venerdì 27 maggio 2016

Maternità e lavoro


C’era una volta una bambina che sognava di fare la mamma, un po’ come tutte le bambine col vestitino a balze e i codini.
Poi c’è stata una ragazzina che voleva fare l’architetto, modificare lo spazio, controllare l’indefinito.
Poi è arrivata una ragazza che voleva essere entrambe le cose, con la stessa urgenza e la stessa passione.
Infine, ecco una giovane donna che voleva essere madre, e il resto che si arrangi.

La donna adulta che oggi è dietro a questa tastiera, le guarda e le contiene tutte e quattro e sorride. Un sorriso un po’ amaro, perché la vita non è mai quell’equazione certa che credi possa essere fino a che non ti ci lasci inzuppare un po’.
Un sorriso aperto e onesto, perché nonostante tutto, ha trovato un equilibrio.

Ha scoperto che fare solo la mamma non le sarebbe bastato mai.
Ha scoperto che non seguire i suoi figli non fa per lei, non delegherebbe mai a nessuno il suo ruolo di educatrice, consolatrice, confidente. Ed è stata una scoperta sorprendentemente recente.



Ogni cosa arriva quando sei pronto a riconoscerla, e accettarla. Per me ci sono voluti anni di mutilazioni dell’ego e della stima di sé stessi per accettare che la prospettiva di essere “solo” la madre dei miei figli mi facesse venir voglia di fuggire lontano. E no, non sto scherzando.

Ho vissuto la maternità come una bellissima prigione dorata, pur avendo voluto e cercato entrambi i miei figli, forse a causa del presupposto sbagliato: pensavo che la maternità sarebbe stata la mia realizzazione… Ma la maternità non è qualcosa che ci appartiene, è il creare qualcosa che appartiene al mondo, che non controlli, che non deve realizzare te quanto sé stessa, grazie anche a te.


Un figlio non può essere una realizzazione, è e deve rimanere troppo sé stesso per realizzare te.
Anni di disagio per capirlo, o meglio per accettarlo. Anni in cui ti senti la peggiore delle madri perché hai concettualmente bisogno di tempo da adulti e invece passi le giornate col cubotto parlotto. E non sei felice.
Certo, la scolarizzazione dei miei figli, iniziata al nido, ha contribuito alla mia sanità mentale, ma mancava la difficilissima fase di accettazione della differenza tra come ti immaginavi e come invece hai scoperto di essere. Per cui ok, senza bimbi perché a scuola, ma anche senza scopi.

Il mondo del lavoro non ama le madri, scioccamente e banalmente, figuriamoci quanto possa amarne una che deve ricominciare da zero dopo due maternità e in un periodo di crisi del suo settore. Così ero a casa, a sentirmi la peggiore delle madri, again, perché nonostante i miei figli fossero a scuola e avessi tempo, non riuscivo a trovare il mio spazio, l’oasi felice della mia realizzazione.

Cosa sai fare? Mah, scrivere, dicono. Ok. Te la senti? No.
Altre cose? Ho fantasia. Imparo in fretta.
Ed è così che ho ripreso in mano la mia passione per l’artigianato, scoprendo nuovi materiali, perfezionando tecniche, inventandomi qualcosa di nuovo e proponendolo nei mercatini. Amo la gente, amo lo scambio, amo mettere la faccia in ciò che faccio.

Quando la cosa stava iniziando a diventare più seria, avevo gettato delle basi, iniziavo a essere conosciuta almeno in ambito locale… siamo partiti.
Dire che l’abbia presa male, sotto questo aspetto, è un blando eufemismo: ero arrabbiata, delusa, scazzata… santo subito il lavoro di mio marito, ancora più santo perché era grazie a quello che stavamo vivendo quella realtà che poi ci avrebbe cambiato la vita, ma perché dovevo essere sempre io a rinunciare, a ricominciare, a ricostruire?
Siamo arrivati ad un passo dal divorzio, in quel periodo. E anche su questo, non sto scherzando.



Poi è arrivato Instamamme. Il mio lavoro.
È arrivato come un gioco, qualcosa in cui buttarsi perché tanto di tempo ne avevo, cosa potevo perderci?
È arrivato senza crederci troppo… ma dai, io che lavoro in gruppo? Con altre donne, poi. Non ho la costanza, non l’avrò mai. Non ho la pazienza, la conciliazione.
Però non avevo nulla da perdere, e mi sono detta “proviamo”.

E siamo ancora qui.
Oggi instamamme non mi fa pagare le bollette, ma mi rende contenta del tempo che gli dedico e del tempo che dedico ai miei figli, in uno strano equilibrio in cui mamma c’è ma sta lavorando oppure mamma c’è perché c’è bisogno che ci sia e pace; in cui se non posso lavorare oggi, lo farò stanotte. In cui il nostro datore di lavoro siamo noi stesse, ognuna con sé stessa e con le altre.

Oggi i miei figli considerano Instamamme un lavoro, e non solo perché mi occupa parte delle giornate o mi distoglie da loro. Ne fanno parte anche loro, si sentono coinvolti, vengono coinvolti, capiscono e apprezzano l’impegno che mi vedono mettere in quello che faccio, capiscono la stanchezza, apprezzano il risultato quando viene loro presentato.
È questo che rende instamamme il mio lavoro ed è curioso e bellissimo notare che non solo ha in qualche modo avuto origine dall’essere madre, ma ci si confronta ogni giorno.

Ognuno di questi due ambiti, la maternità e il lavoro, mi permette di migliorare me stessa nell’altro: sono una mamma migliore perché sono felice, sono una lavoratrice migliore perché l’essere madre mi fornisce stimoli e fa trovare soluzioni e conciliazioni che prima non avrei neanche mai preso in considerazione.


Diciamo che ho trovato un equilibrio, qualcosa che mi permetta di scegliere, di non delegare, che non mi faccia sentire prigioniera di un ruolo o di un lavoro in cui a dettare condizioni e tempi non sia io. Non è poco, davvero.
È fortuna, impegno e forse un pizzico di follia. Ma questo solo la donna matura poteva saperlo.



Con questo post partecipo all'iniziativa "Instamamme vuole anche te"... scopri come farlo anche tu! 

sabato 21 maggio 2016

Milano, che mi fa bene e mi fa male


Milano mi piace: mi è piaciuta in estate, deserta e con un cielo da cartolina, mi è piaciuta in un freddo capodanno con un’aria noncurante e sospesa, mi è piaciuta in questo maggio che sembra marzo, in metropolitane affollate e strade piene di turisti e persone indaffarate nei loro perché.




Questa volta, Milano è stata il mio primo MammacheBlog: un evento cui volevo assolutamente partecipare, dopo anni in differita. Un evento che mi ha fatto fare il pieno di sorrisi, di abbracci, di stimoli, di amicizia, di tante persone finalmente conosciute al di là di quello schermo che un po’ ci unisce tutte. Un evento in cui finalmente puoi toccare con mano l’impatto di ciò che hai costruito, dell’amore e dell’impegno che ci hai messo. Pare poco.



Questa volta Milano è stata una chiacchierata ad un tavolino di un bar, importante e preziosa. È stata l’abbracciare finalmente una persona con cui dividi scazzi, gioie, preoccupazioni, qualunque cosa da quattro anni, senza averla mai vista dal vivo. È stata un gruppo che ha la sua forza nella stima, nel conoscere punti forti e deboli l’una dell’altra, nel concederseli, nel perdonarseli, nello stimolarsi a mettersi in gioco, giorno dopo giorno.


Questa volta, Milano, è stata una strana quotidianità condivisa con una persona cui voglio molto bene. Sono stati momenti rubati agli impegni di ognuna, bei momenti, parole, racconti, confronto. Quelle cose che seppur brevi hanno un peso specifico enorme, nell’economia dell’esistenza.

Questa volta Milano è stata una strana autonomia cui non ero abituata: 5 giorni per me, per il mio lavoro (che mi concedo di non mettere tra virgolette, perché alla fine tale è devo essere la prima a riconoscerlo, per dargli la dignità che merita), lontana dai tre uomini più importanti della mia vita. Era già capitato, ma solo per problemi di salute. È stata una solitudine pesante e strana, fatta di sigarette per riempire un vuoto, fatta di negozi da vedere con tranquillità, fatta di voglia di condividere e mani libere da manine piccole e sudate. Forse ci si può fare l’abitudine, ma è presto.


Questa volta, Milano, è stata un’assoluta e limpida nostalgia di qualcosa che vorrei e che non avrò mai, a meno di ribaltare di nuovo tutto quanto. È stata una Milano dove tocchi le occasioni, dove il tuo lavoro avrebbe un senso decisamente diverso, dove scopri che un posto può essere un concime per ciò che stai piantando, semplicemente. Ho amato ogni viaggio in metro che mi ha portato a svolgere un lavoro, in quei giorni piovosi e un po’ pigiati di mille cose. Ho rimpianto ogni viaggio che non farò. Una scrivania in un posto bellissimo per lavorare confrontandosi con realtà diverse dalla tua ma recettive, costruttive, abituate allo scambio.

Ecco, Milano è stato tutto questo, con un piatto della bilancia che si alzava e si abbassava a seconda del contesto, della compagnia o della solitudine, del reale o del virtuale.

Milano mi ha lasciato piena di sorrisi e concretezza, di puntini di sospensione e congiuntivi. E forse, anche, un po’ vuota perché essere soddisfatti e felici è ben poca cosa se non puoi esserlo guardando in faccia chi ami.

venerdì 29 aprile 2016

Passioni e definizioni


Con il ritorno in Italia sono ovviamente arrivate nuove amicizie e conoscenze.

Che lavoro fai?
Domanda classica che mi lascia sempre un minimo in crisi.
Spiegare cosa faccio nella vita è complicato a volte anche a me stessa.
Perché io sono tante cose, tutte insieme, e le definizioni mi fanno paura… più che cosa sono, preferisco dire come le passioni hanno determinato e determinano la mia vita.

Sono un architetto. Non faccio l’architetto. Per i casi della vita, per scelta un po’ mia e un po’ degli altri.
Non c’è spazio che non veda come possibilità: questo fa di me un architetto ancora prima dei 40 esami che hanno fissato su carta che io lo sia davvero.
Sono un architetto, ma non è il mio lavoro. È più il mio modo di essere, in maniera complicata: vedo cose dove gli altri vedono spazi vuoti, oggetti, colori.

Sono una blogger?
Ecco, no, ho un blog in cui scrivo qualcosa e che qualcuno legge, non sono una blogger. Perché il blog lo scrivo per me, per fermare riflessioni, per scrivere, per raccontarmi e raccontare, per rileggermi e capirmi, anche a distanza di tempo. Mi emoziono sempre tanto se qualcuno mi legge o mi commenta, ma il fatto che qualcuno sia d’accordo con me o si emozioni a sua volta leggendomi non mi rende “qualcuno”, non mi fa guadagnare nessuno status particolare.

Mi fa paura chi si definisce “blogger”: si sta già dando un’etichetta che in realtà non lo qualifica, il più delle volte.
Un blogger fa pianificazioni temporali, si dà scadenze, fa calcoli di statistiche e opportunità sui giorni in cui pubblicare. Il più delle volte ha abdicato allo scrivere di sé a favore di scrivere di un personaggio che ha le sue stesse sembianze.
I blog nascevano anni fa come diari online, e sono oggi strumenti commerciali. Non posso farcela, sono ancora troppo romanticamente legata a quell’idea di raccontarsi per confrontarsi, in maniera gratuita, spontanea. Poi lo faccio eh, pianifico etc, ma in un progetto più grande e non solo mio.

Scrivo
un po’ ovunque e con facilità, parlando di qualsiasi cosa.
Ma non puoi definirti “scrittrice” solo perché tutto sommato sai scrivere e qualcuno legge quello che scrivi e gli piace pure. Sei una scrittrice se hai qualcosa di serio e intelligente da scrivere e se sai renderlo attraverso parole che sappiano trasmetterlo agli altri. Se scrivi per comunicare qualcosa e non quello che altri vogliono leggere. Se sai mettere in parole i personaggi che hai dentro, se riesci a concederti di farlo.
Scrivere è una passione, secondo me. Quando lo vedi come un lavoro, scrivi per gli altri.

Quando devo parlare di cosa faccio nella vita, oltre alla mamma ovviamente, parlo sempre di un gruppo di donne che un giorno si sono incontrate virtualmente e, nell’infinita vastità del mondo virtuale, hanno visto la possibilità di condivisione delle proprie storie e esperienze. Senza definirsi, senza credersi qualcosa. Senza avere la pretesa di avere cose più belle, più sensate, migliori, più intelligenti da dire rispetto ad altri.
Insieme ad altre splendide donne gestisco quella che nel tempo è diventata una community, senza che ci fosse la volontà o il calcolo di diventarlo. Mi condivido, faccio in modo che altri possano farlo. Organizzo tempo e contenuti per offrire spazi di confronto e riflessione.
Anche in questo caso definirsi è difficile, forse perché alla fine non mi interessa farlo.

All’atto pratico la cosa che mi è più facile far arrivare di me è l’aspetto creativo: creo e faccio mercatini. Trasformo le cose in altro, interpreto materiali e colori.
Nel passato ho fatto biedermeier, pittura su vetro, decoupage, mille altre cose. Creo bamboline e bigiotteria, adesso.
La domanda seguente è sempre: che tipo di bigiotteria fai? Quella che mi viene di fare, e solo rigorosamente pezzi unici.
Ma come pezzi unici? Ma non sarebbe più vantaggioso riprodurre cose che sai già che piacciono?
Sì, lo sarebbe. Ma se io stessa sono un continuo mutamento, che senso ha fermarmi immobile in una singola cosa in cui ieri vedevo qualcosa che oggi già non vedo più?
So vendere ciò che faccio proprio perché è parte di me, perché l’ho pensato, smontato, rifatto finché non fosse esattamente un qualcosa in grado di parlare un linguaggio che saprei rileggere. Ma non sono una commerciante, perché non saprei mai vendere una cosa a chi non sa apprezzarla. Non so mentire, mai stata capace.

Quindi sono un architetto, ma non lavoro da architetto.
Ho un blog, ma non sono una blogger.
Scrivo, ma non sono una scrittrice.
Gestisco, insieme ad altri, una community in cui, nello specifico, creo spazi e tempi in cui alcune persone parlano di sé, aiutandole a fa uscire da loro ciò che rappresenta loro e non me.
Realizzo cose artigianali, ma non sono un’artigiana. Le vendo, ma non sono una commerciante.

Sono tante cose ma alla fine forse sono solo Francesca, una persona comunissima con tante passioni… e forse mi basta anche così.

Con questo post partecipo all’iniziativa Instamamme vuoleanche te, se vuoi unisciti a noi!

mercoledì 27 aprile 2016

...ma non dovevamo vederci più?


Giovedì scorso abbiamo festeggiato il nono compleanno di Patato Grande, in un locale. La sua prima festa da grande, con i suoi compagni e qualche amichetto e come adulti solo quattro tra genitori e amici, ad un tavolo defilato.
Le chiacchiere, le risate, quel camminare in equilibrio tra l’infanzia e la voglia di essere (ed essere considerati) più grandi, i gruppetti di confidenze e complicità.
Due bimbe mi chiedono timide “Possiamo andare in bagno?”. Insieme.
E allora ti ricordi di quando una delle due bimbe eri tu e quel bagno era il posto in cui trovavi il coraggio di parlare di qualcosa che iniziava a farti battere il cuore, che non sapevi spiegare ma si era tutte una risatina sciocca e complice.

Ci ripensavo, il giorno dopo, mentre guidavo dalla Terra di Mezzo a Peppaland e ripensavo a quanto è bello quel periodo in cui pensi ancora di aver davanti un foglio bianco di destino e di avere tu il nero per i contorni e tutti i colori per renderlo come vuoi tu.
Quel periodo in cui pensi ancora che la persona di cui ti sei innamorata sarà LA persona, che cambierà per te, che ti salverà da te stessa, che la salverai tu da se stessa. Che arriverà ad amarti, che la porterai ad amarti, che tutto quel sentimento che provi non possa non sublimarsi in un qualcosa di comune.
Poi cresci e scopri che l’amore non è una lotta per cambiarsi a vicenda, ma una lotta con te stesso per accettare che l’altro non cambi per te. Che non ha senso rincorrere chi alla fine semplicemente non ti vuole, che devi lasciare all’altro la libertà di non volere te perché ama un’altra persona dello stesso amore che tu provi per lui. E non puoi farci nulla.
E non è questione di “meritarsi di meglio”: tutti meritiamo qualcuno che ci ami per quello che siamo, che ci scelga… è quello il meglio, e chi non sa offrircelo non ne ha colpa, non si può forzare qualcuno a darti ciò che non ha. Può darti se stesso, non quello che tu vuoi sia.

E ripensavo a quello che è stato il mio grande amore di quell’adolescenza che non sapevo gestire e che ho imparato a gestire troppo presto. Quello che ha innescato un meccanismo che, a prescindere da me, da lui o da quello che ci aveva unito, ha cambiato la mia vita, trasformando il punto esclamativo che vedevo nel mio futuro in mille interrogativi, mille paure, mille passi incerti.
Quello che per primo mi spinse oltre i confini del pudore di condividersi, quello che per primo mi fece sentire un dono, una cosa bella e preziosa nel mio essere donna.
Ci pensavo ricordando l’idea immatura che avessi dell’amore all’epoca: il suo amore mi avrebbe salvato, avrebbe dato un senso al buio che mi aveva terrorizzato e ancora mi terrorizzava. Sapere di amarlo mi dava uno scopo che non riuscivo a trovare solo in compagnia di me stessa.
Se dai a un altro questo genere di compito è ovvio che sarà un fallimento. Ma è ovvio solo troppo tardi, quando ormai ti sei compromessa talmente tanto che una strada comune è quantomeno difficile. E così finì, finì quando mi accorsi che potevo solo dare, che non avrei avuto mai.

“Scusa, sei Francesca?”
Alzi gli occhi e sì, sei Francesca.
La prima cosa che in qualche modo riconosci è la voce, così particolare, leggermente strascicata. Non la senti da 21 anni, ma potrebbe essere la sua.
E allora dici “no, dai, non è possibile” e uno sguardo ti dice che no, invece è proprio possibile.
Perché c’è stato un periodo in cui per uno sguardo da quegli occhi avresti, e hai, fatto qualunque cosa, senza domande, senza filtri. Nello sguardo che ci scambiamo c’è un film muto che ci ha visti protagonisti e che oggi guardiamo da sereni spettatori.
E improvvisamente quella storia comune subisce un upgrade e davanti a te non hai il ventenne che hai lasciato indietro, ma il quarantaduenne che è diventato nel frattempo. E anche tu hai il tuo carico di anni, di segni, di figli, di pesi portati e messi tra te e il mondo. Improvvisamente siete solo due quarantenni con una piccola, forse importante per il momento in cui è stata divisa, intimità in comune.
Due quarantenni consapevoli, forse, dell’importanza relativa reciproca avuta nella vita dell’altro ma assolutamente consci e contenti delle scelte che ne sono seguite su percorsi diversi.
Emozione e forse un po’ di imbarazzo, ma nessun battito strano del cuore, nessun rimpianto, nessun sospiro.
Un altro pezzo che si incastra, un pezzo che aspettava da tanto di trovare la giusta collocazione.

Strano come la vita ti sorprenda, come ti ponga risposte esattamente quando con serenità ti poni delle domande e sai guardarti dentro con consapevolezza e onestà, quando forse sei pronta a vederle per quelle che sono e non per quelle che avrebbero potuto essere.
Venerdì pomeriggio ho raddrizzato un punto interrogativo e me ne sono andata, stupita ma serena, con un esclamativo in più addosso. Che aspettava da vent’anni.

mercoledì 30 marzo 2016

Amicizie e generazioni


Se vent’anni fa mi avessero chiesto di parlare di noi tre, avrei descritto qualcosa di simile a questo video.



La vita non ci ha mai messo in quella condizione, ma nutrivo la certezza che in caso sarebbe andata così. Che saremmo stati noi tre, che ci saremmo stati sempre, che avremmo sempre saputo come far star bene l’altro, che avremmo trovato sempre il modo, il tempo.

Noi che eravamo confidenze, sorrisi, lacrime, appunti prestati, scherzi, cose più serie.
Noi che eravamo telefonate per sfogarci, perché cercavamo aiuto, perché pensavamo che l’altro potesse averne bisogno, o solo per dirci che eravamo felici.
Non c’era niente, niente, della nostra vita che non passasse attraverso noi tre.

Abbiamo ascoltato e ci siamo fatti ascoltare. Abbiamo fatto cazzate e ne abbiamo riso. Abbiamo fatto cazzate più grandi e ne abbiamo pianto.
Abbiamo conosciuto amici, amanti, fidanzati, genitori. Ma non i figli.

Ed è stata una mancanza fatale, quella che ci ha lasciato in piedi sulla soglia e non ci ha fatto salire il gradino.

Forse siamo rimasti cristallizzati a quei tre seduti sui muretti, in fondo. Legati a quell’aspetto e a quel periodo della vita, forse abbiamo avuto paura di ammettere un cambiamento, di viverlo.
Non che non si faccia più parte della vita degli altri due. È bello sentirsi e raccontarsi, meraviglioso vedersi.
Lui è ancora quella sorta di fratello che non ho mai avuto, lei è ancora quella che apre i miei cassetti della mente, tocca e mette a posto, l’unica a cui concedo di farlo.
Ma ci manca un pezzo, un pezzo fondamentale.

Anni fa i miei figli segnarono uno spartiacque pesante e profondo: cambiarono me senza cambiare loro. Ero la prima a diventare genitore, e alla lontananza fisica si aggiunse anche quella mentale.
Avevo sempre immaginato uno scenario diverso, per noi tre. Avevo immaginato che sarebbero stati gli zii dei miei figli, una presenza “reale” e importante come lo erano stati nella mia vita… e non fu così. Per tanti motivi, senza dolo ma senza dubbio dolorosamente.

Sono ancora gli zii per i miei bimbi, perché sono io a farglieli vivere come tali, a parlargli di loro in quei termini. Spero sempre che si arrivi a ricomporre il virtuale col reale, perché alla fin fine non è colpa di nessuno, semplicemente accade che la vita ti separi un po’.

La separazione non comporta nulla in un rapporto che ha una storia: per me loro sono loro, il loro posto non è vacante né in discussione… nonostante i momenti pesanti, le recriminazioni, le delusioni che ognuno di noi potrebbe serenamente fare all’altro. Una volta avevano importanza; cresci e capisci che quello che conta, se ami qualcuno, è ciò che ti lega, non ciò che ti separa.
Per la seconda generazione del nostro rapporto la storia non è un vissuto ma un narrato, e mi assale sempre un po’ di rimpianto per qualcosa che avremmo tutti, io per prima, potuto gestire meglio.

Ci sarà tempo, ci sarà modo, lo troveremo.
Questo pensavo guardando questo video: forse quei tre ragazzi legati da un rapporto così speciale potrebbero un domani essere i nostri figli… forse no, ma è bello pensare che possa essere così.
O forse è solo il giro di boa dei quaranta che si avvicina e mi prende così. Chi lo sa.

martedì 15 marzo 2016

Grand Bassam, 13 marzo 2016.


Alcune cose che accadono ci sconvolgono più di altre, non tanto perché siamo noncuranti rispetto ad alcune, quanto piuttosto perché siamo più empatici nei confronti delle altre.
Empatia vuol dire capacità di immedesimazione, tra le altre cose.
È ovvio che più i gradi di separazione tra te e un evento, in termini di cultura, geografia, società, religione, sono alti in numero e meno sarai portato all’empatia. Potrai provare pietà, gioia o orrore, ma difficilmente potrai immedesimarti ed entrare nel cuore pulsante di una notizia, che sia bella o sia brutta.

Su quella spiaggia di Grand Bassam, fino a meno di 9 mesi fa, ci camminavo anche io. Ci passeggiavo, mi bagnavo i piedi nell’Oceano lottando con la corrente, sorridevo alle persone, compravo semi per le mie collane o parei da indossare sul costume.
In quell’Oceano mio marito faceva il bagno.
Su quelle spiagge, in quegli stessi stabilimenti, ci ho portato i miei figli quasi ogni weekend di sole.
Ce li ho portati con fiducia e con gioia, per cancellare il grigiore di una città in cui lo smog ti fa dimenticare che il cielo sa e può essere azzurro.

Se fossimo stati ancora in Costa d’Avorio, ieri saremmo stati quasi sicuramente a Grand Bassam, probabilmente proprio all’Etoile du Sud, come tante altre volte prima. Avremmo salutato il venditore di artigianato maliano, come sempre avrei finito per comprare perle e semi che già avevo ad un prezzo più alto del loro valore, fingendo di non saperlo. Saremmo stati seduti al tavolo che guarda verso l’Oceano, o forse saremmo stati in piedi a servirci per il pranzo a buffet della domenica.
E da lì avremmo visto arrivare la barca.

Quei corpi neri sulla spiaggia, fotografati nella loro disarmante crudezza, sono i corpi di persone che in qualche modo ho conosciuto, salutato, cui magari ho perfino sorriso, con cui ho fatto la fila per il pranzo o per il bagno, con cui i miei figli hanno nuotato in piscina.
Quei corpi bianchi potevano essere quelli di miei amici o di persone che hanno fatto le mie stesse identiche scelte finendo in quel luogo magari per caso, come me.
Quei corpi, tutti, indifferentemente, sono una ferita per un posto del mondo che cerca il suo riscatto e guarda ad un futuro, che sia il migliore possibile oppure no, e lo fa con fiducia.
Quei corpi, tutti, neri e bianchi, indifferentemente, sono una ferita per me, che ho amato e amo ancora di un amore contrastato e complesso un Paese che tanto mi ha dato e tanto ha voluto in cambio.

Ieri sera volevo scappare dai miei figli, per rassicurarmi di saperli al sicuro. Per rassicurami di essere al sicuro. Per cancellarmi di dosso un permeante senso di colpa per qualcosa che sarebbe potuto accadere. Per giurar loro che mai avrei pensato ci potesse essere qualcosa di così orrendo da cui doverli difendere, in quelle giornate di sole. Per farmi assolvere per qualcosa di indefinito e potenziale ma talmente enorme in peso da tenerti gli occhi aperti a tarda notte.
Non l’ho fatto, avevo paura che arrivasse loro il mio turbamento: l’empatia è una cosa importantissima, ma forse dovremmo preservarne i bambini, lasciare loro ancora la fiducia che basti la mano di mamma e papà, per essere al sicuro.

E mi fa rabbia e vergogna l’umanissimo pensiero che mi colloca felicemente lontana, e mi fa piangere e restare senza fiato quel pezzo di cuore che ho lasciato lì. Da ieri sono dolorosamente divisa tra un’assurda sensazione di fiducia tradita e un’acutissima nostalgia che mi colloca ancora su quelle strade.
Nonostante tutto, nonostante ieri, la Costa d’Avorio ci manca ancora, e credo non smetterà mai di mancarci. Ed è lì che capisci che l’unica cosa che ti salva da orrore e paura è l’amore, in tutte le sue forme.

martedì 8 marzo 2016

Lui e lei, noi...


C’erano una volta due ragazzini.
Il ragazzino aveva i capelli che crescevano dritti e un’aria pulita che sapeva di rispetto.
La ragazzina aveva qualche chilo in più e una pelle spruzzata di sole.
Passavano le mattine ad un’aula di distanza, nello stesso corridoio. Incrociandosi, sfiorando tra loro quelle loro vite acerbe e caleidoscopiche di possibilità, perdendosi nelle migliaia di occhi e sguardi che attraversavano quei corridoi.
Un giorno il ragazzino e la ragazzina si conobbero, e si piacquero. Lui si innamorò delle sue lentiggini e della sua intraprendenza, lei di quell’aria pulita e dell’odore della curva del suo collo.
Lui aspettava fuori, vicino al muretto, che uscisse anche la sua classe. Lei lo ricompensava di sorrisi.
Lui rubava, per lei, rami di mimosa dal cortile del giardino vicino, lei si riempiva occhi e naso di colori e odori, col cuore che prendeva un ritmo sconosciuto e diverso.
Negli anni quei ragazzini si sono visti attraversare mari in tempesta, perdendosi e ritrovandosi nelle mani intrecciate e negli abbracci silenziosi.
Sono diventati meno piccoli, meno sicuri, hanno piegato i loro futuri in condizionali, accettando la grande sfida del crescere.
Lui ha smesso di scavalcare muri per rubare fiori, lei ha smesso di permettersi l’intraprendenza.
Lui non ha mai smesso di amare le sue lentiggini e i suoi chili di troppo, lei non ha mai smesso di sentirsi al sicuro appoggiata nella curva perfetta tra il suo collo e la sua spalla.
Oggi quel ragazzino e quella ragazzina non ci sono più. Sono adulti, ormai. Sono un uomo e una donna.  Alle loro mani intrecciate se ne sono aggiunte di più piccole, il loro percorso oggi scorre in ritmi dettati da musiche che non osavano neanche immaginare, su quei muretti pieni di sole.
Ma quando le mimose sono in fiore, il cuore di lei batte ancora a quel ritmo oggi meno sconosciuto ma ancora diverso.
Forse questo li ha salvati: sono ancora due ragazzini, in vestiti troppo grandi per loro.