderà magari dalla partita del giorno prima come anche da una scopata mancata: dietro a quel banco o davanti a quella cattedra non ci sarai solo tu ma anche quella palla entrata o meno, metaforicamente o realmente, in rete. E non potrai farci nulla.
E quel voto ti si stampiglierà addosso, volente o nolente.

Ci vuole tanta maturità nel non lasciarsi determinare da un voto, che è sempre una cosa relativa, data con un criterio assolutamente personale e legato al momento. Ci vuole di sapere chi si è, per non farti dire chi sei.

Per ora i miei figli non si curano dei voti se non nella misura in cui noi adulti ce ne mostriamo contenti o meno. Per loro la scuola è divertimento e scoperta e tale vorrei che rimanesse il più a lungo possibile.
Non nutriamo, nella Tana, nessuna aspirazione ad avere figli migliori degli altri. Preferiamo che non pensino di doverci dimostrare nulla, preferiamo che si impegnino senza che lo studio diventi un fine quanto piuttosto un mezzo attraverso cui vedere la vita con occhi diversi. Non vogliamo figli perfetti con voti perfetti in tutte le materie, ci godiamo i nostri figli imperfetti con interessi e predisposizioni assolutamente definiti ed identificabili.

Da ex bambina iper-performante, diventata poi donna stakanovista e perfezionista, l’unica cosa che mi sento di volere per i Patati è che la scuola non diventi mai un “devo” o un “lavoro” e rimanga il più a lungo possibile un “voglio” e un “gioco” da trattare con rispetto e impegno… speriamo che la scuola italiana non ci deluda, noi ce la metteremo tutta!

mercoledì 3 febbraio 2016

Famiglia, limiti e libertà


Il ritorno del Marito Paziente ha portato a tanti interrogativi e tanti confronti.
Per una coppia abituata a vivere tutti gli aspetti della vita, siano quelli pratici o quelli emotivi, insieme, la lontananza è sempre destabilizzante.
Vivere due realtà diverse, in modo così diverso, ha posto interrogativi con i quali forse non ci si era mai confrontati, forse per mancanza di opportunità, forse per mancanza di coraggio.

Vivere da soli, specie se con figli “a carico”, è senz’altro impegnativo: sai che tutto ciò che c’è da fare sarà inevitabilmente sulle tue spalle. Decisioni, azioni, risposte… tutto nasce e muore con te.
Giornate piene di cose da fare o organizzare, pezzi da far combaciare, pezzi da trovare, pezzi da inventare, perfino, a volte.

Ma è più facile.

Nessun compromesso, nessun’altra esigenza da contemplare e tutelare, nessun’altra volontà da conciliare con la propria.
Una voce narrante unica, senza contraddittorio. Una sola calligrafia da rileggere, senza interpretazioni.

Ricostruire una quotidianità unica dalle due che l’hanno preceduta non è facile, soprattutto se questo consegue ad una separazione tra chi è rimasto in un posto e chi è partito, tra chi si sta dando la possibilità di vivere appieno quel posto e chi invece deve ricostruirsi altrove gettando delle basi da solo sperando che vadano bene anche all’altro.

Il ricongiungimento è compromesso, senza alternative. Lo è sempre, in realtà. Ma il permettersi di vivere, anche se solo per poco, una vita senza confronto o scontro di volontà, fa sì che quando da due si torna un’entità tutto possa diventare difficile.

Perché in quell’entità è fondamentale che ci siano, riconoscibili, tutte le parti che la compongono, con le loro caratteristiche, i loro desideri, le loro idiosincrasie, i loro gusti, i loro confini e anche i loro mutamenti.
In generale è ben più facile cedere del tutto che lottare e affermarsi, o al contrario affermarsi e lottare piuttosto che cedere del tutto. È ben più facile cambiare se stessi o chiedere all’altro di cambiare per noi, tout cour.

Ma cedere insieme, affermarsi insieme… è il nucleo di ogni rapporto sociale sano, microscopico o macroscopico che sia. Significa crescere, banalmente, ma quanto è difficile quando si cambia in modo diverso e con tempi diversi?

Cambiare l’altro è rispettarlo?
Cambiare noi stessi è rispettare l’altro?
C’è un limite superato il quale il compromesso diventa violenza? Un voler adattare la materia dell’altro alla nostra forma?
C’è un limite entro il quale è giusto adattare la propria materia alla forma dell’altro?


E allora, ragionandoci e sbattendoci il muso, scopri che la cosa peggiore che puoi chiedere all’altro è di perdersi per te, di mettersi una maschera e crearsi un personaggio che sappia recitare nel tuo teatro. Di diventare, per assecondarti, la persona che tu vuoi che lui sia e non la persona che è e in cui hai visto quel qualcosa che ti ha fatto venire in mente mondi da costruire ed esplorare insieme.

E quale che sia lo spazio compreso tra il perdere se stessi o perdere l’altro, è bene rimanere nelle acque agitate dell’umano tira-e-molla di volontà e desideri. Perché al di fuori, c’è vento di tempesta… e lo si affronta da soli.

lunedì 7 dicembre 2015

Nuovi equilibri da ricostruire



Tra poco meno di una settimana torneremo ad essere quattro, nella Tana.
Questi due mesi e mezzo di famiglia divisa, sono stati pesantissimi e parimenti importanti per tutti noi.

Il Marito Paziente ha scoperto una dimensione individuale che si era sempre negato a favore di una più familiare, in cui i suoi interessi o desideri si auto soffocavano nel senso di colpa di voler essere anche se stesso, oltre che Marito Paziente e Padre Eccezionale.

La Fra, dal canto suo, si è confrontata con mille cose, alcune belle alcune meno, quasi tutte molto faticose sia fisicamente che mentalmente. Ha dovuto affrontare la sua più grande incapacità, quella di prendere decisioni autonome e di gestire tutto da sola.

La Fra è un’ottima organizzatrice della vita altrui, ma nella propria è un disastro. Dipendente e poco incline allo scegliere (dal gusto della pizza in su, per capirci), la Fra si è trovata improvvisamente catapultata in una dimensione dove ogni singola scelta era a suo appannaggio: dal cosa, quando, come, dove mangiare al tipo di scarpe da prendere ai bambini, dal come gestire i compiti dei bambini a come gestire il loro tempo tra le varie attività, dal colore dei muri al verso del parquet.

La Fra in questi mesi italiani ha creato una casa da uno spazio dove c’erano solo i muri, ha parlato con operai, ha comprato lampade, armadi, piante, ha disposto mobili. Ha preparato e vissuto il nido.
E ha scoperto, ha avuto la grande possibilità di scoprire, la felicità della stanchezza sana, di chi sa che ogni giorno ha veramente fatto tutto ciò che poteva fare.

Il Marito Paziente mi è mancato in tutti i momenti in cui ho avuto la possibilità di pensare. Ma per quanto fossi e sia stanca veramente oltre il limite, quello che mi è mancato di lui non è il suo aiuto. Mi è mancata la persona, non il ruolo.

E questo ritorno da una parte mi riempie il cuore di gioia pura e autentica, mentre dall’altra mi spaventa: questi mesi nella Tana sono stati mesi di piccoli passi per trovare un equilibrio che permettesse a me e ai patati di vivere serenamente, sono stati mesi di aggiustamento costante del tiro e sono stati un periodo bellissimo di complicità tra me e i miei figli.
Marito Paziente dovrà inserirsi in una nuova realtà, un’evoluzione delle tre persone che lo hanno accompagnato ad un treno due mesi e mezzo fa e che non sono più le stesse.
Sarà difficile per lui inserirsi, sarà difficile per me lasciargli un posto in un equilibrio conquistato così a fatica.

Quando scopri, perché poi alla fine è tutta una grande scoperta, di non aver bisogno di una persona dal punto di vista pratico, di saper vivere, o nei momenti peggiori sopravvivere, anche da sola… far rientrare qualcuno è difficile.
La gestione di una famiglia non ha nulla a che vedere con l’amore e col sentimento: è pratica, organizzazione, scelta. L’amore è altro e male si incastra nella difficoltà di ridarsi compiti e spazi.
Unire due volontà apre la strada al compromesso, ad un confronto cui non siamo più abituati.
Sarà l’ennesimo equilibrio da ritrovare, o da ricostruire.